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2020-11-03
Il Vaticano: sulle unioni gay non cambia nulla
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Dopo alcune settimane di mistero e di interpretazioni, si scopre che la Segreteria di Stato vaticana ha fatto arrivare ai nunzi apostolici in giro per il mondo una nota di commento alle parole di papa Francesco presenti nel docufilm a lui dedicato dal regista russo Evgeny Afineevsky. Lo scopo, si legge nella nota pubblicata integralmente su Facebook dal nunzio in Messico Franco Coppola, vuole offrire «alcuni elementi utili, nel desiderio di favorire, per Sua (di papa Francesco, ndr) disposizione, un'adeguata comprensione delle parole del Santo Padre».
Il fatto, su cui finora i media vaticani hanno calato solo un silenzio tombale, riguarda il passaggio in cui Francesco dice della necessità per le persone omosessuali di avere «una legge sulle unioni civili (ley de convivenci civil, ndr). In questo modo sono coperti legalmente». E aggiunge: «Mi sono battuto per questo». Tale affermazione appare in discontinuità con quanto espresso nella nota della Congregazione per la dottrina della fede del 2003 a firma del cardinale Joseph Ratzinger e approvata da papa Giovanni Paolo II. In quel documento si indica che non può esserci una equiparazione del matrimonio tra uomo e donna alle unioni tra persone dello stesso sesso, inoltre dal punto di vista dell'antropologia cristiana nemmeno si può approvare il «riconoscimento legale delle unioni omosessuali».
La nota diffusa dalla Segreteria di Stato prova quindi a spiegare il montaggio che il regista del docufilm ha fatto estrapolando alcune risposte che il Papa aveva dato in un'intervista del 2019 alla vaticanista messicana Valentina Alazraky. I momenti che risalgono a quell'intervista, si legge nella nota, sono due, il primo riguarda le affermazioni di Francesco circa la «necessità che, all'interno della famiglia, il figlio o la figlia con orientamento omosessuale non siano mai discriminati». In questo caso la Segreteria di Stato cita un paragrafo della esortazione apostolica Amoris laetitia, il n. 250, e sostanzialmente nulla quaestio. Il secondo passaggio, invece, riguarda appunto la frase su cui finora nessuna spiegazione era stata data. Il riferimento, rivela finalmente la nota, è a una domanda della vaticanista Alazraky «inerente a una legge locale di dieci anni fa in Argentina sui “matrimoni egualitari di coppie dello stesso sesso" e l'opposizione dell'allora arcivescovo di Buenos Aires al riguardo». Francesco risponde che «è un'incongruenza parlare di matrimonio omosessuale aggiungendo che, in tale preciso contesto, aveva parlato del diritto di queste persone ad avere delle coperture legali: “Quello che dobbiamo fare è una legge di convivenza civile; hanno diritto di essere coperti legalmente. Io ho difeso questo"».
Siamo quindi alla famigerata frase che il Pontefice pronuncia nel docufilm, accanto alla quale la nota della Segreteria di Stato, probabilmente nel tentativo di trovare una quadra, affianca un'altra dichiarazione che Francesco ha fatto nel 2014 al Corriere della Sera: «Il matrimonio è fra un uomo e una donna. Gli Stati laici vogliono giustificare le unioni civili per regolare diverse situazioni di convivenza, spinti dall'esigenza di regolare aspetti economici fra le persone, come ad esempio assicurare l'assistenza sanitaria. Si tratta di patti di convivenza di varia natura, di cui non saprei elencare le diverse forme. Bisogna vedere i diversi casi e valutarli nella loro varietà». Quindi, conclude la Segreteria di Stato, «è pertanto evidente che papa Francesco si sia riferito a determinate disposizioni statali, non certo alla dottrina della Chiesa, numerose volte ribadita nel corso degli anni». Insomma, come già avevano avvertito fin da subito gli interpreti del pontificato, padre Antonio Spadaro in primis, «la dottrina non cambia».
Fatto salvo il catechismo della Chiesa cattolica, restano però alcune cose per nulla chiarite. La Segreteria di Stato, infatti, non dice una parola sul perché nel 2019 quella precisa dichiarazione del Papa era stata tagliata dalla intervista mandata in onda dalla televisione messicana. Chi, e perché, ha ritenuto, invece, di dover dare al regista Afineevsky la versione integrale di quell'intervista? E poi, cosa rilevante perché trattasi sempre di magistero, resta quell'odore di discontinuità tra le affermazioni del Papa e la nota firmata da Ratzinger e approvata da Giovanni Paolo II nel 2003. Si deve forse intendere che ora, purché non si equipari al matrimonio tra uomo e donna, la Chiesa possa approvare una tutela legale che riconosca le coppie omosessuali?
Peraltro, il vescovo argentino Héctor Aguer, emerito di La Plata, ha ricordato in questi giorni alla stampa internazionale che «quando era ancora arcivescovo, l'allora cardinal Bergoglio, nel corso di un'assemblea plenaria della Conferenza episcopale argentina, propose di approvare la liceità delle unioni civili delle persone omosessuali da parte dello Stato, come una possibile alternativa a quello che si chiamava - e che si chiama - matrimonio egualitario».
La nota chiarificatrice, arrivata con ampio ritardo, e nel silenzio assordante del dicastero della comunicazione vaticana, da questo punto di vista sembra risolvere poco. Il problema, come ha sottolineato il cardinale Gerhard Ludwig Müller alla Verità la scorsa settimana, è che quando «i nemici della Chiesa, gli atei e gli attivisti Lgbt sono interlocutori o interpreti del successore di Pietro», il rischio di creare ambiguità è dietro l'angolo e le toppe finiscono per non riuscire a coprire del tutto il buco.
Sentenza contro l’aborto in Polonia. Le femministe assaltano le chiese
Ricordo che nel 2002, quando visitò la Polonia per l'ottava e ultima volta, Giovanni Paolo II, molto anziano e già malato, fece ricorso a tutte le forze per denunciare che anche la sua patria, condizionata da «una rumorosa propaganda», stava ormai per consegnarsi a un concetto distorto di libertà, privo di verità e responsabilità.
Una denuncia, quella di papa Wojtyla, che mi è tornata alla mente vedendo ciò che sta succedendo in Polonia in questi giorni, con masse di giovani polacchi nati nella libertà, non sotto il giogo comunista, che sono scesi in piazza per manifestare contro la sentenza con la quale il 22 ottobre (proprio nel giorno in cui la Chiesa fa memoria di San Giovanni Paolo II) la Corte costituzionale polacca ha dichiarato incostituzionale l'aborto in caso di possibile malattia o malformazioni del nascituro, il cosiddetto «aborto eugenetico». La presidente dell'Alta Corte, Julia Przylebska, ha infatti spiegato che la legge del 1993, che proibiva l'aborto salvo in caso di elevata probabilità di deterioramento irreversibile o di malattia incurabile, è «incompatibile» con la Costituzione polacca perché viola i diritti umani costituzionalmente protetti.
In Polonia l'aborto resta consentito in caso di gravidanza derivata da stupro o incesto e in caso di pericolo per la vita della madre, ma ai manifestanti questo non basta e parlano di violazione di un «diritto». Sebbene la decisione sia stata presa da un organo della giustizia, nel mirino c'è il governo e c'è anche la Chiesa, colpevole di aver commentato favorevolmente la sentenza dell'Alta Corte. La protesta ha assunto toni molto aspri, con chiese profanate e messe interrotte dai manifestanti. Poi c'è stato lo strajk kobiet, lo sciopero generale delle donne sia nel settore privato sia in quello pubblico.
Subito dopo la sentenza, il presidente della Conferenza episcopale polacca, monsignor Stanislaw Gadecki, ha dichiarato che il concetto di «vita non degna di essere vissuta» apre alla discriminazione e contraddice il principio di uno Stato democratico governato dalla legge. Parole che hanno scatenato la dura reazione della sinistra, dei cosiddetti gruppi pro choice e dell'arcipelago femminista.
Gli attacchi alle chiese mettono in luce una Polonia per ora minoritaria ma caratterizzata da una intolleranza feroce. Le sante messe sono state interrotte da esaltati che hanno pronunciato oscenità e insulti. Monumenti sacri sono stati vandalizzati, un prete è stato aggredito. Un giovane è finito all'ospedale, colpito duramente perché stava difendendo una statua di San Giovanni Paolo II.
In un sobborgo di Varsavia una statua di papa Wojtyla è stata vandalizzata da ignoti che hanno dipinto di rosso le mani del Pontefice santo, e durante una manifestazione di protesta pro aborto alcune donne hanno mostrato una pozza di sangue ai piedi di un'altra statua del Papa polacco.
Un'attivista pro vita, Kaja Godek, artefice del progetto Stop Abortion, ha chiesto la protezione della polizia dopo che gli attivisti pro aborto hanno reso pubblico il suo indirizzo, il telefono e la mail, con conseguenti minacce e atti vandalici contro la sua abitazione.
Anche i dati personali del giudice Krystyna Pawlowicz, di Bartlomiej Wróblewski, deputato del partito Diritto e Giustizia, e del presidente dell'associazione March of Independence, Robert Bakiewicz, sono stati resi pubblici. Giorni fa c'è stata una protesta davanti alla casa del giudice Pawlowicz. Tutti atti intimidatori.
La protesta a base di vandalismi e attacchi alle statue è affine a quelle che abbiamo visto negli Stati Uniti. Obiettivo dei facinorosi non è solo contestare un provvedimento legislativo, ma è la storia, la memoria, l'identità stessa di un popolo e di una nazione.
Già nel 1991, in visita ai suoi connazionali, papa Wojtyla, che vedeva avanzare a grandi passi un'idea di libertà travisata e immiserita, disse che «occorre essere rettamente educati prima che la libertà sia concessa. È necessaria una libertà matura, non un mito di libertà che in realtà schiavizza e degrada».
E ancora: «Dio è stato allontanato sotto pretesto della neutralità ideologica. Nei tempi cosiddetti moderni Cristo quale artefice dello spirito europeo è stato messo tra parentesi... Viviamo come se Dio non esistesse».
Il grande Papa vedeva lontano.
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La Segreteria di Stato prova a chiudere lo scandalo causato dal via libera del Papa alla tutela delle coppie omo inserito nel docufilm «Francesco». «Nessuna novità dottrinale», si legge nella nota ai nunzi. Ma resta il contrasto con gli atti del Sant'Uffizio di Joseph Ratzinger.Sentenza contro l'aborto in Polonia. Le femministe assaltano le chiese. La protesta conferma il monito di Karol Wojtyla sulla violenza di una libertà senza verità.Lo speciale contiene due articoli.Dopo alcune settimane di mistero e di interpretazioni, si scopre che la Segreteria di Stato vaticana ha fatto arrivare ai nunzi apostolici in giro per il mondo una nota di commento alle parole di papa Francesco presenti nel docufilm a lui dedicato dal regista russo Evgeny Afineevsky. Lo scopo, si legge nella nota pubblicata integralmente su Facebook dal nunzio in Messico Franco Coppola, vuole offrire «alcuni elementi utili, nel desiderio di favorire, per Sua (di papa Francesco, ndr) disposizione, un'adeguata comprensione delle parole del Santo Padre».Il fatto, su cui finora i media vaticani hanno calato solo un silenzio tombale, riguarda il passaggio in cui Francesco dice della necessità per le persone omosessuali di avere «una legge sulle unioni civili (ley de convivenci civil, ndr). In questo modo sono coperti legalmente». E aggiunge: «Mi sono battuto per questo». Tale affermazione appare in discontinuità con quanto espresso nella nota della Congregazione per la dottrina della fede del 2003 a firma del cardinale Joseph Ratzinger e approvata da papa Giovanni Paolo II. In quel documento si indica che non può esserci una equiparazione del matrimonio tra uomo e donna alle unioni tra persone dello stesso sesso, inoltre dal punto di vista dell'antropologia cristiana nemmeno si può approvare il «riconoscimento legale delle unioni omosessuali». La nota diffusa dalla Segreteria di Stato prova quindi a spiegare il montaggio che il regista del docufilm ha fatto estrapolando alcune risposte che il Papa aveva dato in un'intervista del 2019 alla vaticanista messicana Valentina Alazraky. I momenti che risalgono a quell'intervista, si legge nella nota, sono due, il primo riguarda le affermazioni di Francesco circa la «necessità che, all'interno della famiglia, il figlio o la figlia con orientamento omosessuale non siano mai discriminati». In questo caso la Segreteria di Stato cita un paragrafo della esortazione apostolica Amoris laetitia, il n. 250, e sostanzialmente nulla quaestio. Il secondo passaggio, invece, riguarda appunto la frase su cui finora nessuna spiegazione era stata data. Il riferimento, rivela finalmente la nota, è a una domanda della vaticanista Alazraky «inerente a una legge locale di dieci anni fa in Argentina sui “matrimoni egualitari di coppie dello stesso sesso" e l'opposizione dell'allora arcivescovo di Buenos Aires al riguardo». Francesco risponde che «è un'incongruenza parlare di matrimonio omosessuale aggiungendo che, in tale preciso contesto, aveva parlato del diritto di queste persone ad avere delle coperture legali: “Quello che dobbiamo fare è una legge di convivenza civile; hanno diritto di essere coperti legalmente. Io ho difeso questo"». Siamo quindi alla famigerata frase che il Pontefice pronuncia nel docufilm, accanto alla quale la nota della Segreteria di Stato, probabilmente nel tentativo di trovare una quadra, affianca un'altra dichiarazione che Francesco ha fatto nel 2014 al Corriere della Sera: «Il matrimonio è fra un uomo e una donna. Gli Stati laici vogliono giustificare le unioni civili per regolare diverse situazioni di convivenza, spinti dall'esigenza di regolare aspetti economici fra le persone, come ad esempio assicurare l'assistenza sanitaria. Si tratta di patti di convivenza di varia natura, di cui non saprei elencare le diverse forme. Bisogna vedere i diversi casi e valutarli nella loro varietà». Quindi, conclude la Segreteria di Stato, «è pertanto evidente che papa Francesco si sia riferito a determinate disposizioni statali, non certo alla dottrina della Chiesa, numerose volte ribadita nel corso degli anni». Insomma, come già avevano avvertito fin da subito gli interpreti del pontificato, padre Antonio Spadaro in primis, «la dottrina non cambia».Fatto salvo il catechismo della Chiesa cattolica, restano però alcune cose per nulla chiarite. La Segreteria di Stato, infatti, non dice una parola sul perché nel 2019 quella precisa dichiarazione del Papa era stata tagliata dalla intervista mandata in onda dalla televisione messicana. Chi, e perché, ha ritenuto, invece, di dover dare al regista Afineevsky la versione integrale di quell'intervista? E poi, cosa rilevante perché trattasi sempre di magistero, resta quell'odore di discontinuità tra le affermazioni del Papa e la nota firmata da Ratzinger e approvata da Giovanni Paolo II nel 2003. Si deve forse intendere che ora, purché non si equipari al matrimonio tra uomo e donna, la Chiesa possa approvare una tutela legale che riconosca le coppie omosessuali? Peraltro, il vescovo argentino Héctor Aguer, emerito di La Plata, ha ricordato in questi giorni alla stampa internazionale che «quando era ancora arcivescovo, l'allora cardinal Bergoglio, nel corso di un'assemblea plenaria della Conferenza episcopale argentina, propose di approvare la liceità delle unioni civili delle persone omosessuali da parte dello Stato, come una possibile alternativa a quello che si chiamava - e che si chiama - matrimonio egualitario».La nota chiarificatrice, arrivata con ampio ritardo, e nel silenzio assordante del dicastero della comunicazione vaticana, da questo punto di vista sembra risolvere poco. Il problema, come ha sottolineato il cardinale Gerhard Ludwig Müller alla Verità la scorsa settimana, è che quando «i nemici della Chiesa, gli atei e gli attivisti Lgbt sono interlocutori o interpreti del successore di Pietro», il rischio di creare ambiguità è dietro l'angolo e le toppe finiscono per non riuscire a coprire del tutto il buco.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-vaticano-sulle-unioni-gay-non-cambia-nulla-2648602450.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="sentenza-contro-laborto-in-polonia-le-femministe-assaltano-le-chiese" data-post-id="2648602450" data-published-at="1604406033" data-use-pagination="False"> Sentenza contro l’aborto in Polonia. Le femministe assaltano le chiese Ricordo che nel 2002, quando visitò la Polonia per l'ottava e ultima volta, Giovanni Paolo II, molto anziano e già malato, fece ricorso a tutte le forze per denunciare che anche la sua patria, condizionata da «una rumorosa propaganda», stava ormai per consegnarsi a un concetto distorto di libertà, privo di verità e responsabilità. Una denuncia, quella di papa Wojtyla, che mi è tornata alla mente vedendo ciò che sta succedendo in Polonia in questi giorni, con masse di giovani polacchi nati nella libertà, non sotto il giogo comunista, che sono scesi in piazza per manifestare contro la sentenza con la quale il 22 ottobre (proprio nel giorno in cui la Chiesa fa memoria di San Giovanni Paolo II) la Corte costituzionale polacca ha dichiarato incostituzionale l'aborto in caso di possibile malattia o malformazioni del nascituro, il cosiddetto «aborto eugenetico». La presidente dell'Alta Corte, Julia Przylebska, ha infatti spiegato che la legge del 1993, che proibiva l'aborto salvo in caso di elevata probabilità di deterioramento irreversibile o di malattia incurabile, è «incompatibile» con la Costituzione polacca perché viola i diritti umani costituzionalmente protetti. In Polonia l'aborto resta consentito in caso di gravidanza derivata da stupro o incesto e in caso di pericolo per la vita della madre, ma ai manifestanti questo non basta e parlano di violazione di un «diritto». Sebbene la decisione sia stata presa da un organo della giustizia, nel mirino c'è il governo e c'è anche la Chiesa, colpevole di aver commentato favorevolmente la sentenza dell'Alta Corte. La protesta ha assunto toni molto aspri, con chiese profanate e messe interrotte dai manifestanti. Poi c'è stato lo strajk kobiet, lo sciopero generale delle donne sia nel settore privato sia in quello pubblico. Subito dopo la sentenza, il presidente della Conferenza episcopale polacca, monsignor Stanislaw Gadecki, ha dichiarato che il concetto di «vita non degna di essere vissuta» apre alla discriminazione e contraddice il principio di uno Stato democratico governato dalla legge. Parole che hanno scatenato la dura reazione della sinistra, dei cosiddetti gruppi pro choice e dell'arcipelago femminista. Gli attacchi alle chiese mettono in luce una Polonia per ora minoritaria ma caratterizzata da una intolleranza feroce. Le sante messe sono state interrotte da esaltati che hanno pronunciato oscenità e insulti. Monumenti sacri sono stati vandalizzati, un prete è stato aggredito. Un giovane è finito all'ospedale, colpito duramente perché stava difendendo una statua di San Giovanni Paolo II. In un sobborgo di Varsavia una statua di papa Wojtyla è stata vandalizzata da ignoti che hanno dipinto di rosso le mani del Pontefice santo, e durante una manifestazione di protesta pro aborto alcune donne hanno mostrato una pozza di sangue ai piedi di un'altra statua del Papa polacco. Un'attivista pro vita, Kaja Godek, artefice del progetto Stop Abortion, ha chiesto la protezione della polizia dopo che gli attivisti pro aborto hanno reso pubblico il suo indirizzo, il telefono e la mail, con conseguenti minacce e atti vandalici contro la sua abitazione. Anche i dati personali del giudice Krystyna Pawlowicz, di Bartlomiej Wróblewski, deputato del partito Diritto e Giustizia, e del presidente dell'associazione March of Independence, Robert Bakiewicz, sono stati resi pubblici. Giorni fa c'è stata una protesta davanti alla casa del giudice Pawlowicz. Tutti atti intimidatori. La protesta a base di vandalismi e attacchi alle statue è affine a quelle che abbiamo visto negli Stati Uniti. Obiettivo dei facinorosi non è solo contestare un provvedimento legislativo, ma è la storia, la memoria, l'identità stessa di un popolo e di una nazione. Già nel 1991, in visita ai suoi connazionali, papa Wojtyla, che vedeva avanzare a grandi passi un'idea di libertà travisata e immiserita, disse che «occorre essere rettamente educati prima che la libertà sia concessa. È necessaria una libertà matura, non un mito di libertà che in realtà schiavizza e degrada». E ancora: «Dio è stato allontanato sotto pretesto della neutralità ideologica. Nei tempi cosiddetti moderni Cristo quale artefice dello spirito europeo è stato messo tra parentesi... Viviamo come se Dio non esistesse». Il grande Papa vedeva lontano.
Kaja Kallas (Ansa)
Kallas è il falco della Commissione, quando si tratta di Russia, e tiene a rimarcarlo. A proposito dei fondi russi depositati presso Euroclear, l’estone dice nell’intervista che il Belgio non deve temere una eventuale azione di responsabilità da parte della Russia, perché «se davvero la Russia ricorresse in tribunale per ottenere il rilascio di questi asset o per affermare che la decisione non è conforme al diritto internazionale, allora dovrebbe rivolgersi all’Ue, quindi tutti condivideremmo l’onere».
In pratica, cioè, l’interpretazione piuttosto avventurosa di Kallas è che tutti gli Stati membri sarebbero responsabili in solido con il Belgio se Mosca dovesse ottenere ragione da qualche tribunale sul sequestro e l’utilizzo dei suoi fondi.
Tribunale sui cui l’intervistata è scettica: «A quale tribunale si rivolgerebbe (Putin, ndr)? E quale tribunale deciderebbe, dopo le distruzioni causate in Ucraina, che i soldi debbano essere restituiti alla Russia senza che abbia pagato le riparazioni?». Qui l’alto rappresentante prefigura uno scenario, quello del pagamento delle riparazioni di guerra, che non ha molte chance di vedere realizzato.
All’intervistatore che chiede perché per finanziare la guerra non si usino gli eurobond, cioè un debito comune europeo, Kallas risponde: «Io ho sostenuto gli eurobond, ma c’è stato un chiaro blocco da parte dei Paesi Frugali, che hanno detto che non possono farlo approvare dai loro Parlamenti». È ovvio. La Germania e i suoi satelliti del Nord Europa non vogliano cedere su una questione sulla quale non hanno mai ceduto e per la quale, peraltro, occorre una modifica dei trattati su cui serve l’unanimità e la ratifica poi di tutti i parlamenti. Con il vento politico di destra che soffia in tutta Europa, con Afd oltre il 25% in Germania, è una opzione politicamente impraticabile. Dire eurobond significa gettare la palla in tribuna.
In merito all’adesione dell’Ucraina all’Unione europea già nel 2027, come vorrebbe il piano di pace americano, Kallas se la cava con lunghe perifrasi evitando di prendere posizione. Secondo l’estone, l’adesione all’Ue è una questione di merito e devono decidere gli Stati membri. Ma nel piano questo punto è importante e sembra difficile che venga accantonato.
Kallas poi reclama a gran voce un posto per l’Unione al tavolo della pace: «Il piano deve essere tra Russia e Ucraina. E quando si tratta dell’architettura di sicurezza europea, noi dobbiamo avere voce in capitolo. I confini non possono essere cambiati con la forza. Non ci dovrebbero essere concessioni territoriali né riconoscimento dell’occupazione». Ma lo stesso Zelensky sembra ormai convinto che almeno un referendum sulla questione del Donbass sia possibile. Insomma, Kallas resta oltranzista ma i fatti l’hanno già superata.
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Carlo Messina all'inaugurazione dell'Anno Accademico della Luiss (Ansa)
La domanda è retorica, provocatoria e risuona in aula magna come un monito ad alzare lo sguardo, a non limitarsi a contare i droni e limare i mirini, perché la risposta è un’altra. «In Europa abbiamo più poveri e disuguaglianza di quelli che sono i rischi potenziali che derivano da una minaccia reale, e non percepita o teorica, di una guerra». Un discorso ecumenico, realistico, che evoca l’immagine dell’esercito più dolente e sfinito, quello di chi lotta per uscire dalla povertà. «Perché è vero che riguardo a welfare e democrazia non c’è al mondo luogo comparabile all’Europa, ma siamo deboli se investiamo sulla difesa e non contro la povertà e le disuguaglianze».
Le parole non scivolano via ma si fermano a suggerire riflessioni. Perché è importante che un finanziere - anzi colui che per il 2024 è stato premiato come banchiere europeo dell’anno - abbia un approccio sociale più solido e lungimirante delle istituzioni sovranazionali deputate. E lo dimostri proprio nelle settimane in cui sentiamo avvicinarsi i tamburi di Bruxelles con uscite guerrafondaie come «resisteremo più di Putin», «per la guerra non abbiamo fatto abbastanza» (Kaja Kallas, Alto rappresentante per la politica estera) o «se vogliamo evitare la guerra dobbiamo preparaci alla guerra», «dobbiamo produrre più armi, come abbiamo fatto con i vaccini» (Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea).
Una divergenza formidabile. La conferma plastica che l’Europa dei diritti, nella quale ogni minoranza possibile viene tutelata, si sta dimenticando di salvaguardare quelli dei cittadini comuni che alzandosi al mattino non hanno come priorità la misura dell’elmetto rispetto alla circonferenza cranica, ma il lavoro, la famiglia, il destino dei figli e la difesa dei valori primari. Il ceo di Banca Intesa ricorda che il suo gruppo ha destinato 1,5 miliardi per combattere la povertà, sottolinea che la grande forza del nostro Paese sta «nel formidabile mondo delle imprese e nel risparmio delle famiglie, senza eguali in Europa». E sprona le altre grandi aziende: «In Italia non possiamo aspettarci che faccia tutto il governo, se ci sono aziende che fanno utili potrebbero destinarne una parte per intervenire sulle disuguaglianze. Ogni azienda dovrebbe anche lavorare perché i salari vengano aumentati. Sono uno dei punti di debolezza del nostro Paese e aumentarli è una priorità strategica».
Con l’Europa Carlo Messina non ha finito. Parlando di imprenditoria e di catene di comando, coglie l’occasione per toccare in altro nervo scoperto, perfino più strutturale dell’innamoramento bellicista. «Se un’azienda fosse condotta con meccanismi di governance come quelli dell’Unione Europea fallirebbe». Un autentico missile Tomahawk diretto alla burocrazia continentale, a quei «nani di Zurigo» (copyright Woodrow Wilson) trasferitisi a Bruxelles. La spiegazione è evidente. «Per competere in un contesto globale serve un cambio di passo. Quella europea è una governance che non si vede in nessun Paese del mondo e in nessuna azienda. Perché è incapace di prendere decisioni rapide e quando le prende c’è lentezza nella realizzazione. Oppure non incidono realmente sulle cose che servono all’Europa».
Il banchiere è favorevole a un ministero dell’Economia unico e ritiene che il vincolo dell’unanimità debba essere tolto. «Abbiamo creato una banca centrale che gestisce la moneta di Paesi che devono decidere all’unanimità. Questo è uno degli aspetti drammatici». Ma per uno Stato sovrano che aderisce al club dei 27 è anche l’unica garanzia di non dover sottostare all’arroganza (già ampiamente sperimentata) di Francia e Germania, che trarrebbero vantaggi ancora più consistenti senza quel freno procedurale.
Il richiamo a efficienza e rapidità riguarda anche l’inadeguatezza del burosauro e riecheggia la famosa battuta di Franz Joseph Strauss: «I 10 comandamenti contengono 279 parole, la dichiarazione americana d’indipendenza 300, la disposizione Ue sull’importazione di caramelle esattamente 25.911». Un esempio di questa settimana. A causa della superfetazione di tavoli e di passaggi, l’accordo del Consiglio Affari interni Ue sui rimpatri dei migranti irregolari e sulla liceità degli hub in Paesi terzi (recepito anche dal Consiglio d’Europa) entrerà in vigore non fra 60 giorni o 6 mesi, ma se va bene fra un anno e mezzo. Campa cavallo.
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Luca Casarini. Nel riquadro, il manifesto abusivo comparso a Milano (Ansa)
Quando non è tra le onde, Casarini è nel mare di Internet, dove twitta. E pure parecchio. Dice la sua su qualsiasi cosa. Condivide i post dell’Osservatore romano e quelli di Ilaria Salis (del resto, tra i due, è difficile trovare delle differenze, a volte). Ma, soprattutto, attacca le norme del governo e dell’Unione europea in materia di immigrazione. Si sente Davide contro Golia. E lotta, invitando anche ad andare contro la legge. Quando, qualche giorno fa, è stata fermata la nave Humanity 1 (poi rimessa subito in mare dal tribunale di Agrigento) Casarini ha scritto: «Abbatteremo i vostri muri, taglieremo i fili spinati dei vostri campi di concentramento. Faremo fuggire gli innocenti che tenete prigionieri. È già successo nella Storia, succederà ancora. In mare come in terra. La disumanità non vincerà. Fatevene una ragione». Questa volta si sentiva Oskar Schindler, anche se poi va nei cortei pro Pal che inneggiano alla distruzione dello Stato di Israele.
Chi volesse approfondire il suo pensiero, poi, potrebbe andare a leggersi L’Unità del 10 dicembre scorso, il cui titolo è già un programma: Per salvare i migranti dobbiamo forzare le leggi. Nel testo, che risparmiamo al lettore, spiega come l’Ue si sia piegata a Giorgia Meloni e a Donald Trump in materia di immigrazione. I sovranisti (da quanto tempo non sentivamo più questo termine) stanno vincendo. Bisogna fare qualcosa. Bisogna reagire. Ribellarsi. Anche alle leggi. Il nostro, sempre attento ad essere politicamente corretto, se la prende pure con gli albanesi che vivono in un Paese «a metà tra un narcostato e un hub di riciclaggio delle mafie di mezzo mondo, retto da un “dandy” come Rama, più simile al Dandy della banda della Magliana che a quel G.B. Brummel che diede origine al termine». Casarini parla poi di «squadracce» che fanno sparire i migranti e di presunte «soluzioni finali» per questi ultimi. E auspica un modello alternativo, che crei «reti di protezione di migranti e rifugiati, per sottrarli alle future retate che peraltro avverranno in primis nei luoghi di “non accoglienza”, così scientificamente creati nelle nostre città da un programma di smantellamento dei servizi sociali, educativi e sanitari, che mostra oggi i suoi risultati nelle sacche di marginalità in aumento».
Detto, fatto. Qualcuno, in piazzale Cuoco a Milano, ha infatti pensato bene di affiggere dei manifesti anonimi con le indicazioni, per i migranti irregolari, su cosa fare per evitare di finire nei centri di permanenza per i rimpatri, i cosiddetti di Cpr. Nessuna sigla. Nessun contatto. Solo diverse lingue per diffondere il vademecum: l’italiano, certo, ma anche l’arabo e il bengalese in modo che chiunque passi di lì posa capire il messaggio e sfuggire alla legge. Ti bloccano per strada? Non far vedere il passaporto. Devi andare in questura? Presentati con un avvocato. Ti danno un documento di espulsione? Ci sono avvocati gratis (che in realtà pagano gli italiani con le loro tasse). E poi informazioni nel caso in cui qualcuno dovesse finire in un cpr: avrai un telefono, a volte senza videocamera. E ancora: «Se non hai il passaporto del tuo Paese prima di deportarti l’ambasciata ti deve riconoscere. Quindi se non capisci la lingua in cui ti parla non ti deportano. Se ti deportano la polizia italiana ti deve lasciare un foglio che spiega perché ti hanno deportato e quanto tempo deve passare prima di poter ritornare in Europa. È importante informarci e organizzarci insieme per resistere!».
Per Sara Kelany (Fdi), «dire che i Cpr sono “campi di deportazione” e “prigioni per persone senza documenti” è una mistificazione che non serve a tutelare i diritti ma a sostenere e incentivare l’immigrazione irregolare con tutti i rischi che ne conseguono. Nei Cpr vengono trattenuti migranti irregolari socialmente pericolosi, che hanno all’attivo condanne per reati anche molto gravi. Potrà dispiacere a qualche esponente della sinistra o a qualche attivista delle Ong - ogni riferimento a Casarini non è casuale - ma in Italia si rispettano le nostre leggi e non consentiamo a nessuno di aggirarle». Per Francesco Rocca (Fdi), si tratta di «un’affissione abusiva dallo sgradevole odore eversivo».
Casarini, da convertito, diffonde il verbo. Che non è quello che si è incarnato, ma quello che tutela l’immigrato.
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