«Affrontare le sfide della crisi climatica e salvare il Pianeta». Questo lo scopo di Pachamama, un nuovo gioco da tavolo «che intrattiene e sensibilizza al tempo stesso». E «in più, con ogni scatola acquistata, viene piantato un nuovo albero».
Il gioco Pachamama, che mi è stato segnalato da un amico lettore, «nasce con l'obiettivo di raccontare, mentre si gioca, quelli che sono i pericoli a cui stiamo andando incontro, tentando di educare le persone su questo tema». Ideato da un'«azienda sociale impegnata nella riforestazione» e realizzato con la collaborazione di altri gruppi e associazioni, «il gioco prende il nome dalla dea della fertilità, agricoltura e terra, venerata dalla popolazione Inca e da tutti i popoli dell'altopiano andino».
Bisogna ricordare che «il culto della Pachamama, che significa Madre Terra, continua anche oggi, con una giornata dedicata nel mese di agosto in cui le popolazioni andine praticano il ringraziamento e offrono alla Terra, attraverso una buca scavata nel terreno, cibo e alimenti cucinati appositamente per l'occasione, come per ripagarla per averli nutriti fino ad ora. Alla fine della cerimonia, le offerte vengono ricoperte con terra e pietre, una per singolo partecipante, e si dà vita a un Apachete, un'alta montagna di sassi, che simbolicamente dovrebbe toccare il Sole, la controparte divina maschile. Sempre in Sudamerica, il primo giorno di agosto, per celebrare la Pachamama, si bevono a digiuno sette sorsi di ruda, un'erba medicinale impiegata per omaggiare la dea e per chiedere la sua protezione, proprio per le sue proprietà medicinali contro virus e malanni».
Come si gioca a Pachamama? «Collaborazione, decisioni consapevoli e strategia sono i tre ingredienti per la vittoria che si raggiunge solo se la temperatura globale si mantiene al di sotto dei 18 gradi. Un obiettivo ambizioso che potrebbe evitare il collasso ambientale e climatico del Pianeta. Non sembra tanto diverso dalla realtà, no? In effetti tutti noi ci troviamo ogni giorno a dover prendere delle decisioni che possono incidere sulle sorti della Terra».
A Pachamama possono giocare da un minimo di tre a un massimo di sei persone, maggiori di quindici anni. Sono previsti dieci turni, per un totale di quaranta minuti, «in cui ogni partecipante viene messo di fronte a una serie di sfide». Ogni giocata vale cinquant'anni sulla Terra e a ogni giocatore viene affidata un'area geografica e la possibilità di eseguire determinate azioni con effetti economici e ambientali. «La consapevolezza e la strategia in questo senso diventano essenziali perché ad ogni turno e ad ogni azione si genererà un impatto ambientale che inciderà sull'andamento della temperatura globale. L'obiettivo dei 18 gradi si deve mantenere per tutta la durata del gioco e solo così si potrà decretare il vincitore».
Molto interessante. Ora capisco l'interesse della Chiesa cattolica per certe pratiche. Evidentemente il sinodo amazzonico fa parte del gioco.
Mi chiedo però se la Chiesa cattolica, invece di giocare ai giochi degli altri, non potrebbe inventarne uno suo. Magari lo si potrebbe chiamare Salvezza. Aperto a tutti, potrebbe avere l'obiettivo di mantenere il cumulo di peccati sotto una certa soglia. Ci potrebbero essere penitenze e richieste di intercessione. Per vincere bisognerebbe raggiungere la santità attraverso decisioni improntate al bene dell'anima, con l'ausilio di un culto appropriato e la frequenza dei sacramenti. Si potrebbe prevedere di assumere a digiuno un alimento chiamato Eucaristia, che ha grandi proprietà contro il demonio.
Se Pachamama «si presenta come il gioco del futuro», perché «solo decisioni sostenibili e consapevoli condurranno alla vittoria», Salvezza potrebbe essere proposto come il gioco per l'eternità, perché solo comportamenti santi condurranno alla vittoria sul peccato. Come dite? Che un gioco come Salvezza esiste già e si chiama vita cristiana? Davvero? O bella, non me n'ero accorto. E com'è che la Chiesa non ne parla e invece gioca a Pachamama?
Signore e signori, lo psicoreato, previsto da George Orwell nel suo romanzo distopico 1984, sta diventando realtà. Orwell immagina che il thoughtcrime (crimethink nella neolingua) sia il reato che consente di applicare lo strumento repressivo per eccellenza nel sistema totalitario descritto nel libro. In 1984 commette infatti psicoreato chiunque osi anche solo pensare qualcosa che non sia in linea con le teorie del Grande Fratello. A tal scopo il Partito ha istituito un apposito reparto di controllo e repressione, la Psicopolizia. In genere lo psicoreato è segnalato alla Psicopolizia dagli onnipresenti teleschermi, ma si può anche essere scoperti direttamente da un agente della Psicopolizia in incognito oppure essere traditi da colleghi, amici e perfino parenti.
Ebbene, oggi, nella realtà, la polizia britannica ha lanciato un programma, già operativo, per denunciare persone (anche conoscenti, amici e parenti) colpevoli di «visioni estremiste», così che possano essere opportunamente rieducate. Il programma si chiama Prevent e viene presentato così: «Può essere difficile sapere che fare se sei preoccupato che qualcuno vicino a te stia esprimendo opinioni estremiste o odio estremo, qualcosa che potrebbe portare queste persone a danneggiare loro stesse e gli altri». Pertanto, ecco che «la polizia protegge le persone vulnerabili dallo sfruttamento da parte degli estremisti». Lo fa, mediante Prevent, programma del ministero degli Interni, dove si possono leggere esortazioni di questo tipo: «Agisci presto e comunicaci le tue preoccupazioni in confidenza. Non sprecherai il nostro tempo e non rovinerai vite, ma potresti salvarle». Non troppo diversamente dalla Psicopolizia orwelliana, Prevent «aiuta» le persone che coltivano idee strane. Per dimostrarlo, il sito propone alcune storie che descrivono interventi di correzione di cittadini «affetti» da visioni vagamente definite di «estrema destra» e da altre caratterizzate da estremismo islamico. Curiosamente, non è descritto un solo caso di persone «affetta» da idee di estrema sinistra.
La prima storia parla di uno studente di nome John che «ha iniziato a condividere post di estrema destra sui social media e a partecipare a manifestazioni». Proprio «dopo aver invitato un insegnante a una manifestazione estremista, John è stato indirizzato al programma Prevent dal suo college». Con un opportuno trattamento da parte di un provider, John ha recuperato «fiducia in se stesso» e così «si è reso conto che voleva apportare alcuni cambiamenti nella sua vita». Fino al lieto fine: «Con questo aiuto e supporto, il giovane è stato in grado di allontanarsi dall'estremismo».
Il sito è prodigo di consigli. Uno, in particolare: «Agisci presto e comunicaci le tue preoccupazioni in confidenza». In poche parole, diventa un delatore della Psicopolizia. «Il nostro approccio - spiegano gli specialisti di Prevent - inizia con la comprensione che le persone sono vittime della radicalizzazione; non li consideriamo sospetti o criminali». Certo che no. Sta di fatto che «prima ci comunichi le tue preoccupazioni, prima possiamo ottenere dalla persona a cui tieni l'aiuto di cui ha bisogno». «Ricevere sostegno è volontario» e dunque, «abbiamo bisogno del permesso della persona per aiutarla». Bontà loro. Resta il fatto che, «a seconda della situazione, possiamo contattare altre organizzazioni con cui lavoriamo per mettere in atto il giusto supporto. Ad esempio, potrebbe trattarsi del supporto di un medico, di una scuola o di un gruppo della comunità locale o di mentori specializzati, noti come fornitori di interventi».
Nato come strumento per contrastare i casi di radicalizzazione islamica e combattere il terrorismo, Prevent si presta a un uso allargato, così da giustificare l'intervento contro tutti i comportamenti ritenuti genericamente devianti. Per capire il rischio di totalitarismo insito nel programma basta leggere qui: «Più importante di qualsiasi segno specifico è la sensazione che qualcosa non vada bene nella persona per la quale sei preoccupato. Potresti individuare un segno o una combinazione di segni che stanno aumentando di intensità. A volte possono essere indicatori di altri problemi o sfide sottostanti che non sono collegati alla radicalizzazione. Se sei preoccupato, fidati del tuo istinto e contatta noi o una delle organizzazioni elencate sul sito per un consiglio».
Capite che se basta una «sensazione» per giustificare un intervento la faccenda si fa inquietante. Quali sono i «segni» che dovrebbero preoccupare? Prima di tutto, «trascorrere sempre più tempo online e condividere opinioni estreme sui social media». Occorre ricordare che i devianti «operano sempre più online per prendere di mira e influenzare le persone vulnerabili tramite giochi online e piattaforme di social media. In un primo momento, possono utilizzare pagine o siti dall'aspetto innocuo, che non sono in alcun modo estremi. Quindi cercheranno di invitare la persona in un gruppo chiuso in cui vengono espresse opinioni estremiste. Lo fanno per far sentire la persona speciale o parte di un gruppo selezionato». Occhio, magari il sospetto frequenta siti normalissimi, ma mai sottovalutare il pericolo: l'estremista può essere ovunque!
La materia è quanto mai scivolosa e i criteri sono così vaghi che, di fatto, ogni comportamento può essere letto come pericoloso. Si dice anche di stare in guardia quando le persone vivono «un conflitto o un trauma significativo a un certo punto della loro vita, come un lutto o una rottura di una relazione con un partner, con amici o familiari». Ma anche «una transizione importante, come trasferirsi all'università e cambiare o perdere il lavoro», può diventare pericolosa. Dunque, se il tuo amico s'è lasciato con la fidanzata, o ha deciso di cambiare facoltà, stai in guardia: forse sta diventando un pericolo pubblico! Certo, «la maggior parte delle persone trova il modo di affrontare le sfide della vita e non si troverà coinvolta nell'estremismo», tuttavia «alcuni potrebbero rivolgersi a nuovi modi di comportarsi e pensare». L'ironia involontaria farebbe sorridere se non sfociasse in esiti dall'inequivocabile sapore orwelliano. «Come puoi aiutare?» chiede il sito di Prevent. Ebbene, «la famiglia e gli amici sanno quando qualcosa non va bene». Quindi «puoi individuare un comportamento preoccupante in una fase iniziale e aiutare la persona a cui tieni a ottenere il supporto di cui potrebbe aver bisogno per allontanarsi dall'estremismo».
Ricordiamo che nel Regno Unito c'è una discussione in corso sulla possibilità di perseguire le persone per «crimini d'odio» sulla base di ciò di cui discutono nelle loro case, infrangendo così il principio della privacy. Fino al 1986 il reato relativo all'uso di parole o comportamenti suscettibili di incitare all'odio, soprattutto razziale, poteva essere commesso solo in un luogo pubblico. L'ambito, successivamente ampliato, escludeva comunque l'abitazione privata, ma ora si discute dell'ipotesi di poter incriminare un cittadino anche per cose dette a tavola, in famiglia. Evidenti i rischi. E tante le domande. Se la proposta passasse, una persona che in casa sua legge, poniamo, il Mein Kampf per motivi di studio, o anche solo per curiosità, potrebbe essere denunciata per uso di materiale estremista che fomenta l'odio?
Benvenuti nel mondo del Grande Fratello. Non è 1984, è 2020, ma il succo è quello. Se non è psicoreato, ci siamo molto vicini.
Re o pastore, avvolto in fasce o in vesti splendenti, sorridente o serio, ricciuto o quasi calvo, dormiente o sveglio, benedicente o con le braccia incrociate, Gesù bambino ci guarda. E ci parla. Lo fa da secoli, da innumerevoli opere artistiche più o meno nobili, più o meno elaborate. Un'immagine così comune che, a volte, corriamo il rischio di non notarla. Ma lui, il bimbo nato a Betlemme, sta lì, e ci aspetta. Aspetta di incrociare il nostro sguardo, di ascoltare la nostra preghiera, di accogliere la nostra supplica.
A Gesù bambino nell'iconografia e nel culto è dedicato il bellissimo libro di Michele Dolz Il Dio bambino (Ares, 408 pagine, 24 euro), nel quale l'autore, docente di Storia dell'arte cristiana alla Pontificia università della Santa Croce, conduce una minuziosa esplorazione lungo la storia, dalle origini della devozione fino ai giorni nostri, accompagnandoci in una galleria all'insegna della bellezza e della tenerezza.
Già ai tempi di san Girolamo la grotta di Betlemme era meta di venerazione. Le monache di tutti i tempi hanno tenuto con loro un'immagine del Bambino, e grandi artisti lo hanno raffigurato: da Mantegna a Guido Reni, da Zurbarán a Dalí. San Francesco si commuoveva nell'evocarlo; Erasmo da Rotterdam gli dedicò un poema in latino e sant'Alfonso Maria de' Liguori compose per lui indimenticabili ninne nanne. Santa Teresa di Lisieux volle chiamarsi «di Gesù Bambino»; Edith Stein lo sentiva vicino nell'orrore del campo di sterminio; Padre Pio se lo vide apparire. San Josemaría Escrivá gli diceva: «Mi piace vederti piccolino, indifeso, per illudermi che tu abbia bisogno di me». E san Giovanni Paolo II gli chiese: «Asciuga, Bambino Gesù, le lacrime dei fanciulli».
Da Arenzano a Praga, da Roma alle Filippine, da Siviglia a Lima, da Lisieux a Venezia, da Parigi a Madrid, da Monaco di Baviera a Washington, la geografia disegnata da Gesù bambino ci richiama alla contemplazione, al ringraziamento, al silenzio.
La domanda che Dolz pone fin dall'inizio e che fa da filo conduttore dell'intera indagine è: perché il Bambino?
La risposta sta in un misto di stupore, meraviglia, gratitudine, adorazione. Il mistero del Verbo che si è fatto carne si mostra nel Gesù bambino in tutta la sua sconvolgente evidenza e semplicità. Davanti al bambino nato a Betlemme siamo presi da ammirazione nel senso più letterale: è quel mirari da cui viene anche miracolo.
E il fatto che i Vangeli in proposito ci forniscano notizie con il contagocce aumenta la nostra voglia di vedere, conoscere, esplorare. Quasi niente gli evangelisti ci dicono dell'infanzia di Gesù a Nazaret, ma noi sappiamo, e il Catechismo della Chiesa cattolica ce lo ricorda, che «tutta la vita di Cristo è rivelazione del Padre».
Parole e azioni di Gesù, in ogni tempo della sua vita, sono già e sempre salvifiche, ancor prima del ministero pubblico. E se la Passione mette in rilievo la Redenzione, il piccolo Gesù ci pone a confronto con il mistero dell'Incarnazione. D'altra parte, «se Cristo avesse voluto ricevere culto “da adulto", come è ora risorto e glorioso in Cielo, non sarebbe apparso sulla terra anche come Bambino né la sua infanzia avrebbe fatto parte del messaggio di salvezza contenuto nei Vangeli».
Davanti a Gesù bambino si sta in contemplazione, e la contemplazione, insegna san Tommaso, è «intuizione della verità che termina in un moto affettivo». I santi lo sanno bene, ed ecco perché tanti santi hanno voluto e vogliono stare in compagnia del Bambino Gesù. Un bambino che anche quando non è abbigliato come un principino noi veneriamo in quanto Re dell'universo, quel Re dei Giudei che i magi cercano seguendo la stella e che poi, quando sarà diventato grande, esorterà: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!». Re a tutti gli effetti, dunque, ma non nel modo umano. «Il mio regno non è di questo mondo» dice infatti Gesù a Pilato.
Fra le tantissime citazioni proposte da Dolz ne scelgo una tratta da sant'Ambrogio: «Egli volle essere un fanciulletto, affinché tu potessi diventare un uomo perfetto; Egli fu stretto in fasce, affinché tu fossi sciolto dai lacci della morte; Egli nella stalla, per porre te sugli altari; Egli in terra, affinché tu raggiungessi le stelle; Egli non trovò posto in quell'albergo, affinché tu avessi nei cieli molte dimore» (Ambrogio, Expositio evangelii secundum Lucam, 2, 41, PL 15, 1649).
Si diceva prima che i Vangeli non forniscono molte notizie su Gesù bambino. Numerose sono invece quelle proposte da alcune mistiche, come Maria Valtorta nel suo L'Evangelo come mi è stato rivelato, fluviale opera nella quale è restituita l'atmosfera di pace e di armonia che si respirava nell'umilissima casa della sacra famiglia. Ma anche santa Faustina Kowalska ebbe frequenti visioni di Gesù bambino nell'Ostia consacrata, come nella Messa di mezzanotte del 1934: «Durante l'offertorio vidi Gesù sull'altare; era di una bellezza incomparabile. Il Bambinello per tutto il tempo guardò verso tutti, tendendo le manine… È difficile esprimere la gioia che avevo nell'anima».
Gioia, tenerezza, commozione. Come quelle trasmesse da sant'Alfonso nella celeberrima Tu scendi dalle stelle, composta e musicata a Nola nel 1754 e ancor oggi cantata nelle chiese e nelle case davanti al presepe, dove il «caro eletto Pargoletto» nasce, per amore, al freddo e al gelo.
Alla domanda «perché il Bambino?» si può dunque rispondere in molti modi. Ma il silenzio, o al più il canto sussurrato di una ninna nanna, sono forse le risposte più adeguate. Il Bambino ci chiede di spogliarci di noi stessi per diventare piccoli, come lui.





