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2022-08-04
Nuovi dati dall’Inghilterra. Boom di morti under 40 nei mesi della vaccinazione
Dei 500 morti under 40 di troppo, scomparsi in Italia durante i mesi caldi della campagna di vaccinazione, nessuno parla più. L’interrogazione al ministro Roberto Speranza, depositata dal deputato leghista Claudio Borghi, è rimasta senza risposta. E non sono state ancora chiarite le cause dei decessi di quei giovani: suicidi? Malattie trascurate a causa della pandemia? Malori improvvisi? Provocati, eventualmente, dal medicinale di Pfizer, o dalla cattiva sorte?
Intanto, nuovi dati allarmanti arrivano da Oltremanica. Lo vogliamo chiarire subito, visto che sono stati cavalcati da qualche testata di dubbia affidabilità: essi non costituiscono la prova maestra che il vaccino anti Covid abbia stroncato frotte di malcapitati. Rimane comunque un punto fermo: quando subentrano patenti anomalie statistiche, le autorità dovrebbero drizzare le antenne.
Un pingue cruscotto cui attingere è quello dell’Office for national statistics - in pratica, l’Istat londinese. Esaminando la panoramica dei morti per tutte le cause da gennaio 2021 a gennaio 2022, nella fascia d’età 18-39 anni, si scopre che il tasso di mortalità ogni 100.000 abitanti risultava quasi sempre più alto tra i vaccinati che tra i non vaccinati. La forbice più ampia riguardava la fetta di popolazione che aveva ricevuto due dosi da almeno 21 giorni: a settembre 2021, tra costoro si contavano 125,9 decessi ogni 100.000 persone, contro i 46,8 tra i non vaccinati. Un tasso più elevato del 169%. Il picco è stato però raggiunto lo scorso novembre: 33,4 morti ogni 100.000 abitanti tra i non vaccinati, contro 107 tra i vaccinati con due punture. Il 220,4% in più.
È importante sottolineare che non ci troviamo dinanzi a cifre assolute, bensì a un tasso calcolato su 100.000 individui: dunque, non vale la vecchia obiezione del paradosso statistico, quell’illusione attribuibile al fatto che i vaccinati sono molti di più dei non vaccinati, in tutti i Paesi occidentali.
Alla fine, in media, in Inghilterra, chi ha ricevuto il doppio shot, tra gennaio 2021 e gennaio 2022, ha avuto il 91,4% in più di probabilità di morire rispetto ai renitenti all’iniezione. D’altronde, il farmaco anti Covid protegge dal Sars-Cov-2, non dagli altri milioni di insidie che possono attentare alla vita umana. La questione essenziale diventa capire da cosa dipenda il gigantesco divario.
Gli under 40 inoculati potrebbero essere stati in parte uccisi proprio dal virus - un fallimento del medicinale che doveva schermarli, se così fosse. Oppure, nel bel mezzo di una pandemia che ha sovraccaricato gli ospedali, potrebbero essere rimasti vittime di altre malattie trascurate dal sistema sanitario: esami rinviati e terapie saltate, purtroppo, ammazzano. Altrimenti, bisognerebbe pensare a pure fatalità: i vaccinati hanno goduto di più vita sociale, quindi sono stati più esposti, ad esempio, a sinistri stradali. La quarta ipotesi - la più inquietante - è che il vaccino abbia giocato un ruolo in quelle morti; e il fatto che i più falcidiati fossero i soggetti inoculati due volte, a meno di un mese dalla seconda iniezione, sarebbe un indizio in quella direzione. In effetti, le miocarditi - potenzialmente fatali - colpiscono soprattutto dopo che è stato completato il ciclo di vaccinazione.
Il metodo per esplorare meglio questo scenario esiste: bisogna verificare qual è la situazione dei disturbi cardiaci nel Paese in esame. Ci aiutano le informazioni diffuse dal West Midlands ambulance service university Nhs foundation trust, in seguito a una richiesta formale di accesso agli atti presentata in Inghilterra.
Risultato: il numero di chiamate di soccorso per problemi al cuore, negli anni 2021 e 2022, è costantemente superiore a quello del periodo precedente (2017-2019; per quest’anno, i dati si fermano a marzo). Curiosamente, nella popolazione under 30, quella che ha iniziato più tardi a vaccinarsi in massa, l’incremento è scattato ad aprile 2021 e la tendenza si è mantenuta fino al termine delle rilevazioni. Per quanto concerne il 2022, già cinque mesi fa erano stati registrati quasi altrettanti casi che nel 2017. Strano, no? Eppure, sono osservazioni coerenti con quelle effettuate in Israele. Lì, come aveva rivelato uno studio uscito su Nature, nei mesi della campagna vaccinale, c’era stato un aumento di oltre il 25% di chiamate d’emergenza per arresti cardiaci, nella fascia d’età 16-40 anni.
Un problema simile è emerso in Scozia, dove, stando al database di Public health Scotland, rispetto alla media storica 2018-2019, nel periodo 2021-2022, si sono moltiplicati le richieste di soccorso e gli interventi d’urgenza per patologie cardiovascolari, miocarditi incluse, nelle persone di età compresa tra 15 e 44 anni. In alcune settimane, si sono raggiunti addirittura picchi del +117%. Colpa del vaccino? Del Covid? Del cibo spazzatura divorato a quintali durante il lockdown? Sarebbe bello accertarlo. Fosse solo per zittire i complottisti…
Vaiolo, spunta l’ipotesi quarantena
Ci siamo. Allo Spallanzani scaldano i motori per inoculare gli infettati dal Monkeypox (Mpx). Una circolare del ministro della Salute, Roberto Speranza, è già uscita, con indicazione di possibili quarantene e l’annuncio di «apposite indicazioni sulla strategia di vaccinazione in Italia contro il vaiolo delle scimmie», che saranno fornite «con successiva pubblicazione». L’attesa si fa grande, qualche timore comincia a serpeggiare anche se la campagna anti Covid ha talmente logorato i cittadini da spingere molti a brandire i forconi, pur di non sottostare a nuovi diktat vaccinali.
Facciamo il punto. I casi di Mpx in Italia risultano attualmente 505 e riguardano quasi esclusivamente uomini (le donne contagiate sono solo 4). Il direttore generale per la prevenzione, Gianni Rezza, scrive nella circolare che «principalmente» sono stati colpiti nel mondo «gli uomini che hanno rapporti sessuali con uomini», però poi si affretta a precisare che questo vaiolo «può essere trasmesso a chiunque, indipendentemente dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere, attraverso il contatto con fluidi corporei, contatto con le lesioni o oggetti condivisi». Non sia mai che altri circoli gay si offendano, o che qualche maschio pensi di essere al sicuro perché va solo con le donne.
L’Oms ha dichiarato il vaiolo delle scimmie un’emergenza sanitaria globale, ma nei 78 Paesi dove sono stati segnalati casi, i morti sarebbero 5 in Africa, 2 in Spagna, 1 in Brasile. Non è che ci stiamo preoccupando troppo per una malattia dalla letalità così bassa? Speranza vuole identificare al più presto i contatti stretti dei contagiati, che vanno tracciati sul posto di lavoro, tra i passeggeri con i quali abbiano condiviso più di quattro ore di viaggio sui mezzi di trasporto, nelle scuole e negli asili, solo per citare alcune delle situazioni da passare allo scanner.
Chi lo farà, non si sa. Il personale sanitario è già troppo collassato, per preoccuparsi del tracciamento di persone venute a contatto con omosessuali. Deve fare i conti con medici e infermieri che mancano all’appello perché sospesi, e nei reparti, nelle sale chirurgiche c’è pure l’emergenza ignorata delle infezioni ospedaliere, che nel 2003 provocarono 18.668 decessi, raddoppiati nel 2016 quando se ne registrarono 49.301.
Curiosa, tanta agitazione per l’Mpx, mentre nessun allarme è rivolto ai casi di tubercolosi. Non sono affatto pochi, nel nostro Paese erano 3.346 nel 2019 ma il ministero della Salute è così poco preoccupato dell’incidenza che nemmeno aggiorna i dati sul sito di Epicentro. Eppure la Tbc è una malattia infettiva e contagiosa, nelle nostre «città metropolitane l’incidenza è fino a quattro volte maggiore rispetto alla media nazionale e il numero dei casi di tubercolosi resistente ai farmaci è in progressivo aumento», segnala l’Università La Sapienza di Roma.
Ben 2.336 persone (il 69,8%) dei casi totali segnalati in Italia (e nei Paesi non endemici, ricorda Epicentro, un caso è considerato un focolaio), presentava una Tbc polmonare. Più della metà dei malati di tisi conteggiati nel 2019 era di origine straniera e il nostro era «l’unico tra i Paesi Eu/Eea che ha riportato una frequenza di casi nuovi di Tbc più elevata tra le femmine rispetto ai maschi». Qualcuno ricorda circolari relative ad allarmi tubercolosi?
Lo scorso marzo, nell’annunciare il «Tb day 2022. Ritorno al futuro», convegno organizzato a Pavia per ricordare la scoperta del bacillo di Koch in una delle culle della tisiologia nazionale, il Policlinico Sant’Orsola di Bologna ha dichiarato che «nel 2020, durante la pandemia Covid-19, i decessi per tubercolosi nel mondo sono aumentati», che «le affinità tra Covid-19 e tubercolosi sono molte», come il fatto che si tratti di malattie contagiose e che si diffondono per via aerea. «Altrettanto importanti sono però le diversità», sottolineava. «La mortalità nella tubercolosi è più alta, così come molto più esteso è il suo periodo d’incubazione». Aggiungeva che il Covid-19 si diffonde in maniera molto più veloce della Tbc «ma soprattutto gode di una “percezione” collettiva elevatissima instaurata dai grandi mezzi di comunicazione, mentre la tubercolosi sembra essere “dimenticata”, anche a livello diagnostico, con conseguente calo nei finanziamenti per la ricerca».
Le due righe finali sarebbero da far leggere al ministro Speranza e a quanti adesso agitano lo spettro del vaiolo delle scimmie: «Ancora oggi, 140 anni dopo la scoperta del bacillo responsabile, si muore percentualmente più di tubercolosi che di Covid-19».
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Picchi di decessi tra gli inoculati con due dosi (fino al 220% in più rispetto ai renitenti). Da Londra alla Scozia, impennata delle chiamate d’emergenza per disturbi cardiaci.Vaiolo, spunta l’ipotesi quarantena. Una circolare del dicastero annuncia isolamento dei contatti degli infetti e linee guida per l’immunizzazione. Un panico assente nel caso di malattie ben più letali, come la Tbc.Lo speciale contiene due articoli.Dei 500 morti under 40 di troppo, scomparsi in Italia durante i mesi caldi della campagna di vaccinazione, nessuno parla più. L’interrogazione al ministro Roberto Speranza, depositata dal deputato leghista Claudio Borghi, è rimasta senza risposta. E non sono state ancora chiarite le cause dei decessi di quei giovani: suicidi? Malattie trascurate a causa della pandemia? Malori improvvisi? Provocati, eventualmente, dal medicinale di Pfizer, o dalla cattiva sorte?Intanto, nuovi dati allarmanti arrivano da Oltremanica. Lo vogliamo chiarire subito, visto che sono stati cavalcati da qualche testata di dubbia affidabilità: essi non costituiscono la prova maestra che il vaccino anti Covid abbia stroncato frotte di malcapitati. Rimane comunque un punto fermo: quando subentrano patenti anomalie statistiche, le autorità dovrebbero drizzare le antenne. Un pingue cruscotto cui attingere è quello dell’Office for national statistics - in pratica, l’Istat londinese. Esaminando la panoramica dei morti per tutte le cause da gennaio 2021 a gennaio 2022, nella fascia d’età 18-39 anni, si scopre che il tasso di mortalità ogni 100.000 abitanti risultava quasi sempre più alto tra i vaccinati che tra i non vaccinati. La forbice più ampia riguardava la fetta di popolazione che aveva ricevuto due dosi da almeno 21 giorni: a settembre 2021, tra costoro si contavano 125,9 decessi ogni 100.000 persone, contro i 46,8 tra i non vaccinati. Un tasso più elevato del 169%. Il picco è stato però raggiunto lo scorso novembre: 33,4 morti ogni 100.000 abitanti tra i non vaccinati, contro 107 tra i vaccinati con due punture. Il 220,4% in più. È importante sottolineare che non ci troviamo dinanzi a cifre assolute, bensì a un tasso calcolato su 100.000 individui: dunque, non vale la vecchia obiezione del paradosso statistico, quell’illusione attribuibile al fatto che i vaccinati sono molti di più dei non vaccinati, in tutti i Paesi occidentali. Alla fine, in media, in Inghilterra, chi ha ricevuto il doppio shot, tra gennaio 2021 e gennaio 2022, ha avuto il 91,4% in più di probabilità di morire rispetto ai renitenti all’iniezione. D’altronde, il farmaco anti Covid protegge dal Sars-Cov-2, non dagli altri milioni di insidie che possono attentare alla vita umana. La questione essenziale diventa capire da cosa dipenda il gigantesco divario. Gli under 40 inoculati potrebbero essere stati in parte uccisi proprio dal virus - un fallimento del medicinale che doveva schermarli, se così fosse. Oppure, nel bel mezzo di una pandemia che ha sovraccaricato gli ospedali, potrebbero essere rimasti vittime di altre malattie trascurate dal sistema sanitario: esami rinviati e terapie saltate, purtroppo, ammazzano. Altrimenti, bisognerebbe pensare a pure fatalità: i vaccinati hanno goduto di più vita sociale, quindi sono stati più esposti, ad esempio, a sinistri stradali. La quarta ipotesi - la più inquietante - è che il vaccino abbia giocato un ruolo in quelle morti; e il fatto che i più falcidiati fossero i soggetti inoculati due volte, a meno di un mese dalla seconda iniezione, sarebbe un indizio in quella direzione. In effetti, le miocarditi - potenzialmente fatali - colpiscono soprattutto dopo che è stato completato il ciclo di vaccinazione. Il metodo per esplorare meglio questo scenario esiste: bisogna verificare qual è la situazione dei disturbi cardiaci nel Paese in esame. Ci aiutano le informazioni diffuse dal West Midlands ambulance service university Nhs foundation trust, in seguito a una richiesta formale di accesso agli atti presentata in Inghilterra. Risultato: il numero di chiamate di soccorso per problemi al cuore, negli anni 2021 e 2022, è costantemente superiore a quello del periodo precedente (2017-2019; per quest’anno, i dati si fermano a marzo). Curiosamente, nella popolazione under 30, quella che ha iniziato più tardi a vaccinarsi in massa, l’incremento è scattato ad aprile 2021 e la tendenza si è mantenuta fino al termine delle rilevazioni. Per quanto concerne il 2022, già cinque mesi fa erano stati registrati quasi altrettanti casi che nel 2017. Strano, no? Eppure, sono osservazioni coerenti con quelle effettuate in Israele. Lì, come aveva rivelato uno studio uscito su Nature, nei mesi della campagna vaccinale, c’era stato un aumento di oltre il 25% di chiamate d’emergenza per arresti cardiaci, nella fascia d’età 16-40 anni.Un problema simile è emerso in Scozia, dove, stando al database di Public health Scotland, rispetto alla media storica 2018-2019, nel periodo 2021-2022, si sono moltiplicati le richieste di soccorso e gli interventi d’urgenza per patologie cardiovascolari, miocarditi incluse, nelle persone di età compresa tra 15 e 44 anni. In alcune settimane, si sono raggiunti addirittura picchi del +117%. Colpa del vaccino? Del Covid? Del cibo spazzatura divorato a quintali durante il lockdown? Sarebbe bello accertarlo. Fosse solo per zittire i complottisti…<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/inghilterra-boom-morti-under40-vaccinazione-2657803753.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="vaiolo-spunta-lipotesi-quarantena" data-post-id="2657803753" data-published-at="1659567913" data-use-pagination="False"> Vaiolo, spunta l’ipotesi quarantena Ci siamo. Allo Spallanzani scaldano i motori per inoculare gli infettati dal Monkeypox (Mpx). Una circolare del ministro della Salute, Roberto Speranza, è già uscita, con indicazione di possibili quarantene e l’annuncio di «apposite indicazioni sulla strategia di vaccinazione in Italia contro il vaiolo delle scimmie», che saranno fornite «con successiva pubblicazione». L’attesa si fa grande, qualche timore comincia a serpeggiare anche se la campagna anti Covid ha talmente logorato i cittadini da spingere molti a brandire i forconi, pur di non sottostare a nuovi diktat vaccinali. Facciamo il punto. I casi di Mpx in Italia risultano attualmente 505 e riguardano quasi esclusivamente uomini (le donne contagiate sono solo 4). Il direttore generale per la prevenzione, Gianni Rezza, scrive nella circolare che «principalmente» sono stati colpiti nel mondo «gli uomini che hanno rapporti sessuali con uomini», però poi si affretta a precisare che questo vaiolo «può essere trasmesso a chiunque, indipendentemente dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere, attraverso il contatto con fluidi corporei, contatto con le lesioni o oggetti condivisi». Non sia mai che altri circoli gay si offendano, o che qualche maschio pensi di essere al sicuro perché va solo con le donne. L’Oms ha dichiarato il vaiolo delle scimmie un’emergenza sanitaria globale, ma nei 78 Paesi dove sono stati segnalati casi, i morti sarebbero 5 in Africa, 2 in Spagna, 1 in Brasile. Non è che ci stiamo preoccupando troppo per una malattia dalla letalità così bassa? Speranza vuole identificare al più presto i contatti stretti dei contagiati, che vanno tracciati sul posto di lavoro, tra i passeggeri con i quali abbiano condiviso più di quattro ore di viaggio sui mezzi di trasporto, nelle scuole e negli asili, solo per citare alcune delle situazioni da passare allo scanner. Chi lo farà, non si sa. Il personale sanitario è già troppo collassato, per preoccuparsi del tracciamento di persone venute a contatto con omosessuali. Deve fare i conti con medici e infermieri che mancano all’appello perché sospesi, e nei reparti, nelle sale chirurgiche c’è pure l’emergenza ignorata delle infezioni ospedaliere, che nel 2003 provocarono 18.668 decessi, raddoppiati nel 2016 quando se ne registrarono 49.301. Curiosa, tanta agitazione per l’Mpx, mentre nessun allarme è rivolto ai casi di tubercolosi. Non sono affatto pochi, nel nostro Paese erano 3.346 nel 2019 ma il ministero della Salute è così poco preoccupato dell’incidenza che nemmeno aggiorna i dati sul sito di Epicentro. Eppure la Tbc è una malattia infettiva e contagiosa, nelle nostre «città metropolitane l’incidenza è fino a quattro volte maggiore rispetto alla media nazionale e il numero dei casi di tubercolosi resistente ai farmaci è in progressivo aumento», segnala l’Università La Sapienza di Roma. Ben 2.336 persone (il 69,8%) dei casi totali segnalati in Italia (e nei Paesi non endemici, ricorda Epicentro, un caso è considerato un focolaio), presentava una Tbc polmonare. Più della metà dei malati di tisi conteggiati nel 2019 era di origine straniera e il nostro era «l’unico tra i Paesi Eu/Eea che ha riportato una frequenza di casi nuovi di Tbc più elevata tra le femmine rispetto ai maschi». Qualcuno ricorda circolari relative ad allarmi tubercolosi? Lo scorso marzo, nell’annunciare il «Tb day 2022. Ritorno al futuro», convegno organizzato a Pavia per ricordare la scoperta del bacillo di Koch in una delle culle della tisiologia nazionale, il Policlinico Sant’Orsola di Bologna ha dichiarato che «nel 2020, durante la pandemia Covid-19, i decessi per tubercolosi nel mondo sono aumentati», che «le affinità tra Covid-19 e tubercolosi sono molte», come il fatto che si tratti di malattie contagiose e che si diffondono per via aerea. «Altrettanto importanti sono però le diversità», sottolineava. «La mortalità nella tubercolosi è più alta, così come molto più esteso è il suo periodo d’incubazione». Aggiungeva che il Covid-19 si diffonde in maniera molto più veloce della Tbc «ma soprattutto gode di una “percezione” collettiva elevatissima instaurata dai grandi mezzi di comunicazione, mentre la tubercolosi sembra essere “dimenticata”, anche a livello diagnostico, con conseguente calo nei finanziamenti per la ricerca». Le due righe finali sarebbero da far leggere al ministro Speranza e a quanti adesso agitano lo spettro del vaiolo delle scimmie: «Ancora oggi, 140 anni dopo la scoperta del bacillo responsabile, si muore percentualmente più di tubercolosi che di Covid-19».
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Veniamo al profeta, Pellegrino Artusi, il Garibaldi della cucina tricolore. Scrivendo il libro La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (1891), l’uomo di Forlimpopoli trapiantato a Firenze creò un’identità gastronomica comune nel Paese da poco unificato, raccogliendo le ricette tradizionali delle varie Regioni - e subregioni - italiane valorizzando le tipicità e diffondendone la conoscenza. È così che suscitò uno slancio di orgoglio nazionale per le diverse cucine italiane che, nei secoli, si sono caratterizzate ognuna in maniera diversa, attraverso i vari coinvolgimenti storici, la civiltà contadina, la cucina di corte (anche papale), quella borghese, le benefiche infiltrazioni e contaminazioni di popoli e cucine d’oltralpe e d’oltremare, e, perché no, anche attraverso la fame e la povertà.
Orio Vergani, il custode, giornalista e scrittore milanese (1898-1960), è una figura di grande rilievo nella storia della cucina patria. Fu lui insieme ad altri innamorati a intuire negli anni Cinquanta del secolo scorso il rischio che correvano le buone tavole del Bel Paese minacciate dalla omologazione e dall’appiattimento dei gusti, insidiate da una cucina industriale e standardizzata. Fu lui a distinguere i pericoli nel turismo di massa e nell’alta marea della modernizzazione. Il timore e l’allarme sacrosanto di Vergani erano dettati dalla paura di perdere a tavola l’autenticità, la qualità e il legame col territorio della nostra tradizione gastronomica. Per combattere la minaccia, l’invitato speciale fondò nel 1953 l’Accademia italiana della cucina sottolineando già nel nome la diversità dell’arte culinaria nelle varie parti d’Italia.
L’Accademia, istituzione culturale della Repubblica italiana, continua al giorno d’oggi, con le sue delegazioni in sessanta Paesi del mondo e gli 8.000 soci, a portare avanti il buon nome della cucina italiana. Non è un caso se a sostenere il progetto all’Unesco siano stati tre attori, due dei quali legati al «profeta» romagnolo e al «custode» milanese: la Fondazione Casa Artusi di Forlimpopoli e l’Accademia italiana della cucina nata, appunto, dall’intuizione di Orio Vergani. Terzo attore è la rivista La cucina Italiana, fondata nel 1929. Paolo Petroni, presidente dell’Accademia, commenta: «Il riconoscimento dell’Unesco rappresenta una grandissima medaglia al valore, per noi. La festeggeremo il terzo giovedì di marzo in tutte le delegazioni del mondo e nelle sedi diplomatiche con una cena basata sulla convivialità e sulla socialità. Il menu? Libero. Ogni delegazione lo rapporterà al territorio e alla tradizione.
L’Unesco ha riconosciuto la cucina italiana patrimonio immateriale andando oltre alle ricette e al semplice nutrimento, considerandola un sistema culturale, rafforzando il ruolo dell’Italia come ambasciatrice di un modello culturale nel mondo in quanto la nostra cucina è una pratica sociale viva, che trasmette memoria, identità e legame con il territorio, valorizzando la convivialità, i rituali, la condivisione famigliare, come il pranzo della domenica, la stagionalità e i gesti quotidiani, oltre a promuovere inclusione e sostenibilità attraverso ricette antispreco tramandate da generazione in generazione. Il riconoscimento non celebra piatti specifici come è stato fatto con altri Paesi, ma l’intera arte culinaria e culturale che lega comunità, famiglie e territori attraverso il cibo. Riconosce l’intelligenza delle ricette tradizionali nate dalla povertà contadina, che insegnano a non sprecare nulla, un concetto di sostenibilità ancestrale. Incarna il legame tra la natura, le risorse locali e le tradizioni culturali, riflettendo la diversità dei paesaggi italiani».
Peccato che non tutti la pensino così, vedi l’attacco del critico e scrittore britannico di gastronomia Giles Coren sul Times. Dopo aver bene intinto la penna nell’iperbole, nella satira e nell’insulto, Coren è partito all’attacco alla baionetta contro, parole sue, il riconoscimento assegnato dall’Unesco, riconoscimento prevedibile, servile, ottuso e irritante. Dice l’opinionista prendendosela anche con i suoi connazionali snob: «Da quando scrivo di ristoranti, combatto contro la presunta supremazia del cibo italiano. Perché è un mito, un miraggio, una bugia alimentata da inglesi dell’alta borghesia che, all’inizio degli anni Novanta, trasferirono le loro residenze estive in Toscana».
Risponde Petroni: «Credo che l’articolo di Coren sia una burla, lo scherzo di uno che in fondo, e lo ha dimostrato in altri articoli, apprezza la cucina italiana. Per etichettare il tutto come burla, basta leggere la parte in cui elogia la cucina inglese candidandola al riconoscimento Unesco per il valore culturale del “toast bruciato appena prima che scatti l’allarme antincendio”, gli “spaghetti con il ketchup”, il “Barolo britannico”, i “noodles cinesi incollati alla tovaglia” e altre perle di questo genere. C’è da sottolineare, invece, che la risposta dell’Unesco è stata unanime: i 24 membri del comitato intergovernativo per la salvaguardia del Patrimonio culturale immateriale hanno votato all’unanimità in favore della cucina italiana. Non c’è stato nemmeno un astenuto. La prima richiesta fu bocciata. Nel 2023 l’abbiamo ripresentata. È la parola “immateriale” che ci bloccò. È difficile definire una cucina immateriale senza cadere nel materiale. Per esempio l’Unesco non ha dato il riconoscimento alla pizza in quanto pizza, ma all’arte napoletana della pizza. Il cammino è stato molto difficile ma, alla fine, siamo riusciti a unificare la pratica quotidiana, i gesti, le parole, i rituali di una cucina variegata e il risultato c’è stato. La cucina italiana è la prima premiata dall’Unesco in tutta la sua interezza».
Se Coren ha scherzato, Alberto Grandi, docente all’Università di Parma, autore del libro La cucina italiana non esiste, è andato giù pesante nell’articolo su The Guardian. Basta il titolo per capire quanto: «Il mito della cucina tradizionale italiana ha sedotto il mondo. La verità è ben diversa». «Grandi è arrivato a dire che la pizza l’hanno inventata gli americani e che il vero grana si trova nel Wisconsin. Che la cucina italiana non risalga al tempo dei Romani lo sanno tutti. Prima della scoperta dell’America, la cucina era un’altra cosa. Quella odierna nasce nell’Ottocento da forni e fornelli borghesi. Se si rimane alla civiltà contadina, si rimane alle zuppe o poco più. Le classi povere non avevano carne da mangiare». Petroni conclude levandosi un sassolino dalla scarpa: l’esultanza dei cuochi stellati, i «cappelloni», come li chiama, è comprensibile ma loro non c’entrano: «Sono contento che approvino il riconoscimento, ma sia chiaro che questo va alla cucina italiana famigliare, domestica».
A chi si deve il maggior merito del riconoscimento Unesco? «A Maddalena Fossati, la direttrice de La cucina italiana. È stata lei a rivolgersi all’Accademia e alla Fondazione Casa Artusi. Il documento l’abbiamo preparato con il prezioso aiuto di Massimo Montanari, accademico onorario, docente all’Università di Bologna, e presentato con il sostegno del sottosegretario alla Cultura, Gianmarco Mazzi».
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Gianluigi Cimmino (Imagoeconomica)
Yamamay ha sempre scelto testimonial molto riconoscibili. Oggi il volto del brand è Rose Villain. Perché questa scelta?
«Negli ultimi tre anni ci siamo avvicinati a due canali di comunicazione molto forti e credibili per i giovani: la musica e lo sport. Oggi, dopo il crollo del mondo degli influencer tradizionali, è fondamentale scegliere un volto autentico, coerente e riconoscibile. Gran parte dei nostri investimenti recenti è andata proprio in questa direzione. Rose Villain rappresenta la musica, ma anche una bellezza femminile non scontata: ha un sorriso meraviglioso, un fisico prorompente che rispecchia le nostre consumatrici, donne che si riconoscono nel brand anche per la vestibilità, che riteniamo tra le migliori sul mercato. È una voce importante, un personaggio completo. Inoltre, il mondo musicale oggi vive molto di collaborazioni: lo stesso concetto che abbiamo voluto trasmettere nella campagna, usando il termine «featuring», tipico delle collaborazioni tra artisti. Non a caso, Rose Villain aveva già collaborato con artisti come Geolier, che è stato nostro testimonial l’anno scorso».
I volti famosi fanno vendere di più o il loro valore è soprattutto simbolico e di posizionamento del brand?
«Oggi direi soprattutto posizionamento e coerenza del messaggio. La vendita non dipende più solo dalla pubblicità: per vendere bisogna essere impeccabili sul prodotto, sul prezzo, sull’assortimento. Viviamo un momento di consumi non esaltanti, quindi è necessario lavorare su tutte le leve. Non è che una persona vede lo spot e corre subito in negozio. È un periodo “da elmetto” per il settore retail».
È una situazione comune a molti brand, in questo momento.
«Assolutamente sì. Noi non possiamo lamentarci: anche questo Natale è stato positivo. Però per portare le persone in negozio bisogna investire sempre di più. Il traffico non è più una costante: meno persone nei centri commerciali, meno in strada, meno negli outlet. Per intercettare quel traffico serve investire in offerte, comunicazione, social, utilizzando tutti gli strumenti che permettono soprattutto ai giovani di arrivare in negozio, magari grazie a una promozione mirata».
Guardando al passato, c’è stato un testimonial che ha segnato una svolta per Yamamay?
«Sicuramente Jennifer Lopez: è stato uno dei primi casi in cui una celebrità ha firmato una capsule collection. All’epoca era qualcosa di totalmente nuovo e ci ha dato una visibilità internazionale enorme. Per il mondo maschile, Cristiano Ronaldo ha rappresentato un altro grande salto di qualità. Detto questo, Yamamay è nata fin dall’inizio con una visione molto chiara».
Come è iniziata questa avventura imprenditoriale?
«Con l’incoscienza di un ragazzo di 28 anni che rescinde un importante contratto da manager perché vuole fare l’imprenditore. Ho coinvolto tutta la famiglia in questo sogno: creare un’azienda di intimo, un settore che ho sempre amato. Dico spesso che ero già un grande consumatore, soprattutto perché l’intimo è uno dei regali più fatti. Oggi posso dire di aver realizzato un sogno».
Oggi Yamamay è un marchio internazionale. Quanti negozi avete nel mondo?
«Circa 600 negozi in totale. Di questi, 430 sono in Italia e circa 170 all’estero».
Il vostro è un settore molto competitivo. Qual è oggi il vostro principale elemento di differenziazione?
«Il rapporto qualità-prezzo. Abbiamo scelto di non seguire la strada degli aumenti facili nel post Covid, quando il mercato lo permetteva. Abbiamo continuato invece a investire su prodotto, innovazione, collaborazioni e sostenibilità. Posso dire con orgoglio che Yamamay è uno dei marchi di intimo più sostenibili sul mercato. La sostenibilità per noi non è una moda né uno strumento di marketing: è un valore intrinseco. Anche perché abbiamo in casa una delle massime esperte del settore, mia sorella Barbara, e siamo molto attenti a non fare greenwashing».
Quali sono le direttrici di crescita future?
«Sicuramente l’internazionale, più come presenza reale che come notorietà, e il digitale: l’e-commerce è un canale dove possiamo crescere ancora molto. Inoltre stiamo investendo tantissimo nel menswear. È un mercato in forte evoluzione: l’uomo oggi compra da solo, non delega più alla compagna o alla mamma. È un cambiamento culturale profondo e la crescita sarà a doppia cifra nei prossimi anni. La società è cambiata, è più eterogenea, e noi dobbiamo seguirne le evoluzioni. Penso anche al mondo Lgbtq+, che è storicamente un grande consumatore di intimo e a cui guardiamo con grande attenzione».
Capodanno è un momento simbolico anche per l’intimo. Che consiglio d’acquisto dai ai vostri clienti per iniziare bene l’anno?
«Un consiglio semplicissimo: indossate intimo rosso a Capodanno. Mutande, boxer, slip… non importa. È una tradizione che non va persa, anzi va rafforzata. Il rosso porta amore, ricchezza e salute. E le tradizioni belle vanno rispettate».
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