2022-05-08
Il tennis mondiale imbocca la via di Carlito
Carlos Alcaraz stratosferico: a 19 anni sconfigge nel giro di 24 ore prima Rafael Nadal, poi Novak Djokovic e vola in finale al Master di Madrid. Ha avuto la meglio sul serbo numero uno del ranking dopo una battaglia epica di tre ore e mezza: è lui il futuro di questo sport.Sinisa Mihajlovic in panchina dopo 49 giorni di terapie per la recidiva della leucemia: «È stata dura».Lo speciale contiene due articoli. Lo ha giustiziato a colpi di fichi molli. Con una, dieci, cento smorzate alternate a mazzate da baseball Carlos Alcaraz ha fatto la rivoluzione. Il giorno dopo aver sconfitto Rafael Nadal, il bimbo (19 anni, numero 6 del ranking) arrivato dalle lande di Murcia liquida Novak Djokovic nella partita del destino sulla terra rossa, quella che segna l’anno zero nella storia del tennis. Sul centrale di Madrid intitolato a Manolo Santana non va in scena una semplice semifinale ma una staffetta generazionale, un cambio epocale, l’alba di una nuova era geologica. C’è qualcosa di magico nell’abbraccio finale tra il numero uno del mondo sconfitto (5-7,7-6,7-6) e il ragazzino che piange urlando nel cielo al tramonto. È la stessa magia che abbiamo vissuto al cambio di testimone fra Bjorn Borg e John McEnroe, poi fra quest’ultimo e Boris Becker, fra il tedesco e Pete Sampras, fra l’americano e Roger Federer. Il futuro è nella testa e nel braccio di un giovane uscito dalla prolifica scuola spagnola, ma che non ha niente a che vedere con lo stile dei maestri terraioli. Alcaraz è serve and volley, è fantasia, è Andy Roddick più Pat Cash. Insomma è qualcosa di diverso da tutti, un giocatore che non vedevamo da una generazione. Oggi lui si discosta da chiunque calchi un campo da tennis perché è più avanti (e paradossalmente attinge a una cultura che non si vergogna di guardare indietro, a tutti i fondamentali). È diverso anche da Jannik Sinner, formidabile interprete di un gioco che esiste già. La differenza con Alcaraz è lo spirito rivoluzionario. Quando quest’ultimo entra in partita non è un termometro ma un termostato; non si limita a indicare la temperatura nello stadio ma inesorabilmente la cambia.Se ne sono accorti in due giorni i fuoriclasse che (con Federer) hanno fatto la storia contemporanea di questo sport: prima è caduto Nadal, travolto dalla fisicità e dalla grinta (6-2,1-6,6-3), poi ha alzato bandiera bianca Djokovic dopo una resistenza estrema, perché i grandi non abbandonano facilmente il trono. Ma sono proprio i grandi i primi a vedere negli occhi dei nerd i segni della predestinazione. E Alcaraz li ha tutti. Paolo Bertolucci, che già due anni fa ne parlava con dolcezza stupita, oggi commenta così: «Carlos passa da un’accelerazione demoniaca a un drop shot con la naturalezza con cui si beve un caffè». Ha l’acne giovanile sulle guance, passaggi a vuoto da bambino che vuole finirla in fretta, ma sul campo ha confermato di avere l’allure del fenomeno. In 3 ore e 35 minuti, in fondo a una battaglia di sudore e nervi, ha piantato la bandiera della gioventù sulla terra rossa, il fondo più complicato, quello che non ti permette di caricare i colpi e di giocare a rete con facilità. Vedere Djokovic (34 anni) aggrapparsi alla partita come una cozza allo scoglio, mettere in atto ogni astuzia per tenere a bada il baby di casa, è stato uno spettacolo nello spettacolo. Con qualche successo perché quando il bimbo va di fretta mostra ancora qualche limite e alterna colpi da fuoriclasse a un net, una stecca, una svirgola, un doppio fallo. Ma alla fine riesce a rubare il fuoco dall’Olimpo allo Zeus del tennis.In Spagna dicono che Alcaraz è l’erede di Nadal, ma con il mito vivente di Manacor ha in comune solo il passaporto e il tifo per il Real Madrid. Per il resto ha in tasca un arcobaleno di colpi che l’altro si sogna, ma non ancora la garanzia di poterli giocare con continuità e di superare (come a saputo fare Nadal) le vette himalaiane del successo. Carlos arriva da una famiglia di tennisti, il nonno (88 anni) è il più vecchio iscritto al club di Murcia, il padre non è diventato professionista perché non aveva i soldi per mantenersi. Trent’anni di sogni famigliari riposti in questo formidabile giocatore che si carica nello spogliatoio ascoltando la colonna sonora dei film di Rocky Balboa. Vive da autorecluso a Villena nell’accademia-monastero Equelite di Juan Carlos Ferrero (il coach, ex campione che vinse al Roland Garros), dove si allena sei ore al giorno, abita in un bungalow di legno e per allenare la mente gioca a scacchi.Ferrero ha iniziato a seguirlo da bambino e oggi se lo gode, anche se sa che la scalata è appena cominciata: «Carlos dà il meglio quando è aggressivo. Gli chiedo di esserlo di continuo, non deve mai assumere una posizione passiva. A 16 anni, quando si allenava con giocatori già formati, si adattava in un lampo al livello di chi aveva di fronte. In quel caso ho capito che lo step successivo sarebbe stato quello di issarsi sopra quel livello». L’obiettivo è di vincere il primo slam già quest’anno, ma senza pressioni. La sensazione è che presto i 3,8 milioni di dollari sul suo conto avranno un’impennata esponenziale. Per l’uomo nuovo del tennis mondiale, che in 24 ore ha battuto Nadal e Djokovic, la corsa è appena cominciata. Oggi c’è la finale (Zverev o Tsitsipas), ma questa è solo statistica. Il destino dice altro, molto altro. Aggressività e smorzate, servizio e lungolinea da paura per scalare il mondo. E come spiegava Brad Gilbert ad Andre Agassi: «Attacca sotto pressione, guarda la palla e colpiscila. Non c’è altro nel tuo destino. E se devi cadere cadi, ma fallo sparando. Cadi con tutte e due le pistole che sparano». Alcaraz sembra nato per dargli retta. C’è un forestiero in città, impareremo a conoscerlo nei prossimi 15 anni. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-tennis-mondiale-imbocca-la-via-di-carlito-2657282721.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-seconda-rinascita-di-mihajlovic-le-rimonte-partono-dalla-testa" data-post-id="2657282721" data-published-at="1652020360" data-use-pagination="False"> La seconda rinascita di Mihajlovic «Le rimonte partono dalla testa» «Il primo sogno è stato quello di rimanere in vita, ora per ora, passo dopo passo». Per Sinisa Mihajlovic tornare in panchina oggi a Venezia 49 giorni dopo l’ultima volta, è una somma di piccole vittorie, da ottenere giorno dopo giorno, contro un nemico che gioca sempre all’attacco e ti aggredisce andando fra le linee. Ma lui e la sua coppola irlandese, involontaria citazione di Andy Capp, ancora una volta sono stati più forti della leucemia mieloide. Il guerriero serbo allenatore del Bologna è qui a raccontarla, la sua doppia sfida di Champions, vinta all’andata e al ritorno. E per una volta la vigilia della partita non è un dribbling dalla formazione, una spiega di come giocherà Marko Arnautovic, ma è un viaggio dentro la vita reale, quella che ti fa passare dai giorni in pigiama in una clinica al sorriso della normalità ritrovata. «A volte si danno le cose per scontate ma l’esistenza bisogna godersela minuto per minuto. Quando passi attraverso certe prove comprendi il vero valore della vita: anche una passeggiata ti può dare energia e la sensazione di tornare alla normalità. Questa volta è stato più pesante della prima, nessuno poteva entrare, solo mia moglie aveva un permesso speciale. Ho sofferto molto». Lo dicono in tanti, probabilmente lo dicono tutti ma ribadirlo è un segno di consapevolezza e sensibilità. Non c’erano dubbi, il suo problema non è mai stato il contenuto, al massimo l’imballaggio. Quel corpo ribelle, quella successione di particelle elementari che un mattino ti chiedono prove che non avresti mai immaginato di sostenere. C’è un video che testimonia una convalescenza speciale, che nessun medico si sognerebbe di prescrivere al paziente: Mihajlovic reloaded che calcia bordate su punizione alla fine dell’allenamento a Casteldebole. Lo guardi e ci intuisci la scintilla della guarigione, quel potenziale di forza, di sostanza, che fa parte dell’uomo Sinisa e che è sempre stato difficile contenere. «La forza ti arriva dalla famiglia grazie alla tecnologia e dall’altra famiglia che sono i miei giocatori: mi hanno reso orgoglioso». Mentre lui era via il Bologna non ha mai perso, ha messo in cascina 10 punti in sei partite, ha battuto Inter e Sampdoria, non ha chinato il capo davanti a Milan, Juventus, Udinese e Roma. Quando ha rivisto i calciatori negli spogliatoi ha detto loro con stupendo vittimismo balcanico (colonna sonora di Goran Bregovic): «Sono dovuto andare in ospedale per non vedervi perdere mai, ma adesso dobbiamo continuare così. Mi piacerebbe finire bene la stagione anche per dimostrare qualcosa a quelli che non avevano fiducia». Non è un docufilm di Netflix, è tutto vero. «Cercavo di aiutarmi grazie a loro. Dalla mattina alle sei e mezza a sera era una tortura: dovevamo arrivare all’obiettivo e l’abbiamo fatto». Tutti, lui è di nuovo qui e la squadra passeggia tranquilla sotto i portici coperti di metà classifica. La Lega Calcio ha fatto un gesto delicato, gli ha assegnato il titolo del mese. Come se a dirigere fosse lui dal letto con la forza del pensiero, idealmente accanto ai vice Miro Tanjga ed Emilio De Leo in tuta. «Mi è piaciuta la motivazione, spesso non si ricorda chi c’è dietro, più forte è chi ti supporta e meglio vengono le cose. Siamo un bel gruppo». La partita dell’anno in sua assenza è stata quella con l’Inter, la rilegge con un gusto particolare perché quei ricorsi legali dei nerazzurri non gli sono piaciuti. «Sentivo dire che avevamo poche motivazioni ma nessuno deve dubitare della nostra professionalità. Nelle settimane prima mi dicevo: “Fanno bene a fare ricorso perché se la giochiamo la perdono” e così è stato. Ci hanno provato. Amo l’Inter, là mi sono tolto grandi soddisfazioni, Simone Inzaghi è un mio amico ma non dormivo la notte per quelle chiacchiere e ho trasmesso tutta la rabbia possibile ai miei giocatori. Per loro non doveva essere una passeggiata e non lo è stata». Per lo scudetto tifava Napoli, il resto gli è indifferente e del Milan (esonerato nel 2016 durante una stagione mediocre) non parla. Il guerriero è tornato, sa come si compie una rimonta anche prima di aver visto quella del Real Madrid contro il Manchester City. «Le rimonte partono sempre dalla testa, è lì che non devi mollare mai. E se ci sono momenti pesanti sai sempre che devi superarli». Ora non sta già più parlando di calcio, la metafora va e viene, si rivede con la cartella clinica davanti e il dramma negli occhi. Più facile andare a Venezia contro una squadra disperata e provare a salvare la faccia. Il pensiero torna lì, alla sua Champions vinta in pigiama. Adesso Sinisa sorride, la vita ritrovata lo merita: «Se un giorno smetto di allenare faccio la guida turistica dell’ospedale Sant’Orsola».
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