
I giudici accolgono il ricorso dell'azienda contro il golden power. E danno torto a Palazzo Chigi che si era fatto scudo dell'Agcom. Il parere fornito dall'allora avvocato Giuseppi a Raffaele Mincione torna a imbarazzare il premier.Il Tar del Lazio ha dato torto alla presidenza del Consiglio dei ministri in merito al ricorso al golden power su Retelit. La notizia, riportata ieri dal settimanale Milano Finanza, smonta quello che finora è sempre stato l'«alibi» del premier, Giuseppe Conte, coinvolto direttamente nella storia della società attiva nei servizi digitali e infrastrutture per il mercato delle Tlc.Ma partiamo dalla sentenza dei giudici amministrativi che sono stati chiamati a decidere sull'annullamento di tre Dpcm con i quali Palazzo Chigi aveva esercitato i poteri speciali del cosiddetto golden power, imponendo a Retelit specifiche condizioni, e aveva comminato alla società una sanzione amministrativa pecuniaria. «La vicenda trae origine dal rinnovo del cda di Retelit, deliberato in sede di assemblea degli azionisti del 27 aprile 2018, avendo la presidenza del Consiglio dei ministri ritenuto che i cambiamenti intervenuti nella governance della società fossero tali da incidere sulla disponibilità degli attivi strategici della società», ricordano in una nota i legali dello studio Chiomenti (di cui, tra l'altro è socio Giulio Napolitano, figlio dell'ex presidente della Repubblica) e dello Studio Associato Ielo-Mangialardi, che hanno assistito Retelit. La presidenza del Consiglio si era rivolta all'Agcom, l'Autorità garante delle comunicazioni, per valutare se gli asset di Retelit fossero o meno strategici, ricevendo parere positivo. Ma Retelit ha fatto ricorso al Tar, che lo ha accolto, rilevando la carenza di una «valida istruttoria» circa i presupposti per applicare i poteri speciali e quindi imporre condizioni alla società. Il parere dell'Agcom, «benché non obbligatorio, ha rivestito una importanza centrale per l'accertamento dell'esistenza del presupposto oggettivo per l'esercizio dei poteri speciali», si legge nella sentenza del 20 luglio scorso. A rilasciare il documento, però, era stato il segretario generale dell'Autorità di garanzia nelle comunicazioni, che tuttavia, secondo i giudici, «risulta privo del potere di adottare atti di siffatta natura». Potere attribuito, invece, alla competenza deliberativa del Consiglio dell'Agcom, composto dal presidente e da tutti i commissari. «Da un lato, non risulta né nella nota Agcom, né da altro atto versato in giudizio che il segretario si sia limitato a esternare il contenuto di un atto adottato dal soggetto competente (il Consiglio); dall'altro, è indimostrata la circostanza che il segretario fosse stato delegato all'adozione del parere, né, più in generale, che una siffatta delega potesse essere rilasciata sulla base delle delibere a contenuto organizzativo dell'Autorità», viene aggiunto nella sentenza del Tar. Che quindi definisce l'istruttoria svolta dall'Amministrazione «viziata» per essersi basata su un parere dell'Agcom «rilasciato da un soggetto privo della competenza ad adottarlo». Ma cosa c'entra Conte in tutta questa storia? Ricordiamolo. Nella primavera del 2018 Retelit è stata oggetto di una battaglia tra due liste: la prima sostenuta da Bousval (società lussemburghese riferibile al ministero libico delle Poste) e dai tedeschi di Axxion e l'altra (Fiber 4.0) guidata dal finanziere Raffaele Mincione (poi coinvolto nell'inchiesta sugli immobili del Vaticano). A imporsi è stata la prima lista, ma per la seconda squadra era stato arruolato come consulente legale l'avvocato Giuseppe Conte che, poche settimane dopo, sarebbe diventato premier. In veste di avvocato, dunque, Conte aveva fornito un parere pro veritate alla cordata di Mincione sull'eventuale violazione degli obblighi stabiliti dal golden power supportando le ragioni di Fiber 4.0 e avvertendo del fatto che il governo avrebbe potuto sanzionare la società. Una volta a Palazzo Chigi a capo della coalizione gialloblù, il premier si era astenuto dalle decisioni su quel diritto di veto posto in nome dell'interesse pubblico chiamato golden power. «Ho accettato l'incarico in un momento in cui io stesso non potevo immaginare che di lì a poco sarebbe nato un esecutivo da me presieduto, che poi sarebbe stato chiamato a decidere su Retelit», aveva dichiarato nell'informativa al Parlamento il 5 novembre del 2019. Ricordando che in due Consigli dei ministri (il primo il 7 giugno 2018, il secondo l'8 agosto 2018) lui non partecipò per «evitare qualsiasi forma di conflitto d'interessi». E rafforzando la sua difesa proprio con la certificazione dell'Agcom che però non ha mai mostrato. Con la sentenza del Tar, viene dunque meno dal punto di vista politico l'«alibi» usato da Conte nel caso Retelit. Tanto che ieri sul caso è intervenuto Giulio Centemero, capogruppo della Lega in commissione finanze: «Il 5 novembre del 2019 chiesi al presidente del Consiglio chiarimenti in merito alle motivazioni che spinsero il Consiglio dei ministri a esprimersi sull'attivazione del golden power relativo a Retelit. Sollevai il caso pubblicamente e ora la giustizia ha fatto il suo corso».
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