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2024-04-13
Gli incentivi all’auto finanziano gli affari di Elkann nella sanità
John Elkann (Ansa)
Un tempo si diceva che Carlo De Benedetti andasse a traino dell’avvocato Agnelli. Oggi sono i rampolli della dinastia senza corona a copiare l’Ingegnere. Hanno capito che con i malati si fanno tanti più soldi che con le automobili. Meglio se lo Stato per aiutare a produrre le quattro ruote resta a secco di quattrini e così, spendendo meno nell’assistenza, fa spazio ai privati nel mercato degli ospedali. Copiano la strategia di Kos - 550 milioni di fatturato, 13.000 posti letto, presidi sanitari in 15 regioni - l’impero della salute debenedettiano; mettere su ospedali, case di riposo, centri diagnostici per sfruttare il più malato di tutti: il sistema sanitario nazionale. Presentando il bilancio di Exor - che è la holding di partecipazione della famiglia Agnelli: custodisce il 14, 9% del capitale di Stellantis che si traduce nel 25,9% dei diritti di voto il che fa di Exor il primo azionista del gruppo automobilistico - John Elkann ha detto due cose che sono, come s’usa dire, passate per occhio; la prima che la holding si trasformerà in una «investiment entity», la seconda che sono stati impegnati 4 miliardi in sanità. Un miliardo lo aveva già «speso» un anno fa per comprarsi tra l’altro una quota del gruppo Merieux che si occupa di nutrizione, analisi e diagnostica e di Lifenet Healtcare (ha pagato il 47% per 67 milioni di euro) che gestisce ospedali e ambulatori concentrati per lo più nel Lazio. Altri 2,7 miliardi Exor li ha «messi» per comprarsi il 15% della Philips - oggi è il primo azionista e non ha avuto per ora grandi soddisfazioni - che è passata dal magnetofono alla risonanza magnetica. A Mirafiori si sciopera invocando gli aiuti di Stato per produrre auto elettriche che si fa fatica a vendere, anche perché i cinesi - grazie all’Europa - le fanno forse non meglio, ma di sicuro più convenienti. John Elkann è stato chiaro: «L’aumento del costo dei servizi sanitari», scrive agli azionisti, «unito alla carenza di personale medico, sta portando una richiesta di approcci innovativi nell’affrontare i problemi sanitari globali. La tecnologia può migliorare la produttività; consentire di trattare i pazienti fuori dall’ospedale e far guadagnare tempo al personale medico». Che detta così sembra quasi filantropia. A questo Elkann il governo e i sindacati chiedono di produrre più aiuto e gli vengono in aiuto: un miliardo d’ incentivi tra ecobonus e rottamazione. Non hanno capito che la Exor di automobili se ne interessa il giusto: si comporterà da qui in avanti come un fondo d’investimento. Toccherà a Carlos Tavares decidere se mantenere o no la produzione in Italia. Per gli Elkann e la folta e variegata corte degli Agnelli - compresi quelli che si contendono eredità che paiono fiscalmente contestabili - la cosa importante è spartirsi una sessantina di milioni di dividendo. Il vero business è la salute, con la moda e il lusso di contorno, e anche quando ci si meraviglia che la Gedi (altra controllata Exor) vende i giornali si sta guardando nello specchietto retrovisore.
Andrebbe spiegato al ministro Adolfo Urso, ma anche al segretario della Fiom Michele De Palma che s’indignano perché un’Alfa Romeo che si chiamerà Milano la fanno in Polonia. Ai francesi a cui è demandata la gestione di Stellantis - la Republique ha in il 9,6% di diritti di voto nel gruppo - dell’italianità interessa zero. Ma s’insiste a chiedere aiuti e sovvenzioni di Stato. In cuor suo John Elkann che ha proclamato «investiamo in segmenti innovativi» - non pare siano l’auto - a ogni aiuto di Stato si compiace. Prende i soldi pubblici e li investe in sanità facendo concorrenza al governo. Per far capire che aria tira ha messo un altro mezzo miliardo per il 10% di Clavet (fa ricerca in salute) e ha spedito Suzanne Heywood - attuale presidente di Iveco (camion) - nel cda e con un altro miliardo ha aumentato la quota in Merieux (divisione ricerca sui tumori).
C’è una singolare simmetria tra i tagli nell’auto (7.000 posti già svaniti e altri 3.000 in via di sparizione) e gli investimenti in sanità (tra i più evidenti: la clinica Città Aprilia e dell’ospedale Regina Apostolorum). Lo Stato, incalzato dai sindacati, insegue Stellantis con gli incentivi che sono costati negli ultimi anni 3,5 miliardi: è l’aumento per la sanità stanziato dal governo quest’anno. Secondo un antico calcolo di Federcontribuenti in 40 anni la Fiat è costata agli italiani 220 miliardi di euro. C’è il rischio che gli incentivi all’auto che finiranno nelle tasche di costruttori che fabbricano fuori dall’Italia, Stellantis compresa, lo Stato funga attraverso il Fisco da aggregatore di soldi che poi gira ai John Elkann di turno. Loro reinvestono gli utili delle auto sovvenzionate negli ospedali a pagamento, magari convenzionati col pubblico. La spesa sanitaria privata ha raggiunto i 41 miliardi e cresce dello 0,6% all’anno nell’ultimo quinquennio. Alla Fiom-Cgil forse conviene ignorarlo, il ministro Adolfo Urso forse non ci ha fatto caso. Exor c’ha scommesso mentre gli operai di Stellantis stanno a guardare.
Ogni taglio Stellantis, 2,5 nell’indotto
Ancora una volta a Mirafiori, il grande stabilimento che identifica Torino come la Mole Antonelliana attorno a quei cancelli, è stata scritta gran parte della storia sindacale italiana. Ieri a difenderlo c’erano i lavoratori e i loro rappresentanti. Sono i nipoti dei 40.000 che marciarono il 14 ottobre 1980 ripristinando le gerarchie in fabbrica. Allora come oggi l’obiettivo era quella di garantire la sopravvivenza dello stabilimento. Allora occupava oltre 50.000 persone ed era la più grande fabbrica di auto del mondo. Oggi gli operai sono 2.800 ai quali vanno aggiunti circa 6.000 impiegati negli enti centrali come amministrazione, marketing, centro ricerca. Quarantaquattro anni fa la marcia venne organizzata da Cesare Romiti per recuperare il controllo della fabbrica. Oggi accanto ai lavoratori in moto contro la proprietà che mette in pericolo la sopravvivenza dell’officina ci sono il sindaco, il governatore della Regione, assessori, consiglieri e deputati. C’erano i rappresentanti delle associazioni imprenditoriali e datoriali. C’era la Curia. Migliaia di persone, (12.000 secondo gli organizzatori, 2.000 per la questura) si sono radunate tra piazza Castello e Corso San Martino per lo sciopero unitario indetto dalle sei sigle sindacali dei metalmeccanici, Fiom, Fim, Uilm, Fismic, Uglm e Acqf («colletti bianchi») e poi esteso a tutta la cittadinanza. Dice il segretario della Fim-Cisl Ferdinando Uliano: «Ci sono territori a rischio, vogliamo aumentare del 30% gli attuali volumi produttivi e i primi dati trimestrali si stanno allontanando dall’obiettivo del milione di autovetture, bisogna fare un accordo, abbiamo elaborato delle proposte, al tavolo erano presenti Stellantis, le Regioni, le istituzioni, il governo, sappiamo cosa si deve fare». Il segretario generale Uilm Rocco Palombella risponde al ministro Adolfo Urso che aveva ipotizzato l’arrivo di un altro produttore in Italia ricordando che «prima di aprire ai cinesi sarebbe opportuno far lavorare i nostri stabilimenti dato che in questi 3 mesi stanno producendo al 50% e ci sono tantissimi lavoratori in cassa integrazione». Dietro lo striscione con la scritta «Il rilancio di Torino parte da Mirafiori» anche le delegazioni da tutta Italia di altri stabilimenti Stellantis. Con loro il governatore del Piemonte, Alberto Cirio e il sindaco Stefano Lo Russo, che hanno ricevuto critiche. «Scegli il selfie. Con lui o con noi?»: hanno ironizzato i lavoratori riferendosi allo scatto che il presidente di Regione e il primo cittadino hanno «concesso» solo pochi giorni fa all’amministratore delegato di Stellantis Carlos Tavares in occasione dell’inaugurazione della linea di cambi elettrici. A preoccupare è soprattutto il futuro dell’indotto. Per un secolo Torino è stata con Detroit la capitale mondiale delle quattro ruote. Le auto che uscivano dalla catena di montaggio di Mirafiori erano un paradigma di bellezza e stile. La Ford aveva chiamato «Gran Torino» il suo modello di punta e Clint Eastwood ne aveva fatto il titolo di un film. Oggi da quel che resta della fabbrica escono un po’ di 500 elettriche e un pugno di Maserati. Gli operai lavorano una settimana al mese. La Lear, che produce sedili, ha 400 operai in cassa integrazione. La Te che vende auto e ricambi fa ruotare 220 operai. Il sindacato calcola che per ogni dipendente diretto di Stellantis che «esce» ce ne siano almeno 2,5 senza lavoro nell’indotto. Abbandonare Mirafiori significa desertificare il territorio. Dal palco di Piazza Castello Uliano aggiunge: «Riportare la speranza e il futuro è il nostro compito e la nostra responsabilità. Le batterie, l’economia circolare, i cambi elettrici e il campus possono portare qualche posto di lavoro, ma non mettono in garanzia i 73.000 addetti del gruppo. Faccio un appello alle istituzioni e ai manager: meno selfie e più unità con i lavoratori e il sindacato».
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John Elkann, l’ad di Exor, punta sul business della salute. Approfitta delle debolezze dello Stato, al quale continua a chiedere sussidi.Migliaia di lavoratori e quadri in piazza a Torino per lo sciopero contro la grave crisi di Mirafiori. Uliano (Cisl): «Territorio a rischio, produzione su almeno del 30%».Lo speciale contiene due articoli.Un tempo si diceva che Carlo De Benedetti andasse a traino dell’avvocato Agnelli. Oggi sono i rampolli della dinastia senza corona a copiare l’Ingegnere. Hanno capito che con i malati si fanno tanti più soldi che con le automobili. Meglio se lo Stato per aiutare a produrre le quattro ruote resta a secco di quattrini e così, spendendo meno nell’assistenza, fa spazio ai privati nel mercato degli ospedali. Copiano la strategia di Kos - 550 milioni di fatturato, 13.000 posti letto, presidi sanitari in 15 regioni - l’impero della salute debenedettiano; mettere su ospedali, case di riposo, centri diagnostici per sfruttare il più malato di tutti: il sistema sanitario nazionale. Presentando il bilancio di Exor - che è la holding di partecipazione della famiglia Agnelli: custodisce il 14, 9% del capitale di Stellantis che si traduce nel 25,9% dei diritti di voto il che fa di Exor il primo azionista del gruppo automobilistico - John Elkann ha detto due cose che sono, come s’usa dire, passate per occhio; la prima che la holding si trasformerà in una «investiment entity», la seconda che sono stati impegnati 4 miliardi in sanità. Un miliardo lo aveva già «speso» un anno fa per comprarsi tra l’altro una quota del gruppo Merieux che si occupa di nutrizione, analisi e diagnostica e di Lifenet Healtcare (ha pagato il 47% per 67 milioni di euro) che gestisce ospedali e ambulatori concentrati per lo più nel Lazio. Altri 2,7 miliardi Exor li ha «messi» per comprarsi il 15% della Philips - oggi è il primo azionista e non ha avuto per ora grandi soddisfazioni - che è passata dal magnetofono alla risonanza magnetica. A Mirafiori si sciopera invocando gli aiuti di Stato per produrre auto elettriche che si fa fatica a vendere, anche perché i cinesi - grazie all’Europa - le fanno forse non meglio, ma di sicuro più convenienti. John Elkann è stato chiaro: «L’aumento del costo dei servizi sanitari», scrive agli azionisti, «unito alla carenza di personale medico, sta portando una richiesta di approcci innovativi nell’affrontare i problemi sanitari globali. La tecnologia può migliorare la produttività; consentire di trattare i pazienti fuori dall’ospedale e far guadagnare tempo al personale medico». Che detta così sembra quasi filantropia. A questo Elkann il governo e i sindacati chiedono di produrre più aiuto e gli vengono in aiuto: un miliardo d’ incentivi tra ecobonus e rottamazione. Non hanno capito che la Exor di automobili se ne interessa il giusto: si comporterà da qui in avanti come un fondo d’investimento. Toccherà a Carlos Tavares decidere se mantenere o no la produzione in Italia. Per gli Elkann e la folta e variegata corte degli Agnelli - compresi quelli che si contendono eredità che paiono fiscalmente contestabili - la cosa importante è spartirsi una sessantina di milioni di dividendo. Il vero business è la salute, con la moda e il lusso di contorno, e anche quando ci si meraviglia che la Gedi (altra controllata Exor) vende i giornali si sta guardando nello specchietto retrovisore. Andrebbe spiegato al ministro Adolfo Urso, ma anche al segretario della Fiom Michele De Palma che s’indignano perché un’Alfa Romeo che si chiamerà Milano la fanno in Polonia. Ai francesi a cui è demandata la gestione di Stellantis - la Republique ha in il 9,6% di diritti di voto nel gruppo - dell’italianità interessa zero. Ma s’insiste a chiedere aiuti e sovvenzioni di Stato. In cuor suo John Elkann che ha proclamato «investiamo in segmenti innovativi» - non pare siano l’auto - a ogni aiuto di Stato si compiace. Prende i soldi pubblici e li investe in sanità facendo concorrenza al governo. Per far capire che aria tira ha messo un altro mezzo miliardo per il 10% di Clavet (fa ricerca in salute) e ha spedito Suzanne Heywood - attuale presidente di Iveco (camion) - nel cda e con un altro miliardo ha aumentato la quota in Merieux (divisione ricerca sui tumori). C’è una singolare simmetria tra i tagli nell’auto (7.000 posti già svaniti e altri 3.000 in via di sparizione) e gli investimenti in sanità (tra i più evidenti: la clinica Città Aprilia e dell’ospedale Regina Apostolorum). Lo Stato, incalzato dai sindacati, insegue Stellantis con gli incentivi che sono costati negli ultimi anni 3,5 miliardi: è l’aumento per la sanità stanziato dal governo quest’anno. Secondo un antico calcolo di Federcontribuenti in 40 anni la Fiat è costata agli italiani 220 miliardi di euro. C’è il rischio che gli incentivi all’auto che finiranno nelle tasche di costruttori che fabbricano fuori dall’Italia, Stellantis compresa, lo Stato funga attraverso il Fisco da aggregatore di soldi che poi gira ai John Elkann di turno. Loro reinvestono gli utili delle auto sovvenzionate negli ospedali a pagamento, magari convenzionati col pubblico. La spesa sanitaria privata ha raggiunto i 41 miliardi e cresce dello 0,6% all’anno nell’ultimo quinquennio. Alla Fiom-Cgil forse conviene ignorarlo, il ministro Adolfo Urso forse non ci ha fatto caso. Exor c’ha scommesso mentre gli operai di Stellantis stanno a guardare. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/incentivi-allauto-finanziano-affari-elkann-2667759428.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="ogni-taglio-stellantis-25-nellindotto" data-post-id="2667759428" data-published-at="1712994867" data-use-pagination="False"> Ogni taglio Stellantis, 2,5 nell’indotto Ancora una volta a Mirafiori, il grande stabilimento che identifica Torino come la Mole Antonelliana attorno a quei cancelli, è stata scritta gran parte della storia sindacale italiana. Ieri a difenderlo c’erano i lavoratori e i loro rappresentanti. Sono i nipoti dei 40.000 che marciarono il 14 ottobre 1980 ripristinando le gerarchie in fabbrica. Allora come oggi l’obiettivo era quella di garantire la sopravvivenza dello stabilimento. Allora occupava oltre 50.000 persone ed era la più grande fabbrica di auto del mondo. Oggi gli operai sono 2.800 ai quali vanno aggiunti circa 6.000 impiegati negli enti centrali come amministrazione, marketing, centro ricerca. Quarantaquattro anni fa la marcia venne organizzata da Cesare Romiti per recuperare il controllo della fabbrica. Oggi accanto ai lavoratori in moto contro la proprietà che mette in pericolo la sopravvivenza dell’officina ci sono il sindaco, il governatore della Regione, assessori, consiglieri e deputati. C’erano i rappresentanti delle associazioni imprenditoriali e datoriali. C’era la Curia. Migliaia di persone, (12.000 secondo gli organizzatori, 2.000 per la questura) si sono radunate tra piazza Castello e Corso San Martino per lo sciopero unitario indetto dalle sei sigle sindacali dei metalmeccanici, Fiom, Fim, Uilm, Fismic, Uglm e Acqf («colletti bianchi») e poi esteso a tutta la cittadinanza. Dice il segretario della Fim-Cisl Ferdinando Uliano: «Ci sono territori a rischio, vogliamo aumentare del 30% gli attuali volumi produttivi e i primi dati trimestrali si stanno allontanando dall’obiettivo del milione di autovetture, bisogna fare un accordo, abbiamo elaborato delle proposte, al tavolo erano presenti Stellantis, le Regioni, le istituzioni, il governo, sappiamo cosa si deve fare». Il segretario generale Uilm Rocco Palombella risponde al ministro Adolfo Urso che aveva ipotizzato l’arrivo di un altro produttore in Italia ricordando che «prima di aprire ai cinesi sarebbe opportuno far lavorare i nostri stabilimenti dato che in questi 3 mesi stanno producendo al 50% e ci sono tantissimi lavoratori in cassa integrazione». Dietro lo striscione con la scritta «Il rilancio di Torino parte da Mirafiori» anche le delegazioni da tutta Italia di altri stabilimenti Stellantis. Con loro il governatore del Piemonte, Alberto Cirio e il sindaco Stefano Lo Russo, che hanno ricevuto critiche. «Scegli il selfie. Con lui o con noi?»: hanno ironizzato i lavoratori riferendosi allo scatto che il presidente di Regione e il primo cittadino hanno «concesso» solo pochi giorni fa all’amministratore delegato di Stellantis Carlos Tavares in occasione dell’inaugurazione della linea di cambi elettrici. A preoccupare è soprattutto il futuro dell’indotto. Per un secolo Torino è stata con Detroit la capitale mondiale delle quattro ruote. Le auto che uscivano dalla catena di montaggio di Mirafiori erano un paradigma di bellezza e stile. La Ford aveva chiamato «Gran Torino» il suo modello di punta e Clint Eastwood ne aveva fatto il titolo di un film. Oggi da quel che resta della fabbrica escono un po’ di 500 elettriche e un pugno di Maserati. Gli operai lavorano una settimana al mese. La Lear, che produce sedili, ha 400 operai in cassa integrazione. La Te che vende auto e ricambi fa ruotare 220 operai. Il sindacato calcola che per ogni dipendente diretto di Stellantis che «esce» ce ne siano almeno 2,5 senza lavoro nell’indotto. Abbandonare Mirafiori significa desertificare il territorio. Dal palco di Piazza Castello Uliano aggiunge: «Riportare la speranza e il futuro è il nostro compito e la nostra responsabilità. Le batterie, l’economia circolare, i cambi elettrici e il campus possono portare qualche posto di lavoro, ma non mettono in garanzia i 73.000 addetti del gruppo. Faccio un appello alle istituzioni e ai manager: meno selfie e più unità con i lavoratori e il sindacato».
Sergio Mattarella (Ansa)
Si torna quindi all’originale, fedeli al manoscritto autografo del paroliere, che morì durante l’assedio di Roma per una ferita alla gamba. Lo certifica il documento oggi conservato al Museo del Risorgimento di Torino.
La svolta riguarderà soprattutto le cerimonie militari ufficiali. Lo Stato Maggiore della Difesa, in un documento datato 2 dicembre, ha infatti inviato l’ordine a tutte le forze armate: durante gli eventi istituzionali e le manifestazioni militari nelle quali verrà eseguito l’inno nella versione cantata - che parte con un «Allegro marziale» -, il grido in questione dovrà essere omesso. E viene raccomandata «la scrupolosa osservanza» a tutti i livelli, fino al più piccolo presidio territoriale, dalla Guardia di Finanza all’Esercito. Ovviamente nessuno farà una piega se allo stadio i tifosi o i calciatori della nazionale azzurra (discorso che vale per tutti gli sport) faranno uno strappo alla regola, anche se la strada ormai è tracciata.
Per confermare la bontà della decisione del Colle basta ricordare le indicazioni che il Maestro Riccardo Muti diede ai 3.000 coristi (professionisti e amatori, dai 4 agli 87 anni) radunati a Ravenna lo scorso giugno per l’evento dal titolo agostiniano «Cantare amantis est» (Cantare è proprio di chi ama). Proprio in quell’occasione, come avevamo raccontato su queste pagine, il grande direttore d’orchestra - che da decenni cerca di spazzare via dall’opera italiana le aggiunte postume, gli abbellimenti non richiesti e gli acuti non scritti dagli autori, ripulendo le partiture dalle «bieche prassi erroneamente chiamate tradizioni» - ordinò a un coro neonato ma allo stesso tempo immenso: «Il “sì” finale non si canta, nel manoscritto non c’è».
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Scott Bessent (Ansa)
Partiamo da Washington, dove il Pil non solo non rallenta, ma accelera. Nel terzo trimestre dell’anno, da luglio a settembre, l’economia americana è cresciuta del 4,3%. Non un decimale in più o in meno: un punto pieno sopra le attese, ferme a un modesto 3,3%. Un dato arrivato in ritardo, complice lo stop federale che ha paralizzato le attività pubbliche, ma che ha avuto l’effetto di una doccia fredda per gli analisti più pessimisti. Altro che frenata da dazi: rispetto al secondo trimestre, l’incremento è stato dell’1,1%. Altro che economia sotto anestesia. Una successo che spinge Scott Bessent, segretario del Tesoro, a fare pressioni sulla Fed perché tagli i tassi e riveda al ribasso dal 2% all’1,5% il tetto all’inflazione. Il motore della crescita? I consumi, tanto per cambiare. Gli americani hanno continuato a spendere come se i dazi fossero un concetto astratto da talk show. Nel terzo trimestre i consumi sono saliti del 3,5%, dopo il più 2,5% dei mesi precedenti. A spingere il Pil hanno contribuito anche le esportazioni e la spesa pubblica, in un mix poco ideologico e molto concreto. La morale è semplice: mentre la politica discute, l’economia va avanti. E spesso prende un’altra direzione.
E l’Europa? Doveva essere la prima vittima collaterale della guerra commerciale. Anche qui, però, i numeri si ostinano a non obbedire alle narrazioni. L’Italia, per esempio, a novembre ha visto rafforzarsi il saldo commerciale con i Paesi extra Ue, arrivato a più 6,9 miliardi di euro, contro i 5,3 miliardi dello stesso mese del 2024. Quanto agli Stati Uniti, l’export italiano registra sì un calo, ma limitato: meno 3%. Una flessione che somiglia più a un raffreddore stagionale che a una polmonite da dazi. Non esattamente lo scenario da catastrofe annunciata.
Anche la Bce, che per statuto non indulge in entusiasmi, ha dovuto prendere atto della resilienza dell’economia europea. Le nuove proiezioni parlano di una crescita dell’eurozona all’1,4% nel 2025, in rialzo rispetto all’1,2% stimato a settembre, e dell’1,2% nel 2026, contro l’1,0 precedente. Non è un boom, certo, ma nemmeno il deserto postbellico evocato dai più allarmisti. Soprattutto, è un segnale: l’Europa cresce nonostante tutto, e nonostante tutti. E poi c’è la Cina, che osserva il dibattito globale con il sorriso di chi incassa. Nei primi undici mesi del 2025 Pechino ha messo a segno un surplus commerciale record di oltre 1.000 miliardi di dollari, con esportazioni superiori ai 3.400 miliardi. Altro che isolamento: la fabbrica del mondo continua a macinare numeri, mentre l’Occidente discute se i dazi siano il male assoluto o solo un peccato veniale.
Alla fine, la lezione è sempre la stessa. I dazi fanno rumore, le previsioni pure. Ma l’economia parla a bassa voce e con i numeri. E spesso, come in questo caso, si diverte a smentire chi aveva già scritto il copione del disastro. Le cassandre restano senza applausi. Le statistiche, ancora una volta, si prendono la scena.
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Paolo Barletta, Ceo Arsenale S.p.a. (Ansa)
Il contributo di Simest è pari a 15 milioni e passa dalla Sezione Infrastrutture del Fondo 394/81, plafond in convenzione con il ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, dedicato alle imprese italiane impegnate in grandi commesse estere che valorizzano la filiera nazionale. In termini di struttura, il capitale sociale congiunto copre la componente di rischio industriale, mentre la componente del fondo saudita sostiene la rampa di avvio del progetto, riducendo il fabbisogno di capitale a carico dei partner italiani e rafforzando la bancabilità dell’iniziativa nel Paese ospitante, presentata come modello pubblico-privato nel segmento ferroviario di lusso.
L’intesa è inserita nella collaborazione Italia-Arabia Saudita, richiamando l’apertura della sede Simest a Riyadh e il Memorandum of Understanding tra Cdp, Simest e Jiacc. «Dream of the Desert» è indicato come progetto apripista di un modello pubblico-privato nel trasporto ferroviario di lusso.
«Dream of the Desert è un progetto simbolo per il nostro gruppo e per l’industria ferroviaria internazionale. Valorizza le Pmi italiane e costituisce un caso apripista di partnership pubblico-privata nel settore ferroviario di lusso. L’accordo siglato con Simest e le istituzioni saudite conferma come la collaborazione tra imprese e istituzioni possa creare valore duraturo e promuovere le eccellenze italiane nel mondo», commenta Paolo Barletta, amministratore delegato di Arsenale.
Regina Corradini D’Arienzo, amministratore delegato di Simest, aggiunge: «L’intesa sottoscritta con un primario attore industriale come Arsenale per la realizzazione di un progetto strategico per il Made in Italy, conferma il rafforzamento del ruolo di Simest a sostegno del tessuto produttivo italiano e delle sue filiere. Attraverso la prima operazione realizzata nell’ambito del Plafond di equity del fondo pubblico di Investimenti infrastrutturali», continua la numero uno del gruppo, «Simest interviene direttamente come socio per accrescere la competitività delle nostre imprese impegnate in progetti infrastrutturali ad alto valore aggiunto, favorendo al contempo l’espansione del Made in Italy in mercati strategici ad elevato potenziale di crescita, come quello saudita. Lo strumento, sviluppato da Simest sotto la regia del ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale e in collaborazione con Cassa depositi e prestiti, si inserisce pienamente nell’azione del Sistema Italia, che, sotto la regia della Farnesina, vede il coinvolgimento di Cdp, Simest, Ice e Sace. Un approccio integrato volto a garantire alle imprese italiane un supporto strutturato e complementare, dall’azione istituzionale a quella finanziaria, per affrontare con efficacia le principali sfide della competitività internazionale».
Sul piano industriale, Arsenale dichiara un treno interamente progettato, prodotto e allestito in Italia: gli hub Cpl (Brindisi) e Standgreen (Bergamo) operano con Cantieri ferroviari italiani (Cfi) come general contractor, coordinando una rete di Pmi (design, meccanica avanzata, ingegneria, lusso e hospitality). Per il committente estero, questa configurazione «turnkey (chiavi in mano, ndr.)» concentra in un unico soggetto il coordinamento di produzione, integrazione e allestimento; per l’ecosistema italiano, sposta volumi e valore aggiunto lungo la catena domestica, fino alla finitura degli interni ad alto contenuto di design.
Il prodotto sarà un treno di ultra lusso con itinerari da uno a due notti: partenza da Riyadh e collegamenti verso destinazioni iconiche del Regno, tra cui Alula (sito Unesco) e Hail, fino al confine con la Giordania. Gli interni sono firmati dall’architetto e interior designer Aline Asmar d’Amman, fondatore dello studio Culture in Architecture. La prima carrozza è stata consegnata a settembre 2025; l’avvio operativo è previsto per fine 2026, con prenotazioni aperte da novembre 2025.
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Matteo Hallissey (Ansa)
Il video è accompagnato da un post: «Abbiamo messo in atto», scrive l’ex perfetto sconosciuto Hallisey, «un flash mob pacifico pro Ucraina all’interno di un convegno filorusso organizzato dall’Anpi all’università Federico II di Napoli. Dopo aver atteso il termine dell’evento con Alessandro Di Battista e il professor D’Orsi e al momento delle domande, decine di studenti e attivisti pro Ucraina di +Europa, Ora!, Radicali, Liberi Oltre, Azione e della comunità ucraina hanno mostrato maglie e bandiere ucraine. È vergognoso che non ci sia stata data la possibilità di fare domande e che l’attivista che stava interloquendo con i relatori sia stato aggredito e spinto da un rappresentante dell’Anpi fino a rompere il microfono. Anch’io sono stato aggredito violentemente», aggiunge il giovane radicale, «mentre provavo a fare una domanda a D’Orsi sulla sua partecipazione alla sfilata di gala di Russia Today a Mosca due mesi fa. Chi rivendica la storia antifascista e partigiana non può non condannare queste azioni di fronte a una manifestazione pacifica».
Rivedendo più volte il video al Var, di aggressioni non ne abbiamo viste, a parte come detto qualche spinta, ma va detto pure che quando Hallissey scrive «mentre provavo a fare una domanda a D’Orsi», omette di precisare che quella domanda è stata posta al professore, ma in maniera tutt’altro che pacata: le urla del buon Matteo sono scolpite nel video da lui stesso, ripetiamo, pubblicato. Per quel che riguarda la rottura del microfono, le immagini, viste e riviste non chiariscono se il fallo c’è o no: si vede un giovane attivista che contende un microfono a D’Orsi, ma i frame non permettono di accertare se alla fine si sia rotto o sia rimasto intero.
Quello che è certo è che ieri sono piovuti nelle redazioni i soliti comunicati di solidarietà, non solo da parte di Azione, degli stessi Radicali e di Benedetto Della Vedova, ma anche del capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia Galeazzo Bignami, che su X ha vergato un severo post: «Solidarietà a Matteo Hallissey, presidente dei Radicali italiani», ha scritto Bignami, «aggredito a un evento Anpi per aver provato a porre domande in un flash mob pacifico. Da chi ogni giorno impartisce lezioni di democrazia ma reagisce con violenza, non accettiamo lezioni». Non si comprende, come abbiamo detto, dove sia la violenza, perché per una volta bisogna pur mettere da parte il politically correct e l’ipocrisia dilagante e dire le cose come stanno: dal video emerge in maniera cristallina la natura provocatoria del flash mob pro Ucraina, e da quelle urla e da quegli atteggiamenti, per noi che abbiamo purtroppo l’abitudine a pensar male, anche se si fa peccato, fa capolino pure che magari l’obiettivo era proprio quello di scatenare una reazione violenta da parte dei partecipanti al convegno.
Non lo sapremo mai: quello che sappiamo è che i Radicali, sigla che nella politica italiana ha avuto un ruolo di primissimo piano per tante battaglie condotte in primis dal compianto Marco Pannella, sono ormai ridotti a praticare forme di puro macchiettismo politico, pur di ottenere un po’ di visibilità: ricorderete lo show di Riccardo Magi, deputato di +Europa, che vaga nell’aula di Montecitorio vestito da fantasma. A proposito di Magi: il congresso che lo scorso febbraio ha rieletto segretario di +Europa il deputato fantasma è stato caratterizzato da innumerevoli polemiche e altrettante ombre. Poche ore prima della chiusura del tesseramento, il 31 dicembre, dalla provincia di Napoli, in particolare da Giugliano e Afragola, arrivano la bellezza di 1.900 nuovi iscritti, praticamente un terzo dell’intera platea di tesserati, iscritti che poi si traducono in delegati che eleggono i vertici del partito. Una conversione di massa alla causa radicale degli abitanti di questi due popolosi comuni del Napoletano in sostanza stravolge gli equilibri congressuali. Tra accuse e controaccuse, un giovanissimo militante, alla fine dello stesso congresso, sconfigge nella corsa alla presidenza di +Europa uno storico esponente del partito come Benedetto Della Vedova. Si tratta proprio di Matteo Hallissey.
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