Immigrato ammazza un sacerdote a Como. La Caritas incolpa il resto degli abitanti

Gocce di sangue. Partono dalla piazzetta delle coltellate, arrivano sulla strada che conduce al comando dei carabinieri, distante non più di 400 metri. Sono la via crucis di un assassino, sono l'ultimo ricordo intriso di polvere e asfalto di un uomo buono. Don Roberto Malgesini, il prete degli ultimi. Il coltello ha smesso di sgocciolare ed è stato abbandonato in un'aiuola quando Mahmoudi, 53 anni, tunisino da almeno 20 anni a Como, irregolare che ha vissuto nel sottobosco dell'accoglienza, entra nell'androne. E al primo uomo in divisa che incontra dice in lacrime: «Ho ammazzato don Roberto».
Lo ha accoltellato numerose volte (più delle sette ufficiali) in preda a una follia ancora da decifrare con chiarezza; lo ha sgozzato e lasciato lì alle 7 di mattina sul selciato davanti alla chiesa di piazza San Rocco, dove finisce la lunga discesa che si chiama Napoleona e comincia la città che si è da poco svegliata. Un sacrificio. Ancora una volta, ancora un sacerdote. Un sacrificio nel segno della carità, in nome di una vita consacrata a chi non ha nome, non ha storia, non ha riconoscibilità sociale. Don Malgesini aveva 51 anni ed era conosciuto da tutti, dai volontari alle associazioni, dalle istituzioni ai migranti. Era lui che portava la colazione ai disperati, che trovava un paio di pantaloni decenti a chi aveva consumato i suoi, che aveva sempre una coperta in più, che offriva una doccia e accompagnava in ambulatorio i malati, che teneva in casa i disperati e gli sbandati. Non faceva distinzione, non era nella sua natura.
Basta aggirarsi per dieci minuti in piazza San Rocco, dove un gruppo di marocchini bivacca dal mattino fino a notte alta, per sentir sussurrare chi passa in fretta: «Era troppo buono, glielo dicevamo che era troppo disponibile». Per don Roberto - come per tutti i don Roberto della storia - il troppo non esiste perché non esiste la misura. Sorridente e positivo come solo gli idealisti sanno essere, allargava le braccia e sperava che potessero contenere il mondo. In ogni volto riconosceva, a torto o a ragione, quello di Gesù. Conosceva il suo assassino ma mai avrebbe immaginato una simile reazione e mai lo avrebbe tenuto lontano, sapendo che aveva bisogno di lui.
Nato a Cosio Valtellino (Sondrio), da 10 anni era incardinato a Como, prima nella frazione di Lipomo, poi nella grande comunità pastorale Beato Scalabrini che si occupa delle problematiche di alcune parrocchie del centro. A differenza di molti colleghi che si attribuiscono una patente di santità facendo politica attiva, non amava apparire, farsi fotografare, parlare in pubblico. Aiutava senza l'abito talare, riconoscibile da un civile solo per la croce di legno che gli penzolava dalla Lacoste. La sua è una storia come tante, il suo destino è quello di un martire dell'accoglienza, sacrificatosi in nome della generosità pura e semplice, della carità che viene prima della giustizia e molto prima delle regole. Una vicenda che a Como ha un precedente: nel 1999 don Renzo Beretta era stato ucciso a Ponte Chiasso da un extracomunitario che stava aiutando.
L'aggressore di don Roberto era un immigrato irregolare come ce ne sono tanti a Como, capolinea ferroviario prima del grande deserto svizzero, dove tutti vengono respinti come palline ribattute da Roger Federer. Mahmoudi non è un invisibile o un pazzo, come vorrebbe imporre una certa narrazione consolatoria: andava a dormire all'oratorio di Sant'Orsola, era seguito dalla Caritas da molti anni, era un habitué degli sportelli di Porta Aperta, settore Caritas dedicato alle problematiche dell'accoglienza. E non è matto. Non ci sono trattamenti sanitari obbligatori, non ci sono percorsi ufficiali che sostengano la tesi della follia. Invece è certo che a suo carico giace in questura a Como un decreto di espulsione dal 2015 e proprio ieri il tunisino avrebbe dovuto recarsi in tribunale per sostenere un'udienza decisiva. Dalle prime ricostruzioni sembra che fosse in disaccordo con l'avvocato per la strategia difensiva e con don Roberto che gli aveva consigliato il legale.
Descritto come arrogante e insistente nel voler far valere le proprie ragioni, il tunisino «ha ammesso le proprie responsabilità durante l'interrogatorio». Lo ha comunicato il procuratore Nicola Piacente. Nel suo passato c'è anche la convivenza con una donna comasca; una storia finita con un fascicolo penale a carico dell'uomo, che avrebbe anche fatto un periodo in carcere. Uno scenario che getta una pesante ombra di responsabilità sulla gestione dell'irregolare da parte della Caritas. E che fa suonare del tutto stonate (quasi si trattasse di un depistaggio) le parole del presidente comasco dell'associazione diocesana, il diacono Roberto Bernasconi, che definisce l'omicidio «frutto dell'odio che monta in questi giorni ed è la causa scatenante al di là della persona fisica che ha compiuto questo gesto. Alcune situazioni come la malattia psichica sono dimenticate dalla società». Bernasconi la butta in politica rilanciando una vena psichiatrica che non risulta. In realtà Mahmoudi era in carico alla Caritas che avrebbe dovuto conoscerne le fragilità, aiutando don Roberto a gestirne gli eccessi. Ieri il sindaco Mario Landriscina ha dichiarato il lutto cittadino e il vescovo Oscar Cantoni (che ha definito il sacerdote «un santo della porta accanto») ha espresso il desiderio di celebrare il funerale in Duomo, trovando sorprendentemente contrari i famigliari di don Roberto, i quali preferirebbero una cerimonia privata in Valtellina. Oggi si saprà, per ora a ricordare il prete degli ultimi sono i mazzi di fiori in piazza San Rocco dove è stato trucidato. I comaschi e i suoi amici disperati recano un segno delicato dove c'era il sangue. Un migrante nigeriano si sdraia su quei fiori e crea indignazione. Spiegherà: «Così mi sento più vicino a lui».






