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2020-05-20
Il virologo francese più chiacchierato aveva previsto il disastro 17 anni fa
Didier Raoult (Moura F/Alpaca/Andia/Universal Images Group via Getty Images))
«Tra i virus influenzali, un mutante quale l'influenza Spagnola può riapparire dall'oggi al domani» con «conseguenze incalcolabili». Pagina 166 del rapporto scritto nel 2003 dal professor Didier Raoult su incarico del governo francese dopo l'attacco alle Torri Gemelle. Non è una profezia ma l'analisi scientifica e lucida degli scenari della nuova guerra asimmetrica: la guerra dei nuovi virus. «Il rischio dell'apparizione di un nuovo agente patogeno, estremamente contagioso, per via respiratoria, è chiaro». Del resto, calcola l'infettivologo, il costo di un'arma biologica «è 2000 volte inferiore a quello di un'arma convenzionale».
Didier Raoult, 68 anni, figlio di un medico militare e di un'infermiera, è direttore dell'Istituto di malattie infettive di Marsiglia, centro d'avanguardia, e personaggio molto discusso (ha teorizzato e messo in pratica l'uso dell'antimalarico per curare il Sars-Cov-2). Per qualcuno un genio, per altri un ciarlatano. Ma di sicuro sa di cosa parla. Nella cosiddetta «mission Raoult» delinea in modo impressionante ciò che accadrà 17 anni dopo con lo spettro Covid 19. Ed anche i fili che emergono solo ora e che ai segreti del laboratorio cinese di Wuhan legano Parigi - ma anche altri Paesi come l'Australia - come abbiamo già cercato di raccontare sulla Verità il 14 maggio.
Nel 2002 il ministro per la Ricerca e le nuove tecnologie e il ministro della Salute francesi, valutato che «il bioterrorismo è una minaccia latente contro l'umanità», affidano al Raoult analisi e progetto per costruire «un'organizzazione interministeriale sotto l'egida del Sgdsn», il Secrétariat général de la défense et de la sécurité nationale, il «cuore della sicurezza» francese.
Il professore consegna una versione preliminare il 2 aprile 2003 e quella definitiva il 17 giugno 2003. Citando l'esempio del virus mutante dell'influenza aviaria ad Hong Kong nel 1999, avverte: «Questo tipo di avvenimenti, la mutazione brutale più l'introduzione di un virus di origine animale nel mondo umano, sono eventi rari e caotici» ma dagli effetti devastanti. La diffusione dei contagi sarà velocissima, prevede, grazie alla densità abitativa e agli spostamenti aerei (500.000-1 miliardo nel 2003).
Ma quello che colpisce di più è l'attenzione, 17 anni fa, ai risvolti sull'opinione pubblica. Non è materia da giornali e tv. I temi legati ad un sistema «che permette di evitare le conseguenze drammatiche di avvenimenti improbabili» «non sono mediaticamente interessanti»: «Sulla stampa comparirebbero commenti estremamente negativi», accuse di «catastrosfismo e paranoia». Vi ricorda qualcosa, magari gli inviti a darci sotto con gli aperitivi? Ad epidemia conclamata saranno complicati anche i riflessi giuridici e psicologici, perché «la gestione delle malattie infettive può portare a rimettere in discussione la libertà individuale»: «È il caso dell'isolamento necessario per evitare il contagio quando i pazienti sono infettivi, è il caso della dichiarazione obbligatoria della malattia…». È ciò che è accaduto ora.
Didier Raoult per il bio-terrorismo militare classico cita l'esempio dell'Unione sovietica (almeno 50.000 addetti nel dipartimento Biopreparat, diversi incidenti tra cui un centinaio di morti nei pressi di un laboratorio militare per una fuga di carbonchio). Tanto che ora viene da chiedersi: la Cina comun-turbocapitalista non ha fatto altro che prendere il testimone della vecchia Urss?
Ma sono i cosiddetti «virus emergenti» la nuova frontiera della geopolitica e della sicurezza nelle sue due facce (offesa e difesa). Raoult passa in rassegna tutte le lacune francesi, dall'incompetenza degli «esperti» presso i ministeri ed i «servizi», alla mancanza di coordinamento. Le uniche strutture all'altezza sono a Lione l'Istituto Pasteur e il laboratorio P4 della Fondazione Merieux «costruito interamente con investimenti privati». Proprio da queste due strutture nel progetto di cooperazione franco-cinese «per la lotta alle malattie infettive emergenti» sarà derivato il clone del laboratorio P4 a Wuhan, dal 2003-2004 a tutto il 2019.
Il professor Raoult spiega anche perché proprio la Cina. «Solo l'impianto duraturo», scrive, «di centri di ricerca e sorveglianza nei Paesi tropicali permetterà l'individuazione precoce di questi nuovi agenti (infettivi)». Chi pensa a qualche angolo sperduto delle ex colonie francesi è fuori strada. È la Cina che offre le condizioni ottimali con il suo sviluppo caotico, la commistione di megalopoli con aree rurali e selvagge, e, cosa che non guasta, è una dittatura con un ferreo controllo su media e giornali. Ed è nelle grotte dello Yunnan, provincia sud-occidentale della Cina toccata dal Tropico del Cancro che «Batwoman» Shi Zhengli e la sua equipe dell'Istituto di virologia di Wuhan per 15 anni andranno a caccia dei coronavirus nei pipistrelli.
Ergo, è da ritenere plausibile che tutto ciò che è avvenuto nella cooperazione franco-cinese e nelle pericolose sperimentazioni a Wuhan e altrove (ne abbiamo ampiamente parlato il 14 maggio), sospettate da più parti - Usa in testa - di essere all'origine della pandemia del Covid, sia avvenuto con la conoscenza del governo e degli apparati di sicurezza di Parigi. Nel suo rapporto Raoult raccomandava nel consiglio d'amministrazione del Laboratorio P4 lionese - quello della collaborazione con l'Istituto di Wuhan - la presenza di «ufficiali della sicurezza», che «deve riflettere la posizione del SGD(S)N» sui progetti e sui candidati ammessi agli esperimenti sui nuovi virus.
A questo punto vi chiederete: ci sono anche i militari francesi? Sì. Tra le équipe con le capacità di lavorare in un laboratorio ad altissima livello di biosicurezza (P4) Raoult indica anche due squadre di ricercatori di Marsiglia, universitarie e «militari (Docteur Toulu e Docteur Durand)» e due di Grenoble, del Centro nazionale di ricerche scientifiche e «militari (Docteur Jouan e Docteur Garin)».
L’Oms cala ancora le braghe Zero indagini sulla Cina (e infatti Pechino applaude)
La montagna ha partorito il proverbiale topolino. La World health assembly, l'organo decisionale dell'Oms, ha approvato ieri - senza obiezioni - una risoluzione, redatta dall'Unione europea, per condurre un'inchiesta sulla risposta globale alla pandemia. Chi tuttavia ritiene che si tratti di una mossa per chiarire le responsabilità di Pechino nella gestione del Covid-19, è destinato a restare deluso. Quello approvato ieri risulta infatti un documento particolarmente blando. Innanzitutto il testo non include la parola «indagine», limitandosi a richiedere una «valutazione imparziale, indipendente e globale» da effettuarsi «al momento opportuno», quindi collocato in un futuro indefinito. Inoltre, non soltanto la Cina non viene menzionata ma, oltre alla sua intrinseca genericità, la risoluzione mette tutto nelle mani dell'Oms: quell'Oms che - ricordiamolo - intrattiene ai propri vertici saldi legami politici con la Repubblica Popolare. Invocare imparzialità a queste condizioni rischia quindi di rivelarsi abbastanza azzardato. Infine, la questione dell'origine del Covid-19 viene soltanto accennata in un generico impegno a «identificare la fonte zoonotica del virus e la via di introduzione alla popolazione umana». Insomma, per piacere a tutti (o per non scontentar qualcuno) si è approvato un testo svuotato di contenuti. E si fa pertanto un po' fatica a condividere l'ottimismo del nostro viceministro degli Esteri, Marina Sereni, che lunedì aveva salutato la proposta europea di «un'inchiesta indipendente sull'origine del Covid-19», twittando: «Good news».
D'altronde alla Cina questa risoluzione non sembra dispiacere affatto. Non sarà del resto un caso che, dopo un primo momento di scetticismo, Pechino abbia alla fine deciso di sostenere il documento. E, a confermare questo stato di cose, sta la polemica esplosa ieri tra Cina e Australia. In un primo momento, Canberra aveva lasciato intendere che la risoluzione fosse quasi una conseguenza della propria richiesta - avanzata alcune settimane fa, con conseguente irritazione cinese - di aprire un'indagine indipendente sulle origini del virus. Un'interpretazione che non è granché piaciuta a Pechino: Pechino che, guarda caso, è andata ieri all'attacco, con l'ambasciata cinese a Canberra che ha affermato: «Il progetto di risoluzione sul Covid-19 che sarà adottato dalla World health assembly è totalmente diverso dalla proposta australiana di una revisione internazionale indipendente». «Definire la risoluzione della World health assembly», ha aggiunto l'ambasciata, «una rivendicazione della richiesta australiana non è altro che uno scherzo». Lo stesso Global Times (organo del Partito comunista cinese) aveva d'altronde ieri attaccato Canberra, ridimensionando inoltre la portata della risoluzione: «Questo esame», ha scritto il quotidiano cinese, «ha lo scopo di riassumere le esperienze e trarre insegnamenti dalla gestione della crisi della salute pubblica, che è anche la pratica di routine per l'Oms a seguito di una grande pandemia». Ma non è tutto, perché, nelle scorse ore, Pechino ha imposto tariffe dell'80% sulle importazioni di orzo dall'Australia: mossa che è difficile non leggere (anche) come una ritorsione. E chissà che cosa diranno adesso quanti hanno sempre condannato Donald Trump per l'uso dei dazi come strumento di pressione politica.
L'influenza della Cina, insomma, non è stata granché intaccata in sede Oms. E questo spiega del resto le turbolenze verificatesi negli ultimi due giorni con Washington. È pur vero che, secondo Reuters, gli americani non abbiano accolto del tutto negativamente la risoluzione di ieri. Ma gli Stati Uniti non compaiono comunque tra i proponenti del documento, ne hanno preso esplicitamente le distanze sui paragrafi dedicati sulla salute riproduttiva e - in tutto questo - la tensione generale resta alle stelle. Lunedì scorso, Trump ha definito l'Oms una «marionetta della Cina» e, in una lettera indirizzata al direttore generale Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha minacciato di bloccare per sempre i finanziamenti americani all'agenzia Onu: finanziamenti che la Casa Bianca aveva temporaneamente congelato il mese scorso. «Non abbiamo tempo da perdere», ha scritto Trump, «Ecco perché è mio dovere, in qualità di presidente degli Stati Uniti, informarla che, se l'Oms non si impegnerà in importanti miglioramenti sostanziali entro i prossimi 30 giorni, renderò permanente il mio congelamento temporaneo dei fondi americani all'Oms e riconsidererò la nostra adesione all'Organizzazione». L'affondo del presidente statunitense è del resto arrivato poche ore dopo le aspre critiche, mosse all'Oms, dal segretario di Stato americano, Mike Pompeo, e dal ministro della Sanità, Alex Azar. Dura la replica del portavoce del ministero degli Esteri cinese, Zhao Lijian, che ha dichiarato: «[La lettera di Trump] inganna l'opinione pubblica e infanga la Cina». Critica verso la Casa Bianca anche la Commissione europea, che si è nettamente schierata a favore dell'Oms. Il dissidio si acuisce. E Trump punta sempre più sull'America First, per scardinare il multilateralismo made in China.
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In uno studio per il governo dopo l'11 settembre, Didier Raoult elencava rischi, danni e pratiche (tracciamento compreso) connessi a un'imminente pandemia. Le sue profezie ispirarono il laboratorio sinocinese a WuhanLa risoluzione, che non accenna a errori o omissioni, è fatta votare da Xi. Invocata solo una «valutazione» sulla risposta al Covid. E gli Usa minacciano di tagliare i fondi.Lo speciale contiene due articoli«Tra i virus influenzali, un mutante quale l'influenza Spagnola può riapparire dall'oggi al domani» con «conseguenze incalcolabili». Pagina 166 del rapporto scritto nel 2003 dal professor Didier Raoult su incarico del governo francese dopo l'attacco alle Torri Gemelle. Non è una profezia ma l'analisi scientifica e lucida degli scenari della nuova guerra asimmetrica: la guerra dei nuovi virus. «Il rischio dell'apparizione di un nuovo agente patogeno, estremamente contagioso, per via respiratoria, è chiaro». Del resto, calcola l'infettivologo, il costo di un'arma biologica «è 2000 volte inferiore a quello di un'arma convenzionale». Didier Raoult, 68 anni, figlio di un medico militare e di un'infermiera, è direttore dell'Istituto di malattie infettive di Marsiglia, centro d'avanguardia, e personaggio molto discusso (ha teorizzato e messo in pratica l'uso dell'antimalarico per curare il Sars-Cov-2). Per qualcuno un genio, per altri un ciarlatano. Ma di sicuro sa di cosa parla. Nella cosiddetta «mission Raoult» delinea in modo impressionante ciò che accadrà 17 anni dopo con lo spettro Covid 19. Ed anche i fili che emergono solo ora e che ai segreti del laboratorio cinese di Wuhan legano Parigi - ma anche altri Paesi come l'Australia - come abbiamo già cercato di raccontare sulla Verità il 14 maggio.Nel 2002 il ministro per la Ricerca e le nuove tecnologie e il ministro della Salute francesi, valutato che «il bioterrorismo è una minaccia latente contro l'umanità», affidano al Raoult analisi e progetto per costruire «un'organizzazione interministeriale sotto l'egida del Sgdsn», il Secrétariat général de la défense et de la sécurité nationale, il «cuore della sicurezza» francese. Il professore consegna una versione preliminare il 2 aprile 2003 e quella definitiva il 17 giugno 2003. Citando l'esempio del virus mutante dell'influenza aviaria ad Hong Kong nel 1999, avverte: «Questo tipo di avvenimenti, la mutazione brutale più l'introduzione di un virus di origine animale nel mondo umano, sono eventi rari e caotici» ma dagli effetti devastanti. La diffusione dei contagi sarà velocissima, prevede, grazie alla densità abitativa e agli spostamenti aerei (500.000-1 miliardo nel 2003). Ma quello che colpisce di più è l'attenzione, 17 anni fa, ai risvolti sull'opinione pubblica. Non è materia da giornali e tv. I temi legati ad un sistema «che permette di evitare le conseguenze drammatiche di avvenimenti improbabili» «non sono mediaticamente interessanti»: «Sulla stampa comparirebbero commenti estremamente negativi», accuse di «catastrosfismo e paranoia». Vi ricorda qualcosa, magari gli inviti a darci sotto con gli aperitivi? Ad epidemia conclamata saranno complicati anche i riflessi giuridici e psicologici, perché «la gestione delle malattie infettive può portare a rimettere in discussione la libertà individuale»: «È il caso dell'isolamento necessario per evitare il contagio quando i pazienti sono infettivi, è il caso della dichiarazione obbligatoria della malattia…». È ciò che è accaduto ora. Didier Raoult per il bio-terrorismo militare classico cita l'esempio dell'Unione sovietica (almeno 50.000 addetti nel dipartimento Biopreparat, diversi incidenti tra cui un centinaio di morti nei pressi di un laboratorio militare per una fuga di carbonchio). Tanto che ora viene da chiedersi: la Cina comun-turbocapitalista non ha fatto altro che prendere il testimone della vecchia Urss?Ma sono i cosiddetti «virus emergenti» la nuova frontiera della geopolitica e della sicurezza nelle sue due facce (offesa e difesa). Raoult passa in rassegna tutte le lacune francesi, dall'incompetenza degli «esperti» presso i ministeri ed i «servizi», alla mancanza di coordinamento. Le uniche strutture all'altezza sono a Lione l'Istituto Pasteur e il laboratorio P4 della Fondazione Merieux «costruito interamente con investimenti privati». Proprio da queste due strutture nel progetto di cooperazione franco-cinese «per la lotta alle malattie infettive emergenti» sarà derivato il clone del laboratorio P4 a Wuhan, dal 2003-2004 a tutto il 2019.Il professor Raoult spiega anche perché proprio la Cina. «Solo l'impianto duraturo», scrive, «di centri di ricerca e sorveglianza nei Paesi tropicali permetterà l'individuazione precoce di questi nuovi agenti (infettivi)». Chi pensa a qualche angolo sperduto delle ex colonie francesi è fuori strada. È la Cina che offre le condizioni ottimali con il suo sviluppo caotico, la commistione di megalopoli con aree rurali e selvagge, e, cosa che non guasta, è una dittatura con un ferreo controllo su media e giornali. Ed è nelle grotte dello Yunnan, provincia sud-occidentale della Cina toccata dal Tropico del Cancro che «Batwoman» Shi Zhengli e la sua equipe dell'Istituto di virologia di Wuhan per 15 anni andranno a caccia dei coronavirus nei pipistrelli.Ergo, è da ritenere plausibile che tutto ciò che è avvenuto nella cooperazione franco-cinese e nelle pericolose sperimentazioni a Wuhan e altrove (ne abbiamo ampiamente parlato il 14 maggio), sospettate da più parti - Usa in testa - di essere all'origine della pandemia del Covid, sia avvenuto con la conoscenza del governo e degli apparati di sicurezza di Parigi. Nel suo rapporto Raoult raccomandava nel consiglio d'amministrazione del Laboratorio P4 lionese - quello della collaborazione con l'Istituto di Wuhan - la presenza di «ufficiali della sicurezza», che «deve riflettere la posizione del SGD(S)N» sui progetti e sui candidati ammessi agli esperimenti sui nuovi virus. A questo punto vi chiederete: ci sono anche i militari francesi? Sì. Tra le équipe con le capacità di lavorare in un laboratorio ad altissima livello di biosicurezza (P4) Raoult indica anche due squadre di ricercatori di Marsiglia, universitarie e «militari (Docteur Toulu e Docteur Durand)» e due di Grenoble, del Centro nazionale di ricerche scientifiche e «militari (Docteur Jouan e Docteur Garin)». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-virologo-francese-piu-chiacchierato-aveva-previsto-il-disastro-17-anni-fa-2646035621.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="loms-cala-ancora-le-braghe-zero-indagini-sulla-cina-e-infatti-pechino-applaude" data-post-id="2646035621" data-published-at="1589914122" data-use-pagination="False"> L’Oms cala ancora le braghe Zero indagini sulla Cina (e infatti Pechino applaude) La montagna ha partorito il proverbiale topolino. La World health assembly, l'organo decisionale dell'Oms, ha approvato ieri - senza obiezioni - una risoluzione, redatta dall'Unione europea, per condurre un'inchiesta sulla risposta globale alla pandemia. Chi tuttavia ritiene che si tratti di una mossa per chiarire le responsabilità di Pechino nella gestione del Covid-19, è destinato a restare deluso. Quello approvato ieri risulta infatti un documento particolarmente blando. Innanzitutto il testo non include la parola «indagine», limitandosi a richiedere una «valutazione imparziale, indipendente e globale» da effettuarsi «al momento opportuno», quindi collocato in un futuro indefinito. Inoltre, non soltanto la Cina non viene menzionata ma, oltre alla sua intrinseca genericità, la risoluzione mette tutto nelle mani dell'Oms: quell'Oms che - ricordiamolo - intrattiene ai propri vertici saldi legami politici con la Repubblica Popolare. Invocare imparzialità a queste condizioni rischia quindi di rivelarsi abbastanza azzardato. Infine, la questione dell'origine del Covid-19 viene soltanto accennata in un generico impegno a «identificare la fonte zoonotica del virus e la via di introduzione alla popolazione umana». Insomma, per piacere a tutti (o per non scontentar qualcuno) si è approvato un testo svuotato di contenuti. E si fa pertanto un po' fatica a condividere l'ottimismo del nostro viceministro degli Esteri, Marina Sereni, che lunedì aveva salutato la proposta europea di «un'inchiesta indipendente sull'origine del Covid-19», twittando: «Good news». D'altronde alla Cina questa risoluzione non sembra dispiacere affatto. Non sarà del resto un caso che, dopo un primo momento di scetticismo, Pechino abbia alla fine deciso di sostenere il documento. E, a confermare questo stato di cose, sta la polemica esplosa ieri tra Cina e Australia. In un primo momento, Canberra aveva lasciato intendere che la risoluzione fosse quasi una conseguenza della propria richiesta - avanzata alcune settimane fa, con conseguente irritazione cinese - di aprire un'indagine indipendente sulle origini del virus. Un'interpretazione che non è granché piaciuta a Pechino: Pechino che, guarda caso, è andata ieri all'attacco, con l'ambasciata cinese a Canberra che ha affermato: «Il progetto di risoluzione sul Covid-19 che sarà adottato dalla World health assembly è totalmente diverso dalla proposta australiana di una revisione internazionale indipendente». «Definire la risoluzione della World health assembly», ha aggiunto l'ambasciata, «una rivendicazione della richiesta australiana non è altro che uno scherzo». Lo stesso Global Times (organo del Partito comunista cinese) aveva d'altronde ieri attaccato Canberra, ridimensionando inoltre la portata della risoluzione: «Questo esame», ha scritto il quotidiano cinese, «ha lo scopo di riassumere le esperienze e trarre insegnamenti dalla gestione della crisi della salute pubblica, che è anche la pratica di routine per l'Oms a seguito di una grande pandemia». Ma non è tutto, perché, nelle scorse ore, Pechino ha imposto tariffe dell'80% sulle importazioni di orzo dall'Australia: mossa che è difficile non leggere (anche) come una ritorsione. E chissà che cosa diranno adesso quanti hanno sempre condannato Donald Trump per l'uso dei dazi come strumento di pressione politica. L'influenza della Cina, insomma, non è stata granché intaccata in sede Oms. E questo spiega del resto le turbolenze verificatesi negli ultimi due giorni con Washington. È pur vero che, secondo Reuters, gli americani non abbiano accolto del tutto negativamente la risoluzione di ieri. Ma gli Stati Uniti non compaiono comunque tra i proponenti del documento, ne hanno preso esplicitamente le distanze sui paragrafi dedicati sulla salute riproduttiva e - in tutto questo - la tensione generale resta alle stelle. Lunedì scorso, Trump ha definito l'Oms una «marionetta della Cina» e, in una lettera indirizzata al direttore generale Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha minacciato di bloccare per sempre i finanziamenti americani all'agenzia Onu: finanziamenti che la Casa Bianca aveva temporaneamente congelato il mese scorso. «Non abbiamo tempo da perdere», ha scritto Trump, «Ecco perché è mio dovere, in qualità di presidente degli Stati Uniti, informarla che, se l'Oms non si impegnerà in importanti miglioramenti sostanziali entro i prossimi 30 giorni, renderò permanente il mio congelamento temporaneo dei fondi americani all'Oms e riconsidererò la nostra adesione all'Organizzazione». L'affondo del presidente statunitense è del resto arrivato poche ore dopo le aspre critiche, mosse all'Oms, dal segretario di Stato americano, Mike Pompeo, e dal ministro della Sanità, Alex Azar. Dura la replica del portavoce del ministero degli Esteri cinese, Zhao Lijian, che ha dichiarato: «[La lettera di Trump] inganna l'opinione pubblica e infanga la Cina». Critica verso la Casa Bianca anche la Commissione europea, che si è nettamente schierata a favore dell'Oms. Il dissidio si acuisce. E Trump punta sempre più sull'America First, per scardinare il multilateralismo made in China.
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Prima di essere lapidati da musicofili inflessibili o da fanatici ammiratori di Beethoven (lo siamo anche noi) lasciamo allo stesso Ludwig Vchean l’ultima parola sull’argomento: «Solo i puri di cuore», affermò il genio tedesco, «possono cucinare una buona zuppa». Capito? Il sommo compositore a tavola amava i piatti semplici e disprezzava quelli troppo complicati. Adorava la zuppa, soprattutto quella di pane e uova: era il suo piatto preferito insieme ai maccheroni con il formaggio. Era sordo, ma le papille gustative gli funzionavano alla grande.
Una vera e propria zuppa di verdure musicale la serve al pubblico un gruppo austriaco formato da musicisti, designer, scenografi, autori. Si chiama The Vegetable Orchestra, che usa le verdure come strumenti musicali: una carota intagliata in una certa maniera diventa un flauto, la zucca uno strumento di percussione, le melanzane diventano dopo un sapiente lavoro di intaglio delle nacchere, le zucchine strumenti a fiato e così via. Con questi strumenti suonano pezzi di jazz o di dub, un genere musicale che deriva dal reggae giamaicano, e altra musica. Finito il concerto, dopo gli applausi del pubblico stupito da tanta musica «verde», i musicisti si trasformano in cuochi, gettano gli strumenti in pentoloni e preparano una bella zuppa per il pubblico dopo aver lavato gli strumenti, soprattutto quelli a fiato.
La zuppa vanta una storia vecchia come l’homo sapiens. Fu uno dei primi piatti elaborati dai nostri cavernicoli progenitori centinaia di migliaia di anni fa. Gli studiosi del periodo paleolitico ci documentano che la scoperta dell’acqua calda e il suo impiego per cuocere verdure e altri cibi avvenne nell’età della pietra antica, in incavi di roccia pieni d’acqua nella quale gli uomini primitivi tuffavano pietre roventi per farla bollire. Fu così che nacquero i primi minestroni. La parola «zuppa» arriverà molti millenni dopo, ma sempre in tempi molto antichi rispetto a noi, mutuata dal termine germanico suppa che definiva la fetta di pane inzuppata. Il pane era nell’antichità il cucchiaio dei poveri, le dita della mano la forchetta. La «posateria» delle classi più umili era tutta lì. Una sorta di brodaglia nera molto spartana chiamata melas zomos, nera zuppa, fatta con sangue di porco, budella e vino era la zuppa dei duri soldati di Sparta. A loro, che non cercavano mollezze, piaceva così, brutta da vedere ma semplice e nutriente, adatta a sostenere il fisico durante le campagne militari. Spostandoci in altre parti dell’antica penisola ellenica troviamo una cucina meno rigorosa, ma sempre con un menu nel quale zuppe e piatti brodosi a base di verdure, cereali, erbe spontanee e legumi vari, abbondavano.
Cotture e metodi a parte, quelle preparazioni sono le bis-bis-bisnonne delle zuppe che mangiamo noi oggi fatte, come allora, con cereali tipo orzo e farro, o con legumi, ceci, lenticchie, fave. Borlotti e cannellini erano al di là dell’Atlantico che aspettavano di essere scoperti. Il Phaseolus vulgaris arriverà dopo i viaggi di Colombo e degli altri viaggiatori su caravelle dirette verso il Nuovo mondo. Dalla Grecia a Roma le zuppe sostanzialmente non cambiano: erano piatti che facevano parte della dieta quotidiana dei Romani. Fonti di proteine e nutrienti, erano il comfort food delle classi plebee e dei contadini. Tra le altre zuppe, i legionari amavano quella fatta con pane, aglio, olio e aceto. Furono loro a introdurla in Spagna dove si evolverà fino a diventare il moderno gazpacho, zuppa fredda che si arricchì dal Cinquecento in poi con il pomodoro e i peperoni venuti dall’America.
Una zuppa leggendaria è la soupe à la pavoise, la zuppa pavese, che ha trovato posto nei libri di storia gastronomica dove si racconta di Francesco I di Valois, re di Francia sconfitto e fatto prigioniero dagli spagnoli di Carlo V nella battaglia di Pavia del 24 febbraio 1525. L’accasciato François du grand nez, come lo chiamavano i suoi sudditi per via del nasone che gli troneggiava sopra la bocca, fu portato dai nemici vincitori in un cascinale di campagna dove trovò ristoro e consolazione nella povera zuppa preparatogli dalla contadina del casolare che mise in una rozza scodella due croste di pane raffermo sopra le quali scocciò un uovo versando poi sul tutto il brodo bollente di erbe spontanee che gorgogliava quotidianamente nella marmitta sul camino. Francesco I, con il morale a terra per la sconfitta («Tutto è perduto fuorché l’onore»), apprezzò talmente quella zuppa villana che quando ritornò sul trono convocò i cuochi di corte insegnando loro la ricetta della zuppa pavese che fu perfezionata dagli chef i quali aggiunsero altri ingredienti ricchi elevandola da contadina che era ad aristocratica.
C’è da dire che la zuppa in Francia troverà il successo che merita grazie a una figura più leggendaria che reale, tale Monsieur Boulanger marchand de bouillon, mercante di brodo. Siamo a Parigi 25 anni prima della presa della Bastiglia e dello scoppio della rivoluzione. Il mitico Boulanger vende zuppe restaurateurs, restauratrici, che sistemano lo stomaco dei clienti cagionevoli rimettendoli in salute in un ambiente tutto sommato comodo con i tavoli accoglienti. Nasce da queste zuppe il restaurant, il ristorante che prende il nome dal ristoro, il conforto, che regalano le zuppe. Dando ragione in questo all’antico e saggio proverbio italiano regalatoci dalla civiltà contadina fin dal Medioevo: «Sette cose fa la zuppa: cava la fame e la sete tutta, empie il ventre, netta il dente, fa dormire, fa smaltire e la guancia fa arrossire».
Il più alto riconoscimento a questo piatto umile ma tanto utile alla sopravvivenza della povera umanità, lo firmano, tra gli altri, alcuni grandi artisti moderni: Paul Cézanne con la sua Natura morta con zuppiera (1884), Pablo Picasso che affronta il tema della povertà ne La zuppa, opera del periodo blu che mostra una vecchia paurosamente magra che porge una scodella di zuppa a una bambina, ma soprattutto Andy Warhol. Il re della Pop art che confessò di aver mangiato a pranzo per vent’anni i barattoloni di zuppa Campbell’s rivoluzionò i concetti di natura morta e di bellezza immortalando le stesse lattine zuppesche in una serie di opere seriali la più importante delle quali è la Campbell’s Soup Cans che presenta tutta la produzione di zuppe della Cambell’s: al pomodoro, agli asparagi, alla carne, al pollo, ai fagioli neri, e così via per 200 volte. Paradossalmente a dare importanza alla zuppa nell’arte sono stati anche le attiviste per il clima che il 28 gennaio dello scorso anno lanciarono la zuppa contro la Gioconda di Leonardo, ben protetta dal vetro antiguai, invocando un’agricoltura mondiale sana.
È profondamente ingiusto nei confronti della zuppa il detto «Se non è zuppa è pan bagnato». Come sopra detto la zuppa è salvifica, ristoratrice, ristoro e medicina attraverso i secoli dell’umanità misera. E poi la famiglia zuppesca è molto varia. Oltre alla zuppa-madre ci sono la minestra, il minestrone, la crema, la vellutata, il passato. Non sono sinonimi, ogni piatto ha la sua caratteristica che riguarda gli ingredienti e le tecniche di preparazione per le quali rimandiamo ai libri di cucina.
Concludiamo con la mistica zen. Un allievo chiede al maestro: «Cosa devo fare per raggiungere l’Illuminazione?». Gli risponde il maestro: «Hai mangiato la zuppa?» «Sì». «Allora lava la scodella».
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Gabriele D'Annunzio (Ansa)
Il patrimonio mondiale dell’umanità rappresentato dalla cucina italiana sarà pure «immateriale», come da definizione Unesco, ma è fatto di carne, ossa, talento e creatività. È il risultato delle centinaia di migliaia di persone che, nel corso dei secoli e dei millenni, hanno affinato tecniche, scoperto ingredienti, assemblato gusti, allevato animali con amore e coltivato la terra con altrettanta dedizione. Insomma, dietro la cucina italiana ci sono... gli italiani.
Ed è a tutti questi peones e protagonisti della nostra storia che il riconoscimento va intestato. Ma anche a chi assapora le pietanze in un ristorante, in un bistrot o in un agriturismo. Alla fine, se ci si pensa, la cucina italiana siamo tutti noi: sono i grandi chef come le mamme o le nonne che si danno da fare tra le padelle della cucina. Sono i clienti dei ristoranti, gli amanti dei formaggi come dei salumi. Sono i giornalisti che fanno divulgazione, sono i fotografi che immortalano i piatti, sono gli scrittori che dedicano pagine e pagine delle loro opere ai manicaretti preferiti dal protagonista di questo o quel romanzo. Insomma, la cucina è cultura, identità, passato e anche futuro.
Giancarlo Saran, gastropenna di questo giornale, ha dato alle stampe Peccatori di gola 2 (Bolis edizioni, 18 euro, seguito del fortunato libro uscito nel 2024 vincitore del Premio selezione Bancarella cucina), volume contenente 13 ritratti di personaggi di spicco del mondo dell’italica buona tavola («Un viaggio curioso e goloso tra tavola e dintorni, con illustri personaggi del Novecento compresi alcuni insospettabili», sentenzia l’autore sulla quarta di copertina). Ci sono il «fotografo» Bob Noto e l’attore Ugo Tognazzi, l’imprenditore Giancarlo Ligabue e gli scrittori Gabriele D’Annunzio, Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. E poi ancora Lella Fabrizi (la sora Lella), Luciano Pavarotti, Pietro Marzotto, Gianni Frasi, Alfredo Beltrame, Giuseppe Maffioli, Pellegrino Artusi.
Un giro d’Italia culinario, quello di Saran, che testimonia come il riconoscimento Unesco potrebbe dare ulteriore valore al nostro made in Italy, con risvolti di vario tipo: rispetto dell’ambiente e delle nostre tradizioni, volano per l’economia e per il turismo, salvaguardia delle radici dal pericolo di una appiattente omologazione sociale e culturale. Sfogliando Peccatori 2, si può possono scovare, praticamente a ogni pagina, delle chicche. Tipo, la passione di D’Annunzio per le uova e la frittata. Scrive Saran: «D’Annunzio aveva un’esperienza indelebile legata alle frittate, che ebbe occasione di esercitare in diretta nelle giornate di vacanza a Francavilla con i suoi giovani compagni di ventura in cui, a rotazione, erano chiamati “l’uno a sfamare tutti gli altri”. Lasciamogli la cronaca in diretta. Chi meglio di lui. “In un pomeriggio di luglio ci attardavamo nella delizia del bagno quando mi fu rammentato, con le voci della fame, toccare a me le cura della cucina”. La affronta come si deve. “Non mancai di avvolgermi in una veste di lino rapita a Ebe”, la dea della giovinezza, “e di correre verso la vasta dimora costruita di tufo e adornata di maioliche paesane”. Non c’è storia: “Ruppi trentatré uova e, dopo averle sbattute, le agguagliai (mischiai) nella padella dal manico di ferro lungo come quello di una chitarra”. La notte è illuminata dal chiaro di luna che si riflette sulle onde, silenziose in attesa, e fu così che “adunai la sapienza e il misurato vigore... e diedi il colpo attentissimo a ricevere la frittata riversa”. Ma nulla da fare, questa, volando nel cielo non ricadde a terra, ovvero sulla padella. E qui avviene il miracolo laico. “Nel volgere gli occhi al cielo scorsi nel bagliore del novilunio la tunica e l’ala di un angelo”. Il finale conseguente. “L’angelo, nel passaggio, aveva colta la frittata in aria, l’aveva rapita, la sosteneva con le dita” con la missione imperativa di recarla ai Beati, “offerta di perfezione terrestre...”, di cui lui era stato (seppur involontario) protagonista. “Io mi vanto maestro insuperabile nell’arte della frittata per riconoscimento celestiale”.
La buona e sana cucina, dunque, ha come traino produttori e ristoratori «ma ancor più valore aggiunto deriva da degni ambasciatori e, con questo, i Peccatori di gola credo meritino piena assoluzione», conclude l’autore.
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Dal primo luglio 2026, in tutta l’Unione europea entrerà in vigore un contributo fisso di tre euro per ciascun prodotto acquistato su internet e spedito da Paesi extra-Ue, quando il valore della spedizione è inferiore a 150 euro. L’orientamento politico era stato definito già il mese scorso; la riunione di ieri del Consiglio Ecofin (12 dicembre) ne ha reso operativa l’applicazione, stabilendone i criteri.
Il prelievo di 3 euro si applicherà alle merci in ingresso nell’Unione europea per le quali i venditori extra-Ue risultano registrati allo sportello unico per le importazioni (Ioss) ai fini Iva. Secondo fonti di Bruxelles, questo perimetro copre «il 93% di tutti i flussi di e-commerce verso l’Ue».
In realtà, la misura non viene presentata direttamente come un’iniziativa mirata contro la Cina, anche se è dalla Repubblica Popolare che proviene la quota maggiore di pacchi. Una delle preoccupazioni tra i ministri è che parte della merce venga immessa nel mercato unico a prezzi artificialmente bassi, anche attraverso pratiche di sottovalutazione, per aggirare le tariffe che si applicano invece alle spedizioni oltre i 150 euro. La Commissione europea stima che nel 2024 il 91% delle spedizioni e-commerce sotto i 150 euro sia arrivato dalla Cina; inoltre, valutazioni Ue indicano che fino al 65% dei piccoli pacchi in ingresso potrebbe essere dichiarato a un valore inferiore al reale per evitare i dazi doganali.
«La decisione sui dazi doganali per i piccoli pacchi in arrivo nell’Ue è importante per garantire una concorrenza leale ai nostri confini nell’era odierna dell’e-commerce», ha detto il commissario per il Commercio, Maroš Šefčovič. Secondo il politico slovacco, «con la rapida espansione dell’e-commerce, il mondo sta cambiando rapidamente e abbiamo bisogno degli strumenti giusti per stare al passo».
La decisione finale da parte di Bruxelles arriva dopo un iter normativo lungo cinque anni. La Commissione europea aveva messo sul tavolo, nel maggio 2023, la cancellazione dell’esenzione dai dazi doganali per i pacchi con valore inferiore a 150 euro, inserendola nel pacchetto di riforma doganale. Nella versione originaria, l’entrata in vigore era prevista non prima della metà del 2028. Successivamente, il Consiglio ha formalizzato l’abolizione dell’esenzione il 13 novembre 2025, chiedendo però di anticipare l’applicazione già al 2026.
C’è poi un secondo balzello messo a punto dall’esecutivo Meloni. Si tratta di un emendamento che prevede l’introduzione di un contributo fisso di due euro per ogni pacco spedito con valore dichiarato fino a 150 euro.
La misura, però, non sarebbe limitata ai soli invii provenienti da Paesi extra-Ue. Rispetto alle ipotesi circolate in precedenza, l’impostazione è stata ampliata: se approvata, la tassa finirebbe per applicarsi a tutte le spedizioni di piccoli pacchi, indipendentemente dall’origine, quindi anche a quelle spedite dall’Italia. In origine, l’idea sembrava mirata soprattutto a intercettare le micro-spedizioni generate da piattaforme come Shein o Temu. Il punto, però, è che colpire esclusivamente i pacchi extra-europei avrebbe reso la misura assimilabile a un dazio, materia che rientra nella competenza dell’Unione europea e non dei singoli Stati membri. Per evitare questo profilo di incompatibilità, l’emendamento alla manovra 2026 ha quindi «generalizzato» il prelievo, estendendolo all’intero perimetro delle spedizioni. L’effetto pratico è evidente: la tassa non impatterebbe solo sulle piattaforme asiatiche, ma anche sugli acquisti effettuati su Amazon, eBay e, in generale, su qualsiasi negozio online che spedisca pacchi entro quella soglia di valore dichiarato.
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Ansa
Insomma: il vento è cambiato. E non spinge più la solita, ingombrante, vela francese che negli ultimi anni si era abituata a intendere l’Italia come un’estensione naturale della Rive Gauche.
E invece no. Il pendolo torna indietro. E con esso tornano anche ricordi e fantasie: Piersilvio Berlusconi sogna la Francia. Non quella dei consessi istituzionali, ma quella di quando suo padre, l’unico che sia riuscito a esportare il varietà italiano oltre le Alpi, provò l’avventura di La Cinq.
Una televisione talmente avanti che il presidente socialista François Mitterrand, per non farla andare troppo lontano, decise di spegnerla. Letteralmente.
Erano gli anni in cui gli italiani facevano shopping nella grandeur: Gianni Agnelli prese una quota di Danone e Raul Gardini mise le mani sul più grande zuccherificio francese, giusto per far capire che il gusto per il raffinato non ci era mai mancato. Oggi al massimo compriamo qualche croissant a prezzo pieno.
Dunque, Berlusconi – quello junior, stavolta – può dirlo senza arrossire: «La Francia sarebbe un sogno». Si guarda intorno, valuta, misura il terreno: Tf1 e M6.
La prima, dice, «ha una storia imprenditoriale solida»: niente da dire, anche le fortezze hanno i loro punti deboli. Con la seconda, «una finta opportunità». Tradotto: l’affare che non c’è, ma che ti fa perdere lo stesso due settimane di telefonate.
Il vero punto, però, è che mentre noi guardiamo a Parigi, Parigi si deve rassegnare. Lo dimostra il clamoroso stop di Crédit Agricole su Bpm, piantato lì come un cartello stradale: «Fine delle ambizioni». Con Bank of America che conferma la raccomandazione «Buy» su Mps e alza il target price a 11 euro. E non c’è solo questo. Natixis ha dovuto rinunciare alla cassaforte di Generali dov’è conservata buona parte del risparmio degli italiani. Vivendi si è ritirata. Tim è tornata italiana.
Il pendolo, dicevamo, ha cambiato asse. E spinge ben più a Ovest. Certo Parigi rimane il più importante investitore estero in Italia. Ma il vento della geopolitica e cambiato. Il nuovo asse si snoda tra Washington e Roma Gli americani non stanno bussando alla porta: sono già entrati.
E non con due spicci.
Ieri le due sigle più «Miami style» che potessero atterrare nel dossier Ilva – Bedrock Industries e Flacks Group – hanno presentato le loro offerte. Americani entrambi. Dall’odore ancora fresco di oceano, baseball e investimenti senza fronzoli.
E non è un caso isolato.
In Italia operano oltre 2.700 imprese a partecipazione statunitense, che generano 400.000 posti di lavoro. Non esattamente compratori di souvenir. Sono radicati nei capannoni, nella logistica, nelle tecnologie, nei servizi, nella manifattura. Un pezzo intero di economia reale. Poi c’è il capitolo dei giganti della finanza globale: BlackRock, Vanguard, i soliti nomi che quando entrano in una stanza fanno più rumore del tuono. Hanno fiutato l’aria e annusato l’Italia come fosse un tartufo bianco d’Alba: raro, caro e conveniente.
Gli incontri istituzionali degli ultimi anni parlano chiaro: data center, infrastrutture, digitalizzazione, energia.
Gli americani non si accontentano. Puntano al core del futuro: tecnologia, energia, scienza della vita, space economy, agritech.
Dopo l’investimento di Kkr nella rete fissa Telecom - uno dei deal più massicci degli ultimi quindici anni - la direzione è segnata: Washington ha scoperto che l’Italia rende.
A ottobre 2025 la grande conferma: missione economica a Washington, con una pioggia di annunci per oltre 4 miliardi di euro di nuovi investimenti. Non bonus, non promesse, ma progetti veri: space economy, sostenibilità, energia, life sciences, agri-tech, turism. Tutti settori dove l’Italia è più forte di quanto creda, e più sottovalutata di quanto dovrebbe.
A questo punto il pendolo ha parlato: gli americani investono, i francesi frenano.
E chissà che, alla fine, non si chiuda il cerchio: gli Usa tornano in Italia come investitori netti, e Berlusconi torna in Francia come ai tempi dell’avventura di La Cinq.
Magari senza che un nuovo Mitterrand tolga la spina.
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