2020-11-20
Il valzer delle nomine di Sala e del Bullo. Tutti gli occhi puntati sul cda di Ferrovie
Per la poltrona di commissario calabrese scalpita Federico D'Andrea mentre Matteo Renzi vorrebbe piazzare il suo pupillo Renato Mazzoncini in Fs.«Alla sanità della Calabria non serve un medico ma un manager contro le ruberie». Le parole pesantissime del procuratore Nicola Gratteri e il niet della moglie di Eugenio Gaudio hanno ottenuto l'effetto di rimescolare le carte e di far tornare in primo piano la corsa alle nomine. Quella del commissario e qualche altra. Perché anche sul pianeta giallorosso il risiko domina e il poltronificio incombe. Mentre si attende per oggi il decreto di Giuseppe Conte destinato a chiudere la partita più surreale dell'anno (tre pretendenti bucati in sette giorni), si illuminano i riflettori sui due principali candidati, l'ex commissario della Città metropolitana di Roma e Federico D'Andrea, manager in grande ascesa, carriera ruggente a Milano ma originario di Cosenza. Per lui sarebbe un ritorno a casa. D'Andrea ha 61 anni, 30 dei quali trascorsi nella Guardia di finanza. Si è trovato al posto giusto nel momento giusto quando è scoppiato il bubbone di Tangentopoli. Allora era uno dei collaboratori più preziosi, in senso operativo, del pool Mani pulite; il procuratore Francesco Saverio Borrelli lo stimava molto e lo utilizzava per i filoni più delicati delle inchieste sulla corruzione nei pubblici uffici. Mentre lavorava (e con le agevolazioni della divisa), è riuscito a ottenere due lauree, in giurisprudenza ed economia. Nel 2006 è diventato vicecapo dell'Ufficio indagini di Calciopoli, altra patata bollente di enorme impatto mediatico. Lasciata la divisa ha ricoperto ruoli dirigenziali di controllo in Telecom Italia, Sogei, Olivetti fino a quando (nel 2016) l'allora neosindaco Giuseppe Sala ha sentito la necessità di istituire una commissione per la Legalità e la trasparenza. A guidarla ha chiamato uno dei guru di Mani pulite, Gherardo Colombo, e al suo fianco ha piazzato proprio D'Andrea. Non iscritto a partiti, è naturalmente vicino al centrosinistra e i suoi molteplici incarichi lo confermano. Presidente di Amsa, ex presidente di Pedemontana, nel 2017 è stato chiamato proprio da Colombo nel consiglio di vigilanza del Sole 24 Ore per il rilancio d'immagine dopo lo scandalo amministrativo delle copie contraffatte. Siede in numerosi organismi di vigilanza, primo fra tutti quello di Banca Popolare di Milano, e da qualche mese anche nel consiglio d'amministrazione del colosso A2A, una delle partecipate più importanti d'Italia. Anche qui è stato decisivo il sindaco piddino Sala; secondo il codice di autodisciplina di A2a, D'Andrea non sarebbe stato candidabile per la regola dell'indipendenza («nei precedenti tre esercizi non deve essere stato un esponente di rilievo di una controllata»), visto che nell'autunno 2019 è stato nominato presidente di Amsa, appunto controllata da A2a. Ma la cosa è stata considerata marginale. Dovesse diventare commissario in Calabria, ruolo che presuppone presenza fisica e impegno totale per rimettere in sesto la disastrata sanità della regione (il deficit patrimoniale era di un miliardo e 700 milioni dieci anni fa, poi nessuno ha più tenuto il conto), probabilmente D'Andrea sarebbe costretto a sfrondare il cumulo di incarichi che gli fanno sfiorare il milione di euro di reddito annuo. Da consigliere di A2A e al tempo stesso componente della Commissione Trasparenza ha dato il via libera alla nomina da parte del sindaco di Milano di Renato Mazzoncini, l'ad renzianissimo, in bilico fino all'ultimo per via delle due inchieste a suo carico a Perugia e a Parma. Nella prima con un rinvio a giudizio per truffa ai danni dello Stato. Anche se lo statuto aziendale e il codice etico del Comune di Milano di fatto mostravano paletti invalicabili alla sua nomina, la commissione Colombo-D'Andrea non ha avuto niente da eccepire. E Sala ha battezzato Mazzoncini papa di A2A nonostante il ministro dell'Economia, Roberto Gualtieri, avesse congelato per via della pandemia le nomine pubbliche. Matteo Renzi vedrebbe bene la scelta di D'Andrea in Calabria e ancora di più un ritorno a Roma del suo pupillo Mazzoncini, destinazione Ferrovie dello Stato dalle quali era stato scardinato nel 2019 dal ministro dei Trasporti Danilo Toninelli nell'anno di governo Movimento 5 stelle-Lega. A marzo scade il cda di Ferrovie e il leader di Italia viva vorrebbe agevolare l'andata-ritorno del manager bresciano approfittando dell'inchiesta che sta mettendo in imbarazzo i vertici per l'iscrizione nel registro degli indagati (corruzione) dell'ex manager Raffaele D'Onofrio. L'indagine riguarda gli appalti per decine di milioni di euro relativi alle coperture assicurative dei rischi, vinti sistematicamente da Generali. L'ex funzionario avrebbe gestito anche le pratiche con cui l'attuale ad, Gianfranco Battisti (al tempo numero uno di Trenitalia), ha ottenuto due indennizzi record per 1,7 milioni totali, il primo per una caduta e il secondo per malattia. L'inchiesta prosegue con grande discrezione a tutela delle persone coinvolte. Negli ambienti pentastellati (Battisti è molto stimato da Luigi Di Maio) balza all'occhio un dettaglio: uno degli esposti ai pm è firmato dal presidente del consiglio sindacale di Fs, Alessandra Dal Verme, cognata di Paolo Gentiloni. Per questo i grillini fanno muro a difesa dello status quo, mentre il centrosinistra è pronto con i suoi assi da prelevare a Milano. Il Pd punta su Arrigo Giana, direttore generale di Atm e Renzi su Mazzoncini, elevato nel suo cerchio magico al tempo della Leopolda. A2a con i suoi 12.000 dipendenti e i sette miliardi di fatturato sarebbe un taxi per tornare alla stazione. Ma per la politica delle poltrone questo è solo un dettaglio.
Sehrii Kuznietsov (Getty Images)