2024-04-13
Gli incentivi all’auto finanziano gli affari di Elkann nella sanità
John Elkann, l’ad di Exor, punta sul business della salute. Approfitta delle debolezze dello Stato, al quale continua a chiedere sussidi.Migliaia di lavoratori e quadri in piazza a Torino per lo sciopero contro la grave crisi di Mirafiori. Uliano (Cisl): «Territorio a rischio, produzione su almeno del 30%».Lo speciale contiene due articoli.Un tempo si diceva che Carlo De Benedetti andasse a traino dell’avvocato Agnelli. Oggi sono i rampolli della dinastia senza corona a copiare l’Ingegnere. Hanno capito che con i malati si fanno tanti più soldi che con le automobili. Meglio se lo Stato per aiutare a produrre le quattro ruote resta a secco di quattrini e così, spendendo meno nell’assistenza, fa spazio ai privati nel mercato degli ospedali. Copiano la strategia di Kos - 550 milioni di fatturato, 13.000 posti letto, presidi sanitari in 15 regioni - l’impero della salute debenedettiano; mettere su ospedali, case di riposo, centri diagnostici per sfruttare il più malato di tutti: il sistema sanitario nazionale. Presentando il bilancio di Exor - che è la holding di partecipazione della famiglia Agnelli: custodisce il 14, 9% del capitale di Stellantis che si traduce nel 25,9% dei diritti di voto il che fa di Exor il primo azionista del gruppo automobilistico - John Elkann ha detto due cose che sono, come s’usa dire, passate per occhio; la prima che la holding si trasformerà in una «investiment entity», la seconda che sono stati impegnati 4 miliardi in sanità. Un miliardo lo aveva già «speso» un anno fa per comprarsi tra l’altro una quota del gruppo Merieux che si occupa di nutrizione, analisi e diagnostica e di Lifenet Healtcare (ha pagato il 47% per 67 milioni di euro) che gestisce ospedali e ambulatori concentrati per lo più nel Lazio. Altri 2,7 miliardi Exor li ha «messi» per comprarsi il 15% della Philips - oggi è il primo azionista e non ha avuto per ora grandi soddisfazioni - che è passata dal magnetofono alla risonanza magnetica. A Mirafiori si sciopera invocando gli aiuti di Stato per produrre auto elettriche che si fa fatica a vendere, anche perché i cinesi - grazie all’Europa - le fanno forse non meglio, ma di sicuro più convenienti. John Elkann è stato chiaro: «L’aumento del costo dei servizi sanitari», scrive agli azionisti, «unito alla carenza di personale medico, sta portando una richiesta di approcci innovativi nell’affrontare i problemi sanitari globali. La tecnologia può migliorare la produttività; consentire di trattare i pazienti fuori dall’ospedale e far guadagnare tempo al personale medico». Che detta così sembra quasi filantropia. A questo Elkann il governo e i sindacati chiedono di produrre più aiuto e gli vengono in aiuto: un miliardo d’ incentivi tra ecobonus e rottamazione. Non hanno capito che la Exor di automobili se ne interessa il giusto: si comporterà da qui in avanti come un fondo d’investimento. Toccherà a Carlos Tavares decidere se mantenere o no la produzione in Italia. Per gli Elkann e la folta e variegata corte degli Agnelli - compresi quelli che si contendono eredità che paiono fiscalmente contestabili - la cosa importante è spartirsi una sessantina di milioni di dividendo. Il vero business è la salute, con la moda e il lusso di contorno, e anche quando ci si meraviglia che la Gedi (altra controllata Exor) vende i giornali si sta guardando nello specchietto retrovisore. Andrebbe spiegato al ministro Adolfo Urso, ma anche al segretario della Fiom Michele De Palma che s’indignano perché un’Alfa Romeo che si chiamerà Milano la fanno in Polonia. Ai francesi a cui è demandata la gestione di Stellantis - la Republique ha in il 9,6% di diritti di voto nel gruppo - dell’italianità interessa zero. Ma s’insiste a chiedere aiuti e sovvenzioni di Stato. In cuor suo John Elkann che ha proclamato «investiamo in segmenti innovativi» - non pare siano l’auto - a ogni aiuto di Stato si compiace. Prende i soldi pubblici e li investe in sanità facendo concorrenza al governo. Per far capire che aria tira ha messo un altro mezzo miliardo per il 10% di Clavet (fa ricerca in salute) e ha spedito Suzanne Heywood - attuale presidente di Iveco (camion) - nel cda e con un altro miliardo ha aumentato la quota in Merieux (divisione ricerca sui tumori). C’è una singolare simmetria tra i tagli nell’auto (7.000 posti già svaniti e altri 3.000 in via di sparizione) e gli investimenti in sanità (tra i più evidenti: la clinica Città Aprilia e dell’ospedale Regina Apostolorum). Lo Stato, incalzato dai sindacati, insegue Stellantis con gli incentivi che sono costati negli ultimi anni 3,5 miliardi: è l’aumento per la sanità stanziato dal governo quest’anno. Secondo un antico calcolo di Federcontribuenti in 40 anni la Fiat è costata agli italiani 220 miliardi di euro. C’è il rischio che gli incentivi all’auto che finiranno nelle tasche di costruttori che fabbricano fuori dall’Italia, Stellantis compresa, lo Stato funga attraverso il Fisco da aggregatore di soldi che poi gira ai John Elkann di turno. Loro reinvestono gli utili delle auto sovvenzionate negli ospedali a pagamento, magari convenzionati col pubblico. La spesa sanitaria privata ha raggiunto i 41 miliardi e cresce dello 0,6% all’anno nell’ultimo quinquennio. Alla Fiom-Cgil forse conviene ignorarlo, il ministro Adolfo Urso forse non ci ha fatto caso. Exor c’ha scommesso mentre gli operai di Stellantis stanno a guardare. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/incentivi-allauto-finanziano-affari-elkann-2667759428.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="ogni-taglio-stellantis-25-nellindotto" data-post-id="2667759428" data-published-at="1712994867" data-use-pagination="False"> Ogni taglio Stellantis, 2,5 nell’indotto Ancora una volta a Mirafiori, il grande stabilimento che identifica Torino come la Mole Antonelliana attorno a quei cancelli, è stata scritta gran parte della storia sindacale italiana. Ieri a difenderlo c’erano i lavoratori e i loro rappresentanti. Sono i nipoti dei 40.000 che marciarono il 14 ottobre 1980 ripristinando le gerarchie in fabbrica. Allora come oggi l’obiettivo era quella di garantire la sopravvivenza dello stabilimento. Allora occupava oltre 50.000 persone ed era la più grande fabbrica di auto del mondo. Oggi gli operai sono 2.800 ai quali vanno aggiunti circa 6.000 impiegati negli enti centrali come amministrazione, marketing, centro ricerca. Quarantaquattro anni fa la marcia venne organizzata da Cesare Romiti per recuperare il controllo della fabbrica. Oggi accanto ai lavoratori in moto contro la proprietà che mette in pericolo la sopravvivenza dell’officina ci sono il sindaco, il governatore della Regione, assessori, consiglieri e deputati. C’erano i rappresentanti delle associazioni imprenditoriali e datoriali. C’era la Curia. Migliaia di persone, (12.000 secondo gli organizzatori, 2.000 per la questura) si sono radunate tra piazza Castello e Corso San Martino per lo sciopero unitario indetto dalle sei sigle sindacali dei metalmeccanici, Fiom, Fim, Uilm, Fismic, Uglm e Acqf («colletti bianchi») e poi esteso a tutta la cittadinanza. Dice il segretario della Fim-Cisl Ferdinando Uliano: «Ci sono territori a rischio, vogliamo aumentare del 30% gli attuali volumi produttivi e i primi dati trimestrali si stanno allontanando dall’obiettivo del milione di autovetture, bisogna fare un accordo, abbiamo elaborato delle proposte, al tavolo erano presenti Stellantis, le Regioni, le istituzioni, il governo, sappiamo cosa si deve fare». Il segretario generale Uilm Rocco Palombella risponde al ministro Adolfo Urso che aveva ipotizzato l’arrivo di un altro produttore in Italia ricordando che «prima di aprire ai cinesi sarebbe opportuno far lavorare i nostri stabilimenti dato che in questi 3 mesi stanno producendo al 50% e ci sono tantissimi lavoratori in cassa integrazione». Dietro lo striscione con la scritta «Il rilancio di Torino parte da Mirafiori» anche le delegazioni da tutta Italia di altri stabilimenti Stellantis. Con loro il governatore del Piemonte, Alberto Cirio e il sindaco Stefano Lo Russo, che hanno ricevuto critiche. «Scegli il selfie. Con lui o con noi?»: hanno ironizzato i lavoratori riferendosi allo scatto che il presidente di Regione e il primo cittadino hanno «concesso» solo pochi giorni fa all’amministratore delegato di Stellantis Carlos Tavares in occasione dell’inaugurazione della linea di cambi elettrici. A preoccupare è soprattutto il futuro dell’indotto. Per un secolo Torino è stata con Detroit la capitale mondiale delle quattro ruote. Le auto che uscivano dalla catena di montaggio di Mirafiori erano un paradigma di bellezza e stile. La Ford aveva chiamato «Gran Torino» il suo modello di punta e Clint Eastwood ne aveva fatto il titolo di un film. Oggi da quel che resta della fabbrica escono un po’ di 500 elettriche e un pugno di Maserati. Gli operai lavorano una settimana al mese. La Lear, che produce sedili, ha 400 operai in cassa integrazione. La Te che vende auto e ricambi fa ruotare 220 operai. Il sindacato calcola che per ogni dipendente diretto di Stellantis che «esce» ce ne siano almeno 2,5 senza lavoro nell’indotto. Abbandonare Mirafiori significa desertificare il territorio. Dal palco di Piazza Castello Uliano aggiunge: «Riportare la speranza e il futuro è il nostro compito e la nostra responsabilità. Le batterie, l’economia circolare, i cambi elettrici e il campus possono portare qualche posto di lavoro, ma non mettono in garanzia i 73.000 addetti del gruppo. Faccio un appello alle istituzioni e ai manager: meno selfie e più unità con i lavoratori e il sindacato».
(Guardia di Finanza)
I peluches, originariamente disegnati da un artista di Hong Kong e venduti in tutto il mondo dal colosso nella produzione e vendita di giocattoli Pop Mart, sono diventati in poco tempo un vero trend, che ha generato una corsa frenetica all’acquisto dopo essere stati indossati sui social da star internazionali della musica e del cinema.
In particolare, i Baschi Verdi del Gruppo Pronto Impiego, attraverso un’analisi sulla distribuzione e vendita di giocattoli a Palermo nonché in virtù del costante monitoraggio dei profili social creati dagli operatori del settore, hanno individuato sette esercizi commerciali che disponevano anche degli iconici Labubu, focalizzando l’attenzione soprattutto sul prezzo di vendita, considerando che gli originali, a seconda della tipologia e della dimensione vengono venduti con un prezzo di partenza di circa 35 euro fino ad arrivare a diverse migliaia di euro per i pezzi meno diffusi o a tiratura limitata.
A seguito dei preliminari sopralluoghi effettuati all’interno dei negozi di giocattoli individuati, i finanzieri ne hanno selezionati sette, i quali, per prezzi praticati, fattura e packaging dei prodotti destavano particolari sospetti circa la loro originalità e provenienza.
I controlli eseguiti presso i sette esercizi commerciali hanno fatto emergere come nella quasi totalità dei casi i Labubu fossero imitazioni perfette degli originali, realizzati con materiali di qualità inferiore ma riprodotti con una cura tale da rendere difficile per un comune acquirente distinguere gli esemplari autentici da quelli falsi. I prodotti, acquistati senza fattura da canali non ufficiali o da piattaforme e-commerce, perlopiù facenti parte della grande distribuzione, venivano venduti a prezzi di poco inferiori a quelli praticati per gli originali e riportavano loghi, colori e confezioni del tutto simili a questi ultimi, spesso corredati da etichette e codici identificativi non conformi o totalmente falsificati.
Questi elementi, oltre al fatto che in alcuni casi i negozi che li ponevano in vendita fossero specializzati in giocattoli originali di ogni tipo e delle più note marche, potevano indurre il potenziale acquirente a pensare che si trattasse di prodotti originali venduti a prezzi concorrenziali.
In particolare, in un caso, l’intervento dei Baschi Verdi è stato effettuato in un negozio di giocattoli appartenente a una nota catena di distribuzione all’interno di un centro commerciale cittadino. Proprio in questo negozio è stato rinvenuto il maggior numero di pupazzetti falsi, ben 3.000 tra esercizio e magazzino, dove sono stati trovati molti cartoni pieni sia di Labubu imbustati che di scatole per il confezionamento, segno evidente che gli addetti al negozio provvedevano anche a creare i pacchetti sorpresa, diventati molto popolari proprio grazie alla loro distribuzione tramite blind box, ossia scatole a sorpresa, che hanno creato una vera e propria dipendenza dall’acquisto per i collezionisti di tutto il mondo. Tra gli esemplari sequestrati anche alcune copie più piccole di un modello, in teoria introvabile, venduto nel mese di giugno a un’asta di Pechino per 130.000 euro.
Soprattutto in questo caso la collocazione all’interno di un punto vendita regolare e inserito in un contesto commerciale di fiducia, unita alla cura nella realizzazione delle confezioni, avrebbe potuto facilmente indurre in errore i consumatori convinti di acquistare un prodotto ufficiale.
I sette titolari degli esercizi commerciali ispezionati e destinatari dei sequestri degli oltre 10.000 Labubu falsi che, se immessi sul mercato avrebbero potuto fruttare oltre 500.000 euro, sono stati denunciati all’Autorità Giudiziaria per vendita di prodotti recanti marchi contraffatti.
L’attività s’inquadra nel quotidiano contrasto delle Fiamme Gialle al dilagante fenomeno della contraffazione a tutela dei consumatori e delle aziende che si collocano sul mercato in maniera corretta e che, solo nell’ultimo anno, ha portato i Baschi Verdi del Gruppo P.I. di Palermo a denunciare 37 titolari di esercizi commerciali e a sequestrare oltre 500.000 articoli contraffatti, tra pelletteria, capi d’abbigliamento e profumi recanti marchi delle più note griffe italiane e internazionali.
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