Falso che sosterranno la previdenza. Aldo Barba (Federico II): «Spingono giù tutti gli stipendi, non solo quelli base».
Falso che sosterranno la previdenza. Aldo Barba (Federico II): «Spingono giù tutti gli stipendi, non solo quelli base».Ma siamo proprio sicuri che senza nuovi immigrati le pensioni dei lavoratori cadrebbero a picco? Secondo alcuni esperti, la risposta potrebbe non essere così ovvia. Anzi, ci potrebbe anche stupire. Uno studio realizzato nel 2018 da Alberto Brambilla, presidente del Centro studi e ricerche Itinerari previdenziali, insieme a Natale Forlani, esperto di relazioni industriali, mercato occupazionale e organizzazione del lavoro, oggi presidente dell’Inapp, l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche, mostra che i flussi migratori non sono sufficienti a garantire la tenuta del sistema previdenziale.«Premesso che, in generale, non si comprende per quale motivo alcuni istituti di ricerca insistano nello stilare una sorta di bilancio annuale sui costi/benefici dell’immigrazione come se la popolazione immigrata fosse assimilabile a una categoria economico-produttiva, mentre nella realtà è il frutto di un insieme di fenomeni dalle dinamiche molto specifiche e diversificate al loro interno, va subito subito precisato», spiegava Forlani, «che, se consideriamo, esattamente come già accade per i lavoratori italiani, i contributi previdenziali un debito pensionistico dello Stato nei confronti di chi ha versato, e quindi non ascrivibili a entrate all’interno di un ipotetico computo dei costi/benefici prodotti dagli immigrati, il bilancio finale diventa negativo».I dati dello studio sono aggiornati a qualche anno fa, ma l’apporto dei migranti alla previdenza italiana non è cambiato poi molto. Secondo l’approfondimento, la sola spesa sanitaria (1.870 euro pro capite nel 2016) per i circa 6 milioni di immigrati presenti in Italia sarebbe pari a 11 miliardi, quella scolastica - riferita a oltre 1,1 milioni di stranieri (circa 7.400 euro l’anno pro capite) - aggiungerebbe al totale altri 8 miliardi. Tenendo conto anche dei costi dell’accoglienza, si arriverebbe ad almeno 23 miliardi, cifre importanti anche ipotizzando, da un lato, una sovrastima delle spese sanitarie sostenute per gli immigrati, che spesso tendono per varie ragioni a rivolgersi al sistema sanitario meno di quanto non facciano gli italiani, e trascurando, dall’altro, ulteriori possibili oneri a carico dello Stato (assistenza sociale, trasporti, etc.).«E non potrebbe essere diversamente», faceva notare Brambilla commentando i dati dello studio, «perché l’immigrazione è un investimento per sua stessa natura e, in quanto tale, comporta dei costi che soprattutto inizialmente (nei primi 10-15 anni) possono superare le entrate. Ma gli investimenti vanno fatti per bene e, a parte gli ingressi per motivi umanitari, i flussi migratori vanno indirizzati sulla base delle reali esigenze del Paese. E quello che stupisce allora è la scarsa consapevolezza di tali esigenze (elemento che non è cambiato ancora oggi, ndr): in Italia si sta al momento manifestando un problema serio di sostenibilità e il rischio concreto è quello di doverlo fronteggiare con un supplemento di interventi assistenziali. Eppure, anziché approfondire questi fenomeni, una buona parte della nostra classe dirigente continua a riproporre una visione salvifica dell’immigrazione».C’è poi un problema salariale legato ai flussi migratori, un elemento che ha un diretto impatto sulla previdenza in Italia. Viste le condizioni di difficoltà economica da cui molto spesso partono i migranti, questo fa sì che i datori di lavoro spesso offrano salari molto più bassi di quelli che offrirebbero a un italiano. Così facendo, il mercato del lavoro viene «drogato» al ribasso, contribuendo a far scendere l’asticella dei salari medi e dunque anche quella dei contributi previdenziali. Come spiega alla Verità Aldo Barba, professore ordinario di Economia politica dell’Università di Napoli Federico II e autore del libro sul tema insieme a Massimo Pivetti, dal titolo Il lavoro importato, «l’azione corrosiva dell’immigrazione sulla convenzione che regola il salario dei lavoratori più qualificati si esplica attraverso due modalità complementari. La prima agisce attraverso la riduzione della base sulla quale riposa l’intera struttura del salario. Una riduzione della remunerazione della mansione inferiore riduce in tal modo il salario che è necessario pagare per far svolgere la mansione appena superiore, e ciò è vero di mansione in mansione, a iniziare dal salario di base o minimo», continua, «nella misura in cui l’aggiunta degli immigrati alle forze di lavoro indigene erode la base della struttura salariale, essa trascina verso il basso tutta la scala delle retribuzioni. La seconda modalità è legata al fatto che la riduzione del salario nel settore a più bassa qualifica accresce il timore dei lavoratori qualificati di ricadervi. I differenziali salariali necessari a garantire la massima efficienza dello sforzo lavorativo tendono così a ridursi. Questo è particolarmente vero in un contesto recessivo, in cui il riferimento diviene quello della mansione inferiore in cui si teme di cadere e non quello della mansione superiore alla quale si aspira ad accedere», conclude.
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