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2022-09-05
L’illusione (pericolosa) delle rinnovabili
iStock
La narrazione dominante è che le arcigne sovrintendenze e le inette amministrazioni territoriali bloccano l’avanzata del futuro, impedendo la diffusione delle fonti rinnovabili. È in atto una campagna serrata contro chi ritarda il diluvio di progetti di centrali eoliche e fotovoltaiche in ogni punto d’Italia ma si tralascia di dire perché questi progetti non sono «graditi», come si tace sul fatto che tali impianti sono tutt’altro che «green». La stella polare è la tabella di marcia che si è data l’Europa «senza e senza ma»: entro il 2030 la quota di consumi finali coperta dalle rinnovabili deve essere di almeno il 40%, ed entro il 2050 la maggior parte della nostra energia dovrà provenire da fonti verdi. Ma per l’Italia questa è una grande illusione per un motivo semplice: pale eoliche, pannelli fotovoltaici e centrali idroelettriche vanno a scapito del paesaggio. E per il nostro Paese il paesaggio è una risorsa da tutelare. Comodo prendersela con le soprintendenze ambientali che non concedono le autorizzazioni: esse proteggono l’interesse di tutti.
Ormai, chiunque osi criticare le rinnovabili è un negazionista che rallenta la transizione ecologica. Questo approccio «politicamente corretto» si sta diffondendo a macchia d’olio in Europa e anche in Italia. Ma basta un po’ di buonsenso per capire che il ricorso all’energia pulita si scontra con la tutela del paesaggio, che per l’Italia è un bene economico. In base alle misure previste dal Pnrr e agli obiettivi del Piano nazionale integrato energia e clima (Pniec), Ispra e il Gestore servizi energetici (Gse) stimano una perdita compresa tra i 200 e i 500 chilometri quadrati di aree agricole entro il 2030 per il fotovoltaico a terra, a cui se ne aggiungerebbero altri 365 destinati a nuovi impianti eolici. Per avere un raffronto, la superficie della provincia di Monza Brianza è pari a 406 chilometri quadrati. La realizzazione di questi progetti energetici snaturerebbe radicalmente molti contesti agrari con pesanti impatti sulla situazione economico-sociale locale.
Conti alla mano pare anche che il gioco non valga la candela. «Il fotovoltaico è una tecnologia poco efficiente. La media di attività degli impianti costruiti nel 2020 è di 1.150 ore l’anno in cui produce al massimo del potenza, contro 8.000 ore l’anno del gas o del carbone. Non c’è competizione», afferma Enrico Mariutti, analista energetico e presidente dell’Istituto alti studi in geopolitica. Il presidente di Nomisma energia, Davide Tabarelli, sottolinea: «Quello che si fa su 500 ettari con un impianto fotovoltaico, lo si fa in una normale centrale convenzionale che occupa mezzo ettaro». Gli impianti rinnovabili sono ingombranti, consumano territorio perché l’energia prodotta da vento, sole e pioggia è dispersa e deve essere raccolta dalle eliche, da distese di pannelli e da dighe che interrompono il corso di fiumi. Ma i soldi europei del Pnrr sono legati allo sviluppo delle fonti rinnovabili: quanti di tali impianti potranno essere installati con un impatto ambientale ridotto, senza danneggiare le nostre bellezze naturali?
Uno studio dell’Osservatorio Regions 2030 del centro studi Elemens realizzato insieme a Public affairs advisor ha analizzato la strozzatura che ferma la gran parte dei progetti rinnovabili. Il 70% di questi è bloccato dai vincoli paesaggistici. Una volta che il ministero della Transizione ecologica ha dato il via libera, i progetti devono passare sotto le forche caudine di Dario Franceschini, ministro della Cultura, per avere l’approvazione definitiva. E su 76 pareri rilasciati dal dicastero sull’eolico, oltre l’87% risulta negativo. A quel punto la colpa della mancata transizione viene scaricata sulle soprintendenze, le quali non fanno altro che tutelare i beni paesaggistici.
Si scontrano qui le due anime dell’ambientalismo; quella che, in nome dell’energia verde e della lotta contro i combustibili fossili, ritiene che valga la pena chiudere un occhio davanti alle pale che vorticano sulle colline del Chianti o ai pannelli collocati sui tetti dei borghi antichi, e le convinzioni di chi, invece, vuole difendere il valore del territorio anche in considerazione del suo peso economico. In ballo c’è la salvaguardia di un patrimonio paesaggistico, ambientale e artistico unico al mondo.
C’è anche un altro aspetto che concorre a fare delle rinnovabili una grande illusione. I dati sulle emissioni di CO2 per la costruzione dei pannelli fotovoltaici non tengono conto che circa l’80% dell’industria delle rinnovabili è in mano ai cinesi, i quali per abbattere i costi di produzione usano il carbone. Uno studio realizzato da Mariutti pubblicato sul Tecnical bullettin della Society of petroleum engineers rileva che l’estrazione delle materie prime necessarie a produrre pannelli fotovoltaici, in particolare quarzo e silicio, richiedono impianti ad alta temperatura che comportano alti consumi energetici e notevoli emissioni inquinanti nell’atmosfera. In Italia, a oggi, sono attivi circa 900.000 impianti, per un totale di 100 milioni di pannelli vecchi in media 12 o 13 anni. Considerato che la vita media dell’impianto fotovoltaico è di circa 20 anni, significa che il nostro Paese si deve apprestare ad affrontare un ammodernamento radicale. Che fine faranno i pannelli dismessi? Il loro riciclo è all’anno zero.
«Non si può rinunciare al nucleare»
«Per conseguire davvero in Italia l’obiettivo zero emissioni di CO2 al 2050 e oltre, un mix elettrico con sole rinnovabili è possibile ma è molto più complicato, impattante e costoso di un mix che contempli anche una quota di nucleare». Giuseppe Zollino, professore all’università di Padova di tecnica ed economia dell’energia e di impianti nucleari, da anni studia scenari elettrici di lungo periodo. «Essendo il nemico la CO2, è bene suddividere le tecnologie in due gruppi», spiega Zollino. «Da una parte quelle che emettono CO2, dall’altra quelle low carbon. Nel primo gruppo troviamo le centrali a carbone e a gas, con le prime che emettono più del doppio delle seconde. Nel secondo ci sono le rinnovabili e il nucleare: lo dice l’Ipcc, non io. Un’ulteriore classificazione è tra generatori programmabili (a combustibili fossili e idroelettrici, geotermici, a biogas e nucleari) e non programmabili, come gli impianti eolici e fotovoltaici che generano potenza elettrica indipendentemente dalla volontà del gestore. Quest’ultimo aspetto è fondamentale».
In che senso fondamentale?
«Le nuove rinnovabili, eolico e fotovoltaico, hanno profili di generazione che dipendono da circostanze naturali. Ad esempio, la radiazione solare non c’è di notte e d’estate è tre volte più abbondante che d’inverno. Esse sono perciò scorrelate dalla domanda. Quando si analizza un sistema elettrico basato su queste fonti, bisogna tener conto anche dei sistemi di accumulo, giornalieri e stagionali, per i momenti in cui la generazione è scarsa. Inoltre, poiché gli impianti sono distribuiti sul territorio, vanno aggiunti i necessari ampliamenti delle reti di distribuzione e di trasmissione. Tutto questo ha conseguenze non solo sui costi, ma anche sull’occupazione di suolo».
Quale sarà il fabbisogno di energia elettrica al 2050 quando dovrà essere raggiunto l’obiettivo zero emissioni?
«Secondo i nostri modelli, più del doppio dell’attuale. Da 320 miliardi di chilowattora ad almeno 650-700. Per generarlo senza emissioni di CO2, la soluzione più conveniente risulta un mix di rinnovabili e nucleare».
Cosa accadrebbe se dovessimo usare solo rinnovabili?
«Servirebbero, tra generazione e infrastrutture di accumulo, circa 800 gigawatt di impianti; con un mix di rinnovabili più nucleare ne basterebbero la metà, di cui 36 gigawatt nucleari».
Come è possibile?
«I reattori nucleari lavorano 8.000 ore l’anno, mentre in Italia l’eolico circa 2.200 (3.000 offshore) e il fotovoltaico a terra in condizioni ottimali tra 1.500 e 1.800 ore».
Si può fare un confronto tra le fonti energetiche considerando l’energia prodotta e il suolo occupato?
«Una sola centrale nucleare con tre reattori richiede una superficie di circa 150 ettari e genera, a potenza costante, 32 miliardi di chilowattora all’anno: un decimo del fabbisogno italiano2021. Per produrre la stessa energia da fotovoltaico servirebbero 20 gigawatt di impianti a terra su 30.000 ettari di suolo. Inoltre l’energia sarebbe generata solo di giorno, e d’estate il triplo che d’inverno. Per coprire il grande fabbisogno elettrico atteso al 2050 e oltre, alle rinnovabili va affiancato il nucleare. L’energia elettrica costerebbe molto meno».
Addio al gas?
«Se si vogliono azzerare le emissioni di CO2, nel lungo periodo è inevitabile. Potrebbe diventare compatibile solo catturando la CO2 emessa. Ci sono diverse sperimentazioni in corso ma finora poche applicazioni di grande taglia».
«Il Pnrr vuole distruggere 87.000 ettari di campagne»
«L’efficienza delle rinnovabili non è altissima e per installare gli impianti fotovoltaici la perdita di suolo è importante. Di qui al 2030 si stimano oltre 50.000 ettari (500 chilometri quadrati) di aree agricole che andranno perse per installare i pannelli fotovoltaici a terra, a cui si aggiungerebbero altri 365 chilometri quadrati per impianti eolici». Michele Munafò è il dirigente dell’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) che ha curato un rapporto sui numeri delle rinnovabili.
Qual è la diffusione del fotovoltaico?
«Oggi abbiamo 17.500 ettari di territorio (175 chilometri quadrati) coperti da rinnovabili. La maggiore estensione è in Puglia con 61 chilometri quadrati; seguono l’Emilia Romagna (19), il Lazio (15), Sicilia e Piemonte (12). Queste cifre dovranno essere aggiornate al rialzo in base alle misure previste dal Pnrr e dagli obiettivi del Piano nazionale integrato energia e clima. Per non danneggiare le aree agricole e salvaguardare il paesaggio una soluzione ci sarebbe».
Quale? Rinunciare all’illusione del 100% rinnovabili?
«Invece che a terra, sarebbe preferibile installare i pannelli su edifici, capannoni o aree inutilizzate».
Sui tetti? Vuole che dal Gianicolo si veda Roma come un’enorme distesa di silicio?
«Nessuno pensa a questo. Nello studio abbiamo calcolato la disponibilità di superfici escludendo i centri storici delle città d’arte, le aree esposte a Nord e quelle già occupate da antenne e impianti di condizionamento. Inoltre abbiamo considerato che i pannelli vanno distanziati per consentire la manutenzione. È emerso che sui tetti ci sarebbe posto per una potenza tra 70 e 92 gigawattora, sufficiente a coprire l’aumento di fotovoltaico previsto dal Piano per la transizione ecologica pari a 70-75 gigawattora. Non abbiamo considerato i piazzali, i parcheggi e altre infrastrutture».
Se la soluzione è così efficiente, qual è l’ostacolo?
«È un’operazione complicatissima. Abbiamo a che fare con superfici frazionate e con impianti piccoli. E c’è la proprietà edilizia: bisogna mettere d’accordo milioni di inquilini dei condomini».
E il costo?
«Chiaramente superiore rispetto agli impianti a terra. Però si eviterebbero i costi ambientali, paesaggistici e di produzione agricola persa. Il Gse ha calcolato che il 36% degli impianti sono a terra e il resto su strutture già esistenti. Ma questo divario è destinato ad accorciarsi».
Forse perché installare grandi impianti è un business superiore?
«Gran parte delle procedure in corso sono finalizzate a grandi impianti su superfici agricole. Le proposte vengono da gruppi industriali importanti che si muovono solo se hanno la convenienza di installare impianti di una certa dimensione su superfici estese. Piuttosto la politica potrebbe incentivare l’installazione di piccoli impianti all’interno dei programmi di riqualificazione edilizia. Ci sono circa 4.000 chilometri quadrati di tetti al di fuori dei centri urbani, dove sarebbe possibile installare impianti con una potenza variabile da 66 a 86 gigawatt. A questa si potrebbe aggiungere quella installabile in aree di parcheggio, dismesse o in altre superfici impermeabilizzate, senza consumare altro suolo».
«La Cina costruisce i pannelli solari utilizzando carbone»
L’illusione delle fonti rinnovabili si basa essenzialmente sulla narrazione che esse non emettono CO2. Ma cosa succederebbe se si scoprisse che un pannello made in China (dove si concentra l’80% della produzione fotovoltaica globale) produce CO2 come una centrale a gas? L’interrogativo emerge da uno studio pubblicato sul Technical bulletin della Society of petroleum engineers elaborato da Enrico Mariutti, ricercatore e analista nel settore energetico e presidente dell’Istituto alti studi in geopolitica.
Come si arriva a dire che le rinnovabili non sono affatto green?
«Una ventina di anni fa, quando si cominciò a parlare sul serio di rinnovabili, la Ue finanziò un progetto di raccolta dati per calcolare l’impatto ambientale e il ritorno energetico dei pannelli solari. Allora, per esempio, si temeva che servisse più energia per fabbricarli di quella che avrebbero restituito nel corso della loro vita. Misurando le emissioni legate alla fabbricazione e all’installazione di un impianto fotovoltaico e dividendole per la quantità di elettricità prodotta nel corso della loro vita utile (25 anni), si arrivò alla conclusione che la CO2 rilasciata per unità di energia era un venticinquesimo di quella che si emette usando il carbone e un decimo del gas. Il fotovoltaico è diventato così la chiave della transizione energetica perché, sulla carta, emette molta meno CO2 delle fonti fossili».
Dov’è il problema?
«Nessuno si è posto il problema che, per produrre un pannello, il grosso dell’impiego energetico e quindi delle emissioni è legato alla purificazione del silicio. Inizialmente per produrre il silicio si usava soprattutto energia idroelettrica, anche se il prodotto finale era poco puro. Ora l’industria fotovoltaica è in mano alla Cina e l’energia con cui si purifica il silicio non è più quella idroelettrica ma si usa soprattutto il carbone. A questo punto bisognava aggiornare le stime Ue. Ma le correzioni non sono state fatte e si continua a ragionare come se il silicio fosse ancora prodotto con energia pulita».
Com’è stato possibile?
«Quando ci sono in ballo investimenti per miliardi di euro, è difficile rimettere tutto in discussione. Qualcosa però è emerso nell’ultimo Assessment Report dell’Ipcc, la sezione dell’Onu che fa da cabina di regìa della strategia climatica globale».
Quindi qualcosa è venuto fuori?
«Sì, nascosto tra le righe. L’Assessment Report è la principale pubblicazione dell’Ipcc, esce ogni otto anni e dovrebbe condensare in tre volumi un sunto della letteratura scientifica pubblicata sul cambiamento climatico. Nel penultimo rapporto, uscito un anno prima degli Accordi di Parigi sul clima, l’Ipcc decise di dare ampio spazio alla comparazione dell’intensità carbonica delle fonti energetiche, per fornire ai governi una mappa concettuale su cui elaborare le strategie climatiche. Le stime dell’Ipcc si basavano su un singolo studio, che a sua volta ne revisionava 12, in cui si stimava che mediamente l’energia fotovoltaica produce 40 grammi di CO2 per chilowattora, cioè un decimo rispetto a una centrale a gas e un venticinquesimo di una centrale a carbone. Tutti gli studi però si basavano sui dati degli impianti europei, per di più raccolti dieci anni prima, nonostante la Cina fosse già il maggiore produttore di pannelli al mondo».
La consapevolezza degli errori di valutazione arriva con l’ultimo rapporto?
«Nel 2022 esce il nuovo rapporto e c’è un timido riferimento al problema: i ricercatori dichiarano che, a seconda di dove viene prodotto il pannello e di dove viene installato, l’intensità carbonica dell’energia fotovoltaica può avvicinarsi a quella di una centrale a gas. Vuol dire che se i pannelli sono prodotti in Norvegia a partire da energia idroelettrica le emissioni sono basse, ma se sono fabbricati in Cina con il carbone i valori salgono drasticamente. Sembra quasi che si siano accorti che quei dati andavano ricalcolati, ma abbiano avuto paura ad ammettere l’errore».
Perciò le stime sulla CO2 emessa per fabbricare pannelli fotovoltaici si basano ancora su dati vecchi di 20 anni?
«Esattamente. Tutti i rapporti istituzionali continuano a citare o rielaborare i valori standard indicati nel report Ipcc del 2014, a loro volta calcolati a partire da quelli mappati dall’Unione Europea nel 2004. Tutti citano la stessa fonte e per questo tutti arrivano alle medesime conclusioni: che il fotovoltaico è una tecnologia low carbon. In ambito commerciale, invece, qualcuno ha pensato di aggiornare i parametri, quantomeno alla luce del fatto che la Cina è ormai diventata quasi monopolista nella filiera del fotovoltaico. L’aggiornamento però ha abbinato alle correzioni, che avrebbero dovuto far salire le stime dell’intensità carbonica, nuovi errori che ribassano artificialmente i valori: per esempio, è stato introdotto il riciclo del pannello. Il problema è che, per il momento, riciclare i pannelli è antieconomico e c’è un unico impianto pilota - in Cina - che ne ricicla una manciata l’anno».
Come vengono eliminati? In discarica?
«Per il momento sì, oppure mandati in Africa come “aiuti umanitari”. Nessuno si è posto ancora il problema del pensionamento degli impianti. E il riciclo fa lievitare sicuramente costi e probabilmente anche le emissioni. Ma questa è un’altra storia».
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Eolico e fotovoltaico saranno amici dell’ambiente, ma sono ostili al paesaggio: gli impianti distruggono territorio da tutelare. Per questo le sovrintendenze bocciano il 70% dei progetti. Soppiantare del tutto il gas con queste sole fonti è pura fantasia.Il docente a Padova Giuseppe Zollino: «Il nucleare è la tecnologia più efficiente per produrre energia, non consuma altro suolo, non ha emissioni in atmosfera e non dipende dalle condizioni del meteo».Il dirigente dell’Ispra Michele Munafò: «Il Pnrr vuole distruggere 87.000 ettari di campagne. È la superficie che verrebbe occupata dagli impianti solari in base ai piani europei».L’esperto energetico Enrico Mariutti: «Chi controlla le strategie climatiche finge di non sapere che l’attività di fabbricazione dei pannelli solari inquina moltissimo».Lo speciale contiene quattro articoli.La narrazione dominante è che le arcigne sovrintendenze e le inette amministrazioni territoriali bloccano l’avanzata del futuro, impedendo la diffusione delle fonti rinnovabili. È in atto una campagna serrata contro chi ritarda il diluvio di progetti di centrali eoliche e fotovoltaiche in ogni punto d’Italia ma si tralascia di dire perché questi progetti non sono «graditi», come si tace sul fatto che tali impianti sono tutt’altro che «green». La stella polare è la tabella di marcia che si è data l’Europa «senza e senza ma»: entro il 2030 la quota di consumi finali coperta dalle rinnovabili deve essere di almeno il 40%, ed entro il 2050 la maggior parte della nostra energia dovrà provenire da fonti verdi. Ma per l’Italia questa è una grande illusione per un motivo semplice: pale eoliche, pannelli fotovoltaici e centrali idroelettriche vanno a scapito del paesaggio. E per il nostro Paese il paesaggio è una risorsa da tutelare. Comodo prendersela con le soprintendenze ambientali che non concedono le autorizzazioni: esse proteggono l’interesse di tutti.Ormai, chiunque osi criticare le rinnovabili è un negazionista che rallenta la transizione ecologica. Questo approccio «politicamente corretto» si sta diffondendo a macchia d’olio in Europa e anche in Italia. Ma basta un po’ di buonsenso per capire che il ricorso all’energia pulita si scontra con la tutela del paesaggio, che per l’Italia è un bene economico. In base alle misure previste dal Pnrr e agli obiettivi del Piano nazionale integrato energia e clima (Pniec), Ispra e il Gestore servizi energetici (Gse) stimano una perdita compresa tra i 200 e i 500 chilometri quadrati di aree agricole entro il 2030 per il fotovoltaico a terra, a cui se ne aggiungerebbero altri 365 destinati a nuovi impianti eolici. Per avere un raffronto, la superficie della provincia di Monza Brianza è pari a 406 chilometri quadrati. La realizzazione di questi progetti energetici snaturerebbe radicalmente molti contesti agrari con pesanti impatti sulla situazione economico-sociale locale.Conti alla mano pare anche che il gioco non valga la candela. «Il fotovoltaico è una tecnologia poco efficiente. La media di attività degli impianti costruiti nel 2020 è di 1.150 ore l’anno in cui produce al massimo del potenza, contro 8.000 ore l’anno del gas o del carbone. Non c’è competizione», afferma Enrico Mariutti, analista energetico e presidente dell’Istituto alti studi in geopolitica. Il presidente di Nomisma energia, Davide Tabarelli, sottolinea: «Quello che si fa su 500 ettari con un impianto fotovoltaico, lo si fa in una normale centrale convenzionale che occupa mezzo ettaro». Gli impianti rinnovabili sono ingombranti, consumano territorio perché l’energia prodotta da vento, sole e pioggia è dispersa e deve essere raccolta dalle eliche, da distese di pannelli e da dighe che interrompono il corso di fiumi. Ma i soldi europei del Pnrr sono legati allo sviluppo delle fonti rinnovabili: quanti di tali impianti potranno essere installati con un impatto ambientale ridotto, senza danneggiare le nostre bellezze naturali? Uno studio dell’Osservatorio Regions 2030 del centro studi Elemens realizzato insieme a Public affairs advisor ha analizzato la strozzatura che ferma la gran parte dei progetti rinnovabili. Il 70% di questi è bloccato dai vincoli paesaggistici. Una volta che il ministero della Transizione ecologica ha dato il via libera, i progetti devono passare sotto le forche caudine di Dario Franceschini, ministro della Cultura, per avere l’approvazione definitiva. E su 76 pareri rilasciati dal dicastero sull’eolico, oltre l’87% risulta negativo. A quel punto la colpa della mancata transizione viene scaricata sulle soprintendenze, le quali non fanno altro che tutelare i beni paesaggistici. Si scontrano qui le due anime dell’ambientalismo; quella che, in nome dell’energia verde e della lotta contro i combustibili fossili, ritiene che valga la pena chiudere un occhio davanti alle pale che vorticano sulle colline del Chianti o ai pannelli collocati sui tetti dei borghi antichi, e le convinzioni di chi, invece, vuole difendere il valore del territorio anche in considerazione del suo peso economico. In ballo c’è la salvaguardia di un patrimonio paesaggistico, ambientale e artistico unico al mondo. C’è anche un altro aspetto che concorre a fare delle rinnovabili una grande illusione. I dati sulle emissioni di CO2 per la costruzione dei pannelli fotovoltaici non tengono conto che circa l’80% dell’industria delle rinnovabili è in mano ai cinesi, i quali per abbattere i costi di produzione usano il carbone. Uno studio realizzato da Mariutti pubblicato sul Tecnical bullettin della Society of petroleum engineers rileva che l’estrazione delle materie prime necessarie a produrre pannelli fotovoltaici, in particolare quarzo e silicio, richiedono impianti ad alta temperatura che comportano alti consumi energetici e notevoli emissioni inquinanti nell’atmosfera. In Italia, a oggi, sono attivi circa 900.000 impianti, per un totale di 100 milioni di pannelli vecchi in media 12 o 13 anni. Considerato che la vita media dell’impianto fotovoltaico è di circa 20 anni, significa che il nostro Paese si deve apprestare ad affrontare un ammodernamento radicale. Che fine faranno i pannelli dismessi? Il loro riciclo è all’anno zero. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/illusione-pericolosa-rinnovabili-2658144802.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="non-si-puo-rinunciare-al-nucleare" data-post-id="2658144802" data-published-at="1662328241" data-use-pagination="False"> «Non si può rinunciare al nucleare» «Per conseguire davvero in Italia l’obiettivo zero emissioni di CO2 al 2050 e oltre, un mix elettrico con sole rinnovabili è possibile ma è molto più complicato, impattante e costoso di un mix che contempli anche una quota di nucleare». Giuseppe Zollino, professore all’università di Padova di tecnica ed economia dell’energia e di impianti nucleari, da anni studia scenari elettrici di lungo periodo. «Essendo il nemico la CO2, è bene suddividere le tecnologie in due gruppi», spiega Zollino. «Da una parte quelle che emettono CO2, dall’altra quelle low carbon. Nel primo gruppo troviamo le centrali a carbone e a gas, con le prime che emettono più del doppio delle seconde. Nel secondo ci sono le rinnovabili e il nucleare: lo dice l’Ipcc, non io. Un’ulteriore classificazione è tra generatori programmabili (a combustibili fossili e idroelettrici, geotermici, a biogas e nucleari) e non programmabili, come gli impianti eolici e fotovoltaici che generano potenza elettrica indipendentemente dalla volontà del gestore. Quest’ultimo aspetto è fondamentale». In che senso fondamentale? «Le nuove rinnovabili, eolico e fotovoltaico, hanno profili di generazione che dipendono da circostanze naturali. Ad esempio, la radiazione solare non c’è di notte e d’estate è tre volte più abbondante che d’inverno. Esse sono perciò scorrelate dalla domanda. Quando si analizza un sistema elettrico basato su queste fonti, bisogna tener conto anche dei sistemi di accumulo, giornalieri e stagionali, per i momenti in cui la generazione è scarsa. Inoltre, poiché gli impianti sono distribuiti sul territorio, vanno aggiunti i necessari ampliamenti delle reti di distribuzione e di trasmissione. Tutto questo ha conseguenze non solo sui costi, ma anche sull’occupazione di suolo». Quale sarà il fabbisogno di energia elettrica al 2050 quando dovrà essere raggiunto l’obiettivo zero emissioni? «Secondo i nostri modelli, più del doppio dell’attuale. Da 320 miliardi di chilowattora ad almeno 650-700. Per generarlo senza emissioni di CO2, la soluzione più conveniente risulta un mix di rinnovabili e nucleare». Cosa accadrebbe se dovessimo usare solo rinnovabili? «Servirebbero, tra generazione e infrastrutture di accumulo, circa 800 gigawatt di impianti; con un mix di rinnovabili più nucleare ne basterebbero la metà, di cui 36 gigawatt nucleari». Come è possibile? «I reattori nucleari lavorano 8.000 ore l’anno, mentre in Italia l’eolico circa 2.200 (3.000 offshore) e il fotovoltaico a terra in condizioni ottimali tra 1.500 e 1.800 ore». Si può fare un confronto tra le fonti energetiche considerando l’energia prodotta e il suolo occupato? «Una sola centrale nucleare con tre reattori richiede una superficie di circa 150 ettari e genera, a potenza costante, 32 miliardi di chilowattora all’anno: un decimo del fabbisogno italiano2021. Per produrre la stessa energia da fotovoltaico servirebbero 20 gigawatt di impianti a terra su 30.000 ettari di suolo. Inoltre l’energia sarebbe generata solo di giorno, e d’estate il triplo che d’inverno. Per coprire il grande fabbisogno elettrico atteso al 2050 e oltre, alle rinnovabili va affiancato il nucleare. L’energia elettrica costerebbe molto meno». Addio al gas? «Se si vogliono azzerare le emissioni di CO2, nel lungo periodo è inevitabile. Potrebbe diventare compatibile solo catturando la CO2 emessa. Ci sono diverse sperimentazioni in corso ma finora poche applicazioni di grande taglia». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/illusione-pericolosa-rinnovabili-2658144802.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="il-pnrr-vuole-distruggere-87-000-ettari-di-campagne" data-post-id="2658144802" data-published-at="1662328241" data-use-pagination="False"> «Il Pnrr vuole distruggere 87.000 ettari di campagne» «L’efficienza delle rinnovabili non è altissima e per installare gli impianti fotovoltaici la perdita di suolo è importante. Di qui al 2030 si stimano oltre 50.000 ettari (500 chilometri quadrati) di aree agricole che andranno perse per installare i pannelli fotovoltaici a terra, a cui si aggiungerebbero altri 365 chilometri quadrati per impianti eolici». Michele Munafò è il dirigente dell’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) che ha curato un rapporto sui numeri delle rinnovabili. Qual è la diffusione del fotovoltaico? «Oggi abbiamo 17.500 ettari di territorio (175 chilometri quadrati) coperti da rinnovabili. La maggiore estensione è in Puglia con 61 chilometri quadrati; seguono l’Emilia Romagna (19), il Lazio (15), Sicilia e Piemonte (12). Queste cifre dovranno essere aggiornate al rialzo in base alle misure previste dal Pnrr e dagli obiettivi del Piano nazionale integrato energia e clima. Per non danneggiare le aree agricole e salvaguardare il paesaggio una soluzione ci sarebbe». Quale? Rinunciare all’illusione del 100% rinnovabili? «Invece che a terra, sarebbe preferibile installare i pannelli su edifici, capannoni o aree inutilizzate». Sui tetti? Vuole che dal Gianicolo si veda Roma come un’enorme distesa di silicio? «Nessuno pensa a questo. Nello studio abbiamo calcolato la disponibilità di superfici escludendo i centri storici delle città d’arte, le aree esposte a Nord e quelle già occupate da antenne e impianti di condizionamento. Inoltre abbiamo considerato che i pannelli vanno distanziati per consentire la manutenzione. È emerso che sui tetti ci sarebbe posto per una potenza tra 70 e 92 gigawattora, sufficiente a coprire l’aumento di fotovoltaico previsto dal Piano per la transizione ecologica pari a 70-75 gigawattora. Non abbiamo considerato i piazzali, i parcheggi e altre infrastrutture». Se la soluzione è così efficiente, qual è l’ostacolo? «È un’operazione complicatissima. Abbiamo a che fare con superfici frazionate e con impianti piccoli. E c’è la proprietà edilizia: bisogna mettere d’accordo milioni di inquilini dei condomini». E il costo? «Chiaramente superiore rispetto agli impianti a terra. Però si eviterebbero i costi ambientali, paesaggistici e di produzione agricola persa. Il Gse ha calcolato che il 36% degli impianti sono a terra e il resto su strutture già esistenti. Ma questo divario è destinato ad accorciarsi». Forse perché installare grandi impianti è un business superiore? «Gran parte delle procedure in corso sono finalizzate a grandi impianti su superfici agricole. Le proposte vengono da gruppi industriali importanti che si muovono solo se hanno la convenienza di installare impianti di una certa dimensione su superfici estese. Piuttosto la politica potrebbe incentivare l’installazione di piccoli impianti all’interno dei programmi di riqualificazione edilizia. Ci sono circa 4.000 chilometri quadrati di tetti al di fuori dei centri urbani, dove sarebbe possibile installare impianti con una potenza variabile da 66 a 86 gigawatt. A questa si potrebbe aggiungere quella installabile in aree di parcheggio, dismesse o in altre superfici impermeabilizzate, senza consumare altro suolo». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/illusione-pericolosa-rinnovabili-2658144802.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="la-cina-costruisce-i-pannelli-solari-utilizzando-carbone" data-post-id="2658144802" data-published-at="1662328241" data-use-pagination="False"> «La Cina costruisce i pannelli solari utilizzando carbone» L’illusione delle fonti rinnovabili si basa essenzialmente sulla narrazione che esse non emettono CO2. Ma cosa succederebbe se si scoprisse che un pannello made in China (dove si concentra l’80% della produzione fotovoltaica globale) produce CO2 come una centrale a gas? L’interrogativo emerge da uno studio pubblicato sul Technical bulletin della Society of petroleum engineers elaborato da Enrico Mariutti, ricercatore e analista nel settore energetico e presidente dell’Istituto alti studi in geopolitica. Come si arriva a dire che le rinnovabili non sono affatto green? «Una ventina di anni fa, quando si cominciò a parlare sul serio di rinnovabili, la Ue finanziò un progetto di raccolta dati per calcolare l’impatto ambientale e il ritorno energetico dei pannelli solari. Allora, per esempio, si temeva che servisse più energia per fabbricarli di quella che avrebbero restituito nel corso della loro vita. Misurando le emissioni legate alla fabbricazione e all’installazione di un impianto fotovoltaico e dividendole per la quantità di elettricità prodotta nel corso della loro vita utile (25 anni), si arrivò alla conclusione che la CO2 rilasciata per unità di energia era un venticinquesimo di quella che si emette usando il carbone e un decimo del gas. Il fotovoltaico è diventato così la chiave della transizione energetica perché, sulla carta, emette molta meno CO2 delle fonti fossili». Dov’è il problema? «Nessuno si è posto il problema che, per produrre un pannello, il grosso dell’impiego energetico e quindi delle emissioni è legato alla purificazione del silicio. Inizialmente per produrre il silicio si usava soprattutto energia idroelettrica, anche se il prodotto finale era poco puro. Ora l’industria fotovoltaica è in mano alla Cina e l’energia con cui si purifica il silicio non è più quella idroelettrica ma si usa soprattutto il carbone. A questo punto bisognava aggiornare le stime Ue. Ma le correzioni non sono state fatte e si continua a ragionare come se il silicio fosse ancora prodotto con energia pulita». Com’è stato possibile? «Quando ci sono in ballo investimenti per miliardi di euro, è difficile rimettere tutto in discussione. Qualcosa però è emerso nell’ultimo Assessment Report dell’Ipcc, la sezione dell’Onu che fa da cabina di regìa della strategia climatica globale». Quindi qualcosa è venuto fuori? «Sì, nascosto tra le righe. L’Assessment Report è la principale pubblicazione dell’Ipcc, esce ogni otto anni e dovrebbe condensare in tre volumi un sunto della letteratura scientifica pubblicata sul cambiamento climatico. Nel penultimo rapporto, uscito un anno prima degli Accordi di Parigi sul clima, l’Ipcc decise di dare ampio spazio alla comparazione dell’intensità carbonica delle fonti energetiche, per fornire ai governi una mappa concettuale su cui elaborare le strategie climatiche. Le stime dell’Ipcc si basavano su un singolo studio, che a sua volta ne revisionava 12, in cui si stimava che mediamente l’energia fotovoltaica produce 40 grammi di CO2 per chilowattora, cioè un decimo rispetto a una centrale a gas e un venticinquesimo di una centrale a carbone. Tutti gli studi però si basavano sui dati degli impianti europei, per di più raccolti dieci anni prima, nonostante la Cina fosse già il maggiore produttore di pannelli al mondo». La consapevolezza degli errori di valutazione arriva con l’ultimo rapporto? «Nel 2022 esce il nuovo rapporto e c’è un timido riferimento al problema: i ricercatori dichiarano che, a seconda di dove viene prodotto il pannello e di dove viene installato, l’intensità carbonica dell’energia fotovoltaica può avvicinarsi a quella di una centrale a gas. Vuol dire che se i pannelli sono prodotti in Norvegia a partire da energia idroelettrica le emissioni sono basse, ma se sono fabbricati in Cina con il carbone i valori salgono drasticamente. Sembra quasi che si siano accorti che quei dati andavano ricalcolati, ma abbiano avuto paura ad ammettere l’errore». Perciò le stime sulla CO2 emessa per fabbricare pannelli fotovoltaici si basano ancora su dati vecchi di 20 anni? «Esattamente. Tutti i rapporti istituzionali continuano a citare o rielaborare i valori standard indicati nel report Ipcc del 2014, a loro volta calcolati a partire da quelli mappati dall’Unione Europea nel 2004. Tutti citano la stessa fonte e per questo tutti arrivano alle medesime conclusioni: che il fotovoltaico è una tecnologia low carbon. In ambito commerciale, invece, qualcuno ha pensato di aggiornare i parametri, quantomeno alla luce del fatto che la Cina è ormai diventata quasi monopolista nella filiera del fotovoltaico. L’aggiornamento però ha abbinato alle correzioni, che avrebbero dovuto far salire le stime dell’intensità carbonica, nuovi errori che ribassano artificialmente i valori: per esempio, è stato introdotto il riciclo del pannello. Il problema è che, per il momento, riciclare i pannelli è antieconomico e c’è un unico impianto pilota - in Cina - che ne ricicla una manciata l’anno». Come vengono eliminati? In discarica? «Per il momento sì, oppure mandati in Africa come “aiuti umanitari”. Nessuno si è posto ancora il problema del pensionamento degli impianti. E il riciclo fa lievitare sicuramente costi e probabilmente anche le emissioni. Ma questa è un’altra storia».
A mettere nero su bianco qualche dato in grado di smontare le ultime illusioni sui vantaggi del motore a batteria, è l’Adiconsum che periodicamente fa un report sull’andamento delle tariffe di ricarica. Lo stato dell’infrastruttura è ancora carente. I punti di ricarica sono 70.272 di cui un 10% non è attivo. La maggioranza dei punti (53.000) è in corrente alternata (Ac) con potenza inferiore a 50 Kw mentre le ricariche ultra veloci sono meno di 5.000. Intraprendere un percorso in autostrada è da temerari: la copertura delle aree di servizio è ancora al 48% e ci sono solo 1.274 punti. Essere a secco di elettricità e beccare un paio di stazioni di servizio sprovviste di colonnine apre scenari da incubo. Quindi, nella pianificazione di un percorso, bisognerebbe anche avere contezza della distribuzione delle ricariche.
Ma veniamo ai costi. Il prezzo unico nazionale a novembre scorso era pari a 0,117 euro il Kwh, in aumento del 5% rispetto a ottobre 2025. I prezzi medi alla colonnina sono per la Ac (lenta e accelerata) di 0,63 euro al Kwh (in aumento di 1 centesimo rispetto a ottobre), per la veloce (Dc) di 0,75 euro /Kwh (+1 centesimo rispetto a ottobre) e per la ultra veloce (Hpc) di 0,76 euro/kwh (stazionario). Per le tariffe medie massime si arriva a 0,83 per ricariche Ac, 0,82 per la Dc e 1,01 per Hpc.
Il report di Adiconsum fa un confronto con i carburanti fossili e evidenza che la parità di costo con benzina e diesel si attesta mediamente tra 0,60 e 0,65 euro/kwh. Ma molte tariffe medie attuali, superano questa soglia di convenienza.
Inoltre esistono forti divergenze tra i prezzi minimi e massimi che nella ricarica ultra veloce possono arrivare fino a 1,01 euro /Kwh. L’associazione dei consumatori segnala tra le tariffe più convenienti per la Ac, Emobility (0,25 euro/Kwh) per la Dc, Evdc in roaming su Enel X Way (0,45 euro/Kwh) e per l’alta potenza, la Tesla Supercharger (0,32 euro/Kwh). La conclusione del report è che c’è un rincaro, anche se lieve delle ricariche più diffuse ovvero Ac e Dc e il consiglio dell’Adiconsum, è che a fronte dell’alta variabilità dei prezzi è fondamentale utilizzare le app dedicate per verificare quale operatore offre il prezzo più basso sulla singola colonnina.
Questo vuol dire che mentre all’estero, come ad esempio in Germania, si fa il pieno utilizzando semplicemente il bancomat o la carta di credito, come al self service dei distributori, in Italia bisogna scaricare una infinità di app, a seconda del fornitore o del gestore, con la complicazione delle informazioni di pagamento e della registrazione. Chi ha la ventura (o sventura) di aver scelto una full electric, deve fare la gimcana tra le varie app, studiando con la comparazione, la soluzione più vantaggiosa. Un bello stress.
Secondo i dati più recenti di Eurostat e Switcher.ie, mentre la media europea per un pieno si attesta intorno a 14 euro, in Italia la spesa media sale a circa 20,30 euro. Nel nostro Paese, come detto prima, la media di ricarica Ac è di 0,63 euro /Kwh, in Francia e Spagna si scende sotto gli 0,45-0,50 euro /Kwh. La ricarica ultra rapida che nelle nostre colonnine è di media 0,76 euro/Kwh con picchi sopra 1 euro, in Francia si mantiene mediamente intorno a 0,60 euro/Kwh. Il costo dell’energia all’ingrosso in Italia è tra i più alti d’Europa, inoltra l’Iva e le accise sull’energia elettrica ad uso di ricarica pubblica sono meno agevolate rispetto alla Francia dove l’Iva è al 5,5%. Inoltre l’Italia non prevede riduzioni degli oneri di sistema per le infrastrutture ad alta potenza.
C’è un altro elemento di divergenza tra l’Italia e il resto dell’Europa che non incentiva l’acquisto di un’auto elettrica, ed è la metodologia del pagamento. Il nostro Paese è il regno delle app e degli abbonamenti. La ricarica «spontanea» (senza registrazione) è rara e spesso molto costosa. In paesi come Olanda, Danimarca e Germania, il pieno è gestito più come un servizio di pubblica utilità «al volo». Con il regolamento europeo Afir, nel 2025 è diventato obbligatorio per le nuove colonnine fast permettere il pagamento con carta di credito/debito tramite Pos. In Nord Europa questa pratica è già la norma, riducendo la necessità di avere dieci app diverse sul telefono. Inoltre in Paesi tecnologicamente avanzati (Norvegia, Germania), è molto diffuso il sistema Plug & Charge: colleghi il cavo e l’auto comunica direttamente con la colonnina per il pagamento, senza bisogno di tessere o smartphone. In Italia, questa tecnologia è limitata quasi esclusivamente alla rete Tesla.
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Massimo Giannini (Ansa)
Se a destra la manifestazione dell’indipendenza di pensiero ha prodotto sconcerto e un filo d’irritazione, a sinistra ha causato brividi di sconcerto e profondo stupore. Particolarmente emozionato Massimo Giannini di Repubblica, il quale ha intuito di aver assistito a qualcosa di importante ma non ha capito bene di che si tratti. Il noto editorialista ieri ha pensato di parassitare il pensiero di Veneziani e di aggrapparsi ai commenti di altre voci libere come Mario Giordano, Franco Cardini e Giordano Bruno Guerri per sputare un po' di veleno sul governo. «Se rimettiamo insieme le parole e le opere della premier e della sua milizia», ha scritto Giannini, «qual è la svolta culturale che segna il cambio d’epoca? La Ducia Maior: qualche frasetta sciolta di Roger Scruton in Parlamento, qualche citazione a caso di Thomas Eliot al meeting di Rimini. I gerarchi minori: qualche intemerata su Peppa Pig da Mollicone, qualche pièce teatrale di Mellone. Per il resto, fuffa ideologica e poltronificio».
Liquidati i nemici politici, Giannini si è messo a parlare della sinistra, e lo ha fatto secondo il più classico copione della rampogna progressista. Funziona così: prima si ribadisce l’inevitabile superiorità morale, poi si finge di avanzare una critica per dimostrare d’essere fedelissimi ma pure un po' pensosi. «Nonostante le disfatte elettorali, la rive gauche è ancora popolata di scrittori e attori, registi e opinionisti», dice Giannini. «Ma con due differenze fondamentali rispetto all’altra sponda. La prima è che nessuno li alleva: non c’è più il Pci di Berlinguer, che organizzava gli stati generali della cultura convocando intellettuali di ogni ordine e grado. La seconda è che nessuno li criminalizza: se di qua sono di casa la critica distruttiva al Pd e la satira abrasiva sul campo largo, di là non capita mai nulla di simile».
A ben vedere, sono false entrambe le affermazioni. Vero che non esiste più il Pci con la sua cultura d’apparato, ma è vero pure che a intrupparsi i creativi sinistrorsi ci pensano da soli, seguendo alla lettera le indicazioni di un comitato centrale evanescente ma sempre autoritario che si è incistato nei loro cervelli: fedeli alla linea anche quando la linea non c’è. E infatti non appena qualcuno esce dal seminato, subito i rimasugli del progressismo intellettuale lo crocifiggono in sala mensa. Che si tratti di Massimo Cacciari, Giorgio Agamben, Carlo Rovelli, Lucio Caracciolo, Angelo D’Orsi, Luca Ricolfi o altri venerati maestri, poco importa: chi tradisce la paga cara, e solo dopo appropriata quarantena può tornare a dirsi presentabile.
Ed è esattamente qui che sta il punto. Giannini e gli altri del suo giro non hanno i galloni per fare la morale a chicchessia. S’attaccano alla stoffa altrui - quella di Veneziani nello specifico - perché difettano della propria. Se la destra non ha brillato per originalità, la sinistra in questi anni si è risvegliata dal coma soltanto per chiedere la censura di questo o quell’altro, per infangare e demonizzare, per appiccare roghi e costruire gogne. Infamie di cui hanno fatto le spese autori di ogni orientamento: di destra, soprattutto, ma pure di sinistra, se indipendenti e intellettualmente onesti.
Giannini resta comprensibilmente ammirato dalla tempra dei Veneziani, dei Cardini e dei Giordano perché dalle sue parti non esiste, e se esiste è avversata con ferocia (altro che le sfuriate infantili viste a destra negli ultimi giorni). E infatti l’editorialista di Repubblica che fa? Prende le parti del nemico solo nella misura in cui sono utili alla sua causa. Non celebra l’onestà e il piglio avventuroso: li perverte per metterli - per altro senza riuscirci - al servizio della sua ortodossia. Sfrutta l’indipendenza altrui per ribadire la propria servitù.
Tutto ciò sarebbe decisamente poco interessante se non donasse una lezione anche alla destra, ai patrioti e ai conservatori o sedicenti tali. Il problema, per usare un nannimorettismo oggi di moda, non è Giannini in sé, ma Giannini in noi. Tradotto: per imporre l’egemonia soffocando la libertà basta e avanza Repubblica. E se il carro dei vincitori somiglia a quello dei perdenti, tanto vale perdere, almeno ci si risparmia la spocchia.
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Giuseppe Cruciani (Ansa)
Il professor Lorenzo Castellani, ricercatore e docente di storia delle istituzioni politiche presso la Luiss di Roma, nonché autore di Eminenze grigie. Uomini all’ombra del potere (2024), su X sintetizza così: «Checco Zalone ha spianato i petulanti stand up comedian (quasi tutti «impegnati» a sinistra); Corona sfida i media tradizionali con un linguaggio da uomo qualunque e fa decine di milioni di visualizzazioni; la Zanzara riempie i teatri ed è la trasmissione più ascoltata del Paese. Si è detto per anni che la sinistra sia egemone nell’alta cultura (vero, diciamo, all’80%), ma la «non-sinistra» (non la chiamerei semplicemente destra) ha interamente in mano la cultura e il linguaggio popolare».
Professor Castellani, quindi vorrebbe dirci che la cultura non è più solo ad appannaggio della sinistra?
«Se guardiamo alle istituzioni della cultura ovvero ai luoghi ufficiali della stessa è sempre la sinistra a primeggiare. Ma se guardiamo alla cultura in senso ampio, allora cambia tutto. L’alta cultura è predominante nelle istituzioni ufficiali della sinistra ma in altri ambiti l’ideologia di sinistra viene sconfitta da altre manifestazioni culturali che incontrano di più i gusti del Paese».
Si riferisce a Zalone?
«Certo, anche. Zalone è sempre stato apolitico, non ha mai ceduto al politicamente corretto. Fa un cinema che fa riflettere e non vuole indottrinare nessuno, non fa moralismi a senso unico come capita ad altri tipi di comicità di sinistra».
Sanremo è di destra o di sinistra? A volte legare la politica a certe forme di spettacolo non fa scadere nel ridicolo?
«Anche a Sanremo non c’è più una forma di piena differenziazione tra alta cultura e cultura nazionale popolare. A me piace parlare di cultura in senso ampio, non solo di alta cultura, la “Kultur alla tedesca”, che permea nel popolo e permette riflessioni ampie».
Di che tipo?
«Sembra sempre ci sia questa contrapposizione tra il mondo dell’alta cultura, cinema, teatri, fondazioni, fiere del libro, case editrici, think tank nelle università, dove c’è oggettivamente sempre il predominio della sinistra, del mondo progressista, nelle sue varie sfaccettature, e grandi fenomeni di cultura di massa dove prevale l’esatto contrario rispetto all’etica progressista e a quell’atteggiamento pedagogico-educativo e moralistico che il mondo di sinistra tende ad avere nei confronti del popolo. L’idea di fondo della sinistra è stata sempre quella che bisogna civilizzare gli italiani e portarli con la mano come bimbi verso comportamenti più virtuosi».
Ma oggi non è più così. Ci sono vari altri casi giusto?
«Esatto, abbiamo un Fabrizio Corona che su YouTube, con un linguaggio molto politicamente scorretto, attacca il potere in tutte le sue forme e ha un successo enorme. Lo fa in maniera qualunquistica ma è questo che piace alla gente. Si occupa di questioni di cultura di massa, fenomeni che riguardano il crime, il trash, che non rientrano certamente nell’alta cultura ma che creano fenomeni di massa che hanno più visibilità e rilevanza di certi argomenti che trattano tv o giornali».
E non è il solo.
«La Zanzara, che adesso riempie anche i teatri e che offre un interessante esperimento sociale. Cruciani e Parenzo sostengono tutto il contrario del catechismo del politicamente corretto, sicuramente molto al di fuori dei perimetri della cultura ufficiale di sinistra. Ma per questo funziona ed è un fenomeno molto partecipato».
Anche dalla sinistra stessa presumo.
«Certo. Io ci sono andato ed è pieno di studenti della mia università, dirigenti d’azienda, professori, è un fenomeno trasversale che ha conquistato pezzi della classe dirigente».
Insomma, la presunta alta cultura della sinistra è in crisi perché risulta noiosa al grande pubblico?
«Sicuramente la cultura in senso ampio arriva di più alla gente».
Un po’ come in politica?
«Certi politici usano linguaggi più semplici e diretti e vengono capiti più facilmente. È quello che succedeva a Grillo e oggi alla Meloni. Ci sono fenomeni di massa che vengono seguiti da milioni persone e che rigettano l’idea che ci sia una rigida morale comportamentale linguistica da seguire che invece appartiene alla sinistra».
Anche nella musica?
«Certo, le canzoni che hanno avuto più successo negli ultimi anni sono quelle vicine al genere trap, che parlano di consumismo, esaltano il machismo, usano linguaggi volgari e una completa assenza di morale, nulla a che fare con il mondo progressista. Però quelle canzoni arrivano e funzionano. Tanto è vero che anche Sorrentino nel suo ultimo film ha dato un ruolo centrale a Gue Pequeno e alle sue canzoni che fa cantare anche a Servillo».
Quindi la cultura appartenuta da sempre alla sinistra è in caduta perché non arriva più alla gente comune?
«Non credo che la destra debba sfidare la sinistra sull’alta cultura. Però penso che siano in atto nella cultura popolare di massa delle forme di anti-progressismo e anarchismo, dei movimenti spontanei che sono in contrasto con l’alta cultura principalmente di sinistra e che vengono maggiormente capiti dalla gente e da qui il loro enorme successo. C’è questo contrasto tra cultura ufficiale e quella di massa nazional popolare; due mondi che sembrano non parlarsi.
Per la sinistra è come un boomerang?
«In effetti il tentativo di indottrinare della sinistra ha prodotto una reazione ancor più forte nella destra. Più la sinistra ha cercato di catechizzare la gente, più questi fenomeni sono cresciuti. La regola di doversi comportare in un certo modo, oggi è più fallita che mai».
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Ignazio La Russa (Ansa)
È appena il caso di ricordare che La Russa nel 1971, ovvero la bellezza di 54 anni fa, era già responsabile a Milano del Fronte della Gioventù, organizzazione giovanile del Msi. «Era il 1946, il Natale era passato da un giorno», dice La Russa nel video, «la guerra era finita da poco più di un anno e un gruppo di uomini, che erano sconfitti dalla storia, dalla guerra, nella loro militanza che era stata per l'Italia in guerra, l'Italia fascista, non si arresero, ma non chiesero neanche per un attimo di tornare indietro. E pensarono al futuro, non tentarono di sovvertire con la forza ciò che peraltro sarebbe stato impossibile sovvertire. Accettarono il sistema democratico e fondarono un partito, il Movimento sociale italiano, che guardava al futuro. I fondatori ebbero come parola d'ordine un motto che posso riassumere brevemente: dissero non rinnegare, cioè non rinnegavano il loro passato, ma anche non restaurare, cioè non tornare indietro. Non volevano ripetere quello che era stato, volevano un'Italia che marciasse verso il futuro».
«Quello che è importante ricordare oggi», aggiunge ancora La Russa, «è che allora, 26 dicembre 1946, scelsero come simbolo la fiamma. La fiamma tricolore, la fiamma con il verde, il bianco e il rosso. Sono passati molti anni, sono mutate moltissime cose, è maturata, migliorata, cambiata la visione degli uomini che si sono succeduti, che hanno raccolto il loro testimone, anche con fratture importanti nel modo di pensare, ma quel simbolo è rimasto, un simbolo di continuità e anche un simbolo di amore, di resilienza si direbbe oggi, un simbolo che guarda all’Italia del domani e non a quella di ieri, senza dimenticare la nostra storia».
Un modo come un altro per far felici gli elettori di Fdi che sono rimasti fedeli al partito da sempre, e che magari non si ritrovano pienamente nel nuovo corso della destra italiana, soprattutto in politica estera, ma anche su alcuni aspetti della strategia economica e sociale del governo. Per garantire una buona presenza sui media del messaggio nostalgico di La Russa, occorreva però qualche attacco da sinistra, che è subito caduta nella trappola: «Assurdo. Il presidente del Senato e seconda carica dello Stato, Ignazio La Russa», attacca il deputato del Pd Stefano Vaccari, «rivendica la nascita, nel 1946, del Movimento sociale italiano. Addirittura il senatore La Russa parla di continuità di quella storia evocando la fiamma tricolore, simbolo ben evidente nel logo di Fratelli d'Italia, il suo partito. Sapevamo delle difficoltà del presidente La Russa a fare i conti con il suo passato, visti i busti di Mussolini ben visibili nella sua casa, ma che arrivasse ad una sfrontatezza simile non era immaginabile». Sulla stessa lunghezza d’onda altri parlamentari dem come Federico Fornaro, Irene Manzi e Andrea De Maria, il deputato di Avs Filiberto Zaratti. Missione compiuta: La Russa è riuscito nel suo intento di riscaldare (con la fiamma) il cuore dei vecchi militanti missini, e di trascinare la sinistra nell’ennesima polemica completamente a vuoto.
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