2019-10-21
Il settore più penalizzato dalle scelte restrittive degli ultimi governi è quello delle perforazioni in alto mare. Colpite soprattutto le imprese specializzate nella ricerca. Il crollo mette a rischio migliaia di posti di lavoro.Un'ecatombe per le tasche degli italiani. Non si può definire altrimenti la scelta del governo di bloccare le concessioni per la ricerca e l'estrazione di gas e petrolio all'interno dei confini italiani. Secondo Assomineraria, l'associazione che rappresenta 116 aziende attive nella ricerca e nella produzione di risorse minerarie, nel solo caso dei permessi di ricerca si stima nei prossimi anni una perdita di investimenti per oltre 400 milioni di euro e una diminuzione delle entrate per le casse dello Stato (tra tasse, contributi e royalties) per circa 110 milioni di euro l'anno. Estendendo i vincoli introdotti anche al caso di mancata proroga delle concessioni in essere, vengono a mancare inoltre investimenti e spese di esercizio per circa 6 miliardi di euro e si registrerebbe una diminuzione delle entrate per le casse dello Stato per oltre 300 milioni di euro l'anno.Basti notare che negli ultimi 20 anni il numero dei permessi di ricerca in Italia si è ridotto da 190 a 80, mentre quello delle concessioni di coltivazione è rimasto praticamente costante intorno al 2000. Pallottoliere alla mano, il totale di titoli minerari operativi in Italia è calato del 28%, ma nel caso dei permessi di ricerca a mare la riduzione è stata del 53%. I titoli rilasciati negli ultimi 15 anni, e ancora vigenti (dati aggiornati al 2018), sono 62. Ma se andiamo a vedere gli ultimi 5 anni, sono solo 14 di cui 3 concessioni e 11 permessi di ricerca. Negli ultimi 12 anni è stata rilasciata 1 sola concessione a mare.sempre meno pozziAnche il numero dei pozzi perforati è drasticamente diminuito. Dal 2013 al 2017 sono stati perforati solo 7 pozzi di esplorazione, nessuno dei quali a mare dove l'ultimo pozzo perforato risale al 2008. I pozzi di sviluppo sono stati 20 (2 a terra e 18 mare, ma solo 10 relativi a nuove strutture). Un'attività ben lontana dalla media tra il 1970 e il 2017, complessivamente di circa 70 pozzi perforati all'anno. A pagarne le conseguenze sono i lavoratori di tutta la filiera che fornisce tecnologie specialistiche a questa industria. Il comparto italiano dei beni e servizi all'attività estrattiva è tra i leader mondiali di questo settore e vanta fatturati significativi (oltre 20 miliardi di euro l'anno) in grado di sostenere ricerca e sviluppo di processi innovativi trasversali a diverse realtà industriali ed energetiche. Si parla, quindi, di perdita di competenze e gravi conseguenze sui posti di lavoro, in un settore che occupa circa 100.000 addetti su commesse italiane e straniere, di cui circa 20.000 fra diretto e indotto nei soli siti operativi italiani. Come sottolinea Assomineraria sul suo sito, basti considerare che solo in Emilia Romagna lavorano più di 10.000 addetti riconducibili all'industria upstream (termine tecnico che indica l'insieme dei processi operativi da cui ha origine l'attività di produzione di gas naturale e petrolio). La zona più colpita dalle misure governative è il distretto di Ravenna che ha già registrato una diminuzione dei dipendenti a contratto da oltre 4.500 a poco più di 3.800.Inoltre, così facendo, mentre diciamo addio a soldi e posti di lavoro, l'Italia diventa sempre meno indipendente sotto il profilo energetico. Come spiega una nota dell'associazione, «fermare le attività estrattive in Italia incide anche sulla sicurezza degli approvvigionamenti, ed espone il nostro Paese sempre di più alla dipendenza dall'estero per soddisfare il suo fabbisogno domestico. L'Italia, a oggi, importa circa il 75% dell'energia che consuma (per gli idrocarburi si raggiunge il 90%), una dipendenza molto superiore alla media dei Paesi dell'Unione europea, intorno al 54%».bilancia commercialeTutto questo ha infatti un impatto negativo sulla bilancia commerciale. Nel 2018 la fattura energetica per l'Italia è stata di circa 40 miliardi di euro. Nello stesso anno la produzione domestica ha contribuito al miglioramento della bilancia commerciale con un risparmio complessivo sulla bolletta energetica di circa 3,1 miliardi di euro. Con ogni probabilità, questo vantaggio andrà perduto.Si può almeno affermare che questa scelta faccia bene all'ambiente? No. «Tutto questo comporta anche un impatto ambientale, in particolare per importare il gas è necessario bruciarne una percentuale importante per comprimerlo e trasportarlo, con il conseguente aumento delle emissioni di gas clima-alteranti di circa il 25% rispetto al gas prodotto in Italia», si legge sul sito di Assomineraria. Va detto che l'attenzione all'ambiente è una questione di vitale importanza. Tutti gli operatori del settore energetico stanno lavorando per offrire un mondo sempre meno dipendente dal carbone.maggiore dipendenza«Sicuramente», spiega l'associazione italiana dell'upstream in un documento, «la lotta ai cambiamenti climatici riguarda anche il settore estrattivo e tutte le realtà industriali del comparto energetico sono già parte attiva della transizione energetica, argomento al centro del dibattito pubblico mondiale, e sono pronte ad affrontare questa sfida grazie al loro patrimonio di esperienze virtuose già consolidato in Italia e nel mondo. Puntare su un'economia con bassi livelli di carbone è l'obiettivo di tutti, ma per realizzarlo è necessario passare a un nuovo modello energetico che consenta di promuovere uno sviluppo sostenibile dal punto di vista ambientale, economico e sociale. Il nuovo modello deve essere caratterizzato da elevati standard di efficienza e in grado di fornire energia pulita, a elevata densità, continua ed economica. La transizione passa dall'utilizzo del gas naturale in un sistema di economia circolare innovativo ed efficiente. Un'ipotesi realistica e concreta per il futuro energetico del nostro Paese e del mondo. Per questo è importante che il governo consideri nel suo insieme le ricadute delle manovre previste per questo settore che è strategico per l'Italia. Cancellare il comparto estrattivo dall'industria italiana e il suo bagaglio di eccellenza in ricerca e sviluppo non è certamente la risposta alla decarbonizzazione».
Sébastien Lecornu (Ansa)
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