2022-02-12
In Sicilia l’arte culinaria ha dignità di scienza
La «perfetta mescolanza d’imperfezione» dell’arancino. L’eccellenza dei «masculini» della Riviera dei Ciclopi. I dolci di carrube o gli «impanatigghi» modicani ripieni di cioccolato e carne di manzo. Prodotti della tradizione la cui semplicità è soltanto presunta.Per i cultori di storia e antropologia è noto come la Sicilia sia un sovrapporsi di civiltà che, nel tempo, l’hanno consegnata a noi con un fascino che va a completare visioni e paesaggi ben descritti dai suoi maestri, da Luigi Pirandello a Leonardo Sciascia passando per Andrea Camilleri. Dalla cultura classica alla cultura materiale il passo è breve, ben sintetizzato da Ciccio Sultano, stellato maestro dei fornelli di Ragusa Ibla. Prendiamo l’arancino, semplicissima icona del cibo di strada, con versioni diverse da Catania a Palermo e radici comuni. «La toma è un formaggio fresco portato dai greci; poi abbiamo il riso, con lo zafferano, dono degli arabi. Il ragù, eredità francese, i pomodori, grazie agli spagnoli». «Ognuno che è approdato qui ci ha messo qualcosa» prosegue Sultano, principe di cucina, in questa sua confessione a Raethia Corsini «poi se ne è andato e noi ci siamo tenuti tutto. Poteva risultarne un’accozzaglia, invece questa terra è solo una perfetta mescolanza di imperfezione». Di eccellenze affascinanti, aggiungiamo noi, grazie anche al viaggio di scoperta che ci accompagna lungo le pagine dell’ultimo libro del «Goethe gastronauta», Davide Paolini, Confesso che ho mangiato, in cui la Sicilia ne esce conturbante ammaliatrice. Non si può che iniziare da Catania, il cui mercato del pesce, a pochi passi dal Duomo, va vissuto almeno una volta nella vita con i suoi protagonisti, un mix tra venditori e attori, che lascia basiti. Tra questi un vecchio pescatore, senza nome, «oramai tradito dal mare che offre i suoi masculini estraendoli con gesto lento da una botte di legno, quasi non volesse staccarsene». I masculini sono le piccole guizzanti acciughe del golfo con vista sull’Etna, ben descritti da padron ’Ntoni ne I Malavoglia di Giovanni Verga «sentono il grecale (il vento di tempesta, ndr) ventiquattro ore prima che arrivi» e così vanno a ripararsi nei fondali, tanto che «l’acciuga è un pesce che ha più giudizio del tonno». Testimone il fatto che, nello slang locale, un’azione masculina è un’azione scaltra, di gente che sa stare al mondo, anche se sottacqua, nello specifico. Sono poche le famiglie rimaste dedite a questa pesca, tradizione fin dai tempi di Omero. Si usano reti particolari, le menaidi. Possono essere lunghe trecento metri, con maglie sottili, di circa un centimetro. Filtro naturale. I pesci più piccoli così se la scampano, gli altri ne rimangono impigliati all’interno, senza possibilità di fuga. Il periodo migliore qualche giorno dopo i forti temporali perché, come suggerisce Raimondo Piazza, pescivendolo di Lentini, «le piogge dilavano in mare le sabbie laviche dell’Etna e, sui fondali, si forma un’erbetta detta manna, di cui le acciughe sono ghiotte». Creature vendute fresche o conservate sotto sale, private della testa. Questa rimaneva patrimonio di famiglia, conservata dentro i cugnitti, piccoli orci di terracotta e serviva al bisogno, per paste o sughi conseguenti. Un grande classico la pasta chi masculini, generalmente fusilli, così che il condimento possa rimanere «aggrappato» alla pasta, ovvero, oltre alle acciughe, finocchietto e mollica di pane atturrata, cioè tostata. Gustoso escamotage, in tempi di magra, in quanto il pane atturrato poteva diventare una gustosa alternativa al formaggio grattugiato. Ancora Ciccio Sultano testimonial di un’altra storia, gli spaghetti in salsa moresca, ovvero bottarga di tonno, carote, arancia e mollica. Leggenda vuole che questa tradizione sia iniziata nel 1091 allorquando l’isola era sotto assedio dei mori, cioè gli arabi. Questo impediva ai pescatori di svolgere il loro lavoro, e quindi bisognava adattarsi, in qualche modo, pescando dalla dispensa quanto si aveva a disposizione. Sulla costa ragusana, a vegliare sui residenti, vi era la Madonna delle Milizie. Sopra una nuvola, poi antropizzata in un cavallo, brandiva una spada e incitava i cittadini di Scicli e i guerrieri normanni a resistere contro l’invasore. Una bella tradizione che si può rivivere ancora oggi nella suggestiva processione di fine maggio. Il cuoco siciliano la propone come salsa taratà, quasi a ricordare il suono delle spade che si incrociano in battaglia. Ci sono prodotti della tradizione che la modernità ha quasi rimosso, per la loro presunta semplicità. Tra queste le carrube, di cui la Sicilia è il maggior produttore nazionale. Un tempo, anche lungo le vie delle città del nord, le carrube erano una sorta di piccolo premio per i bambini, nei giorni di festa, tanto che Paolini le introduce così «sono gioielli appesi ad alberi sempre verdi oramai sparite dai carrettini dei dolciumi». Ne parlava già Plinio il Vecchio «non sono molto differenti dalle castagne, se non che di queste si mangia anche la corteccia». Pochi ricordano che, se abbiamo la cattedrale di Monreale, straordinaria bellezza di epoca arabo normanna, lo dobbiamo alle carrube. Guglielmo II, dopo una lunga giornata di caccia, andò a riposarsi sotto le generose frasche di questa pianta. In sogno gli apparve la Madonna il cui messaggio fu molto chiaro «sotto a dove stai dormendo si nasconde un tesoro, trovalo e costruisci in questo luogo un tempio a me dedicato». Una bella statua in bronzo sotto i portici della chiesa ci ricorda l’austera figura del devoto imperatore. Di fronte a tali quarti di valore storico, sui Monti Iblei, c’è chi non si è arreso, come Giovanni Cicero che ha indirizzato la storica dolceria di famiglia a proporre la carruba con modalità diverse, su tutte il carrubato, che fa ironicamente il verso al più blasonato frutto del cacao. Un ricettario eclettico che le vede protagoniste anche con le tagliatelle, con rucola e noci, o il riso, con i funghi. Ma la sorpresa con il botto la riserva la funcia i carrua, il fungo che si sviluppa negli anfratti del tronco di queste piante. Una storia nella storia. Nasce ogni sei-sette anni. Talmente intrigante che ci sono appositi cacciatori di funcia. Personaggi che annotano su di un loro libretto la mappatura delle piante, con la ricerca a rotazione come da calendario. La cosa divertente è che questo fungo può avere uno sviluppo talmente rapido che c’è anche chi si apposta dormendo alla base della pianta per evitare che la concorrenza si appropri di tanta bontà. Naturalmente è un prodotto che non si troverà mai in commercio. Un autentico peccato di gola papparselo impanato a mo’ di cotoletta. Non si può lasciare Modica, una delle capitali del cioccolato isolano, senza aver provato prima gli impanatigghi, un ossimoro goloso apparentemente impossibile. Sorta di panzerotti ripieni di mandorle, noci, cioccolato, spezie e carne di manzo. Sulla loro origine vi sono due scuole di pensiero, una laica e una religiosa. Sono legati, per certi versi, al periodo della dominazione spagnola, con precedenti influenze arabe. C’è chi sostiene che siano stati il frutto della carità di alcune suore benedettine di un monastero che, impietosite dai confratelli che portavano il verbo attraverso le campagne del territorio, legati alla penitenza del digiuno quaresimale, nascosero un po’ di ciccia energetica camuffata cromaticamente con il consolatorio cioccolato. Per altri, invece, cioccolato e zucchero erano in grado di ammortizzare possibili retrogusti della carne quando, dopo intense battute di caccia, non si sapeva bene come conservare quanto avanzava di lepri e fagiani dai pur lauti banchetti dei signori locali. Nel tempo, poi, è subentrato l’uso della carne di manzo, dal minor impatto organolettico. Ambasciatore degli impanatigghi Leonardo Sciascia che li definiva «biscotti da viaggio», in quanto ricchi di elementi nutritivi, ma anche facili da conservare, posto che i notabili del tempo, quando dovevano viaggiare con la loro carrozza sino a Palermo, li usavano come piacevole trastullo per distrarsi nelle lunghe ore di trasferta.
Francesca Albanese (Ansa)
Andrea Sempio. Nel riquadro, l'avvocato Massimo Lovati (Ansa)