
Si sostituiscono ai bagnini, cercano i dispersi sotto la neve o scavano tra le macerie. Sono gli intrepidi quattro zampe istruiti per aiutarci in ogni situazione di pericolo.Cercano i dispersi sotto la neve e sotto le macerie, si tuffano in mare per riportare a riva chi annaspa tra le onde. Sono i cani che di mestiere salvano vite umane. Una categoria di lavoratori che non va mai in vacanza. Anzi, l'estate, a molti di loro toccano pure gli straordinari. Per esempio ai cani bagnino. I bau watcher in uniforme rossa che pattugliano in questi giorni le nostre spiagge per farci godere il mare senza correre rischi hanno studiato in una scuola che tutto il mondo ci invidia: la Sics (Scuola italiana cani salvataggio), l'associazione più antica al mondo per la formazione di Fido come animale da soccorso in acqua. Nata trent'anni fa quando il bergamasco Ferruccio Pilenga decise di addestrare il suo terranova Mas al salvataggio nautico, riconosciuta dalla Protezione civile, opera in stretta collaborazione con la Guardia costiera, ha centri in tutta le Regioni e conta su un piccolo esercito di 400 volontari con altrettanti cani che in accordo con le amministrazioni locali operano su tratti di litorali liberi frequentati da bagnanti. In acqua troviamo perlopiù terranova, labrador e golden retriever perché la loro anatomia - ventre a botte, zampe palmate, pelo idrorepellente - è già una patente. Temprata da uno-due anni di addestramento alla Sics assieme al padrone conduttore. Le cose da imparare sono tante: bisogna saper nuotare fino a due chilometri di distanza; saper rimorchiare il proprio conduttore, per fargli risparmiare preziose energie, fino alla persona in difficoltà; trainare imbarcazioni stringendo fra i denti una fune; gettarsi al volo da motovedette, acquascooter, gommoni, persino elicotteri. L'addestramento parte quando il cane è ancora un cucciolo, all'inizio con giochi, poi impartendo a terra le regole base di obbedienza. Quindi si entra in acqua dove le prove si fanno via via sempre più difficili. E alla fine un solo cane è in grado di portare in salvo fino a sei persone con un solo viaggio, sfruttando la corrente per fare meno fatica. Ogni estate i bau watcher salvano in media venti vite umane. È successo anche l'anno scorso. Ad esempio Zagor e Audrey, due golden retriever color nocciola, hanno soccorso un quindicenne che in una giornata di forte vento e mare mosso stava affogando nelle acque di Ostia. Lux, un labrador nero, ha salvato dall'annegamento Caterina, una bambina di 8 anni trascinata al largo da una forte ondata nel mare di Palinuro. Ettore, un labrador color champagne, ha nuotato con tutte le sue forze stringendo fra i denti una corda per trainare a riva un pattino con a bordo sei persone - due adulti e quattro bambini - che, a causa della rottura del timone, si stava schiantando sugli scogli di Sant'Antioco in Sardegna. Le storie di cani eroi, in acqua, sono tantissime. E altrettante se ne contano tra i detriti e sulla neve. L'anno scorso, quando l'hotel Rigopiano a Fariandola, in provincia di Pescara, fu travolto dalla valanga, l'intervento dei cani degli Alpini fu fondamentale per salvare 9 vite umane. Un tempo i cani da valanga erano per lo più San Bernardo, oggi si preferiscono pastori tedeschi, border collie, golden retriever, pastori belgi, schnauzer, per il forte temperamento e l'olfatto infallibile. I più bravi riescono a sentire la presenza di uomini sprofondati anche sotto 5 metri di neve. I risultati ottenuti da questi animali sono impressionanti: in un'area di 10.000 metri quadrati, il cane impiega 20 minuti a ritrovare una persona sepolta, contro le quattro ore necessarie a una squadra di 20 soccorritori con le sonde. I cani da valanga, come quelli da macerie, imparano fin da cuccioli che non devono farsi distrarre da nulla, neanche dal cibo: l'obiettivo è trovare l'essere umano. Sulle macerie di terremoti, frane o esplosioni i più bravi sono i pastori australiani Kelpie, per l'agilità e la straordinaria abnegazione. Ma il pianeta dei cani coraggiosi è trasversale e non conosce pedigree. E infatti tra gli eroi a quattrozampe del terremoto di Amatrice si ricorda anche Laga, una bastardina che al fianco del suo conduttore, l'infermiere Carlo Grossi, scavò per ore tra i detriti per soccorrere il resto della famiglia. Insieme trovarono la moglie di Grossi, mal messa ma viva. Poi la cagnolina, col suo olfatto, individuò anche Anna, 21 anni, e Franco, 23 ma scoppiò in guaiti strazianti prima che fossero estratti dalle macerie: per loro non c'era più nulla da fare.Tra gli eroi a quattrozampe che hanno invece lavorato tra i detriti del World trade center dopo l'attentato dell'11 settembre il più famoso (è stato persino clonato) è Trakr, un pastore tedesco al servizio della Polizia di New York. Trakr e il suo padrone James Symington furono tra i primi soccorritori di Ground Zero dopo lo schianto degli aerei, e oltre ad aver aiutato con grande coraggio durante tutte le operazioni di ricerca, trovando tantissimi superstiti, hanno anche tirato fuori da oltre 9 metri di macerie l'ultimo uomo sopravvissuto al disastro. Il labrador di 4 anni Dayko, invece, nel 2016 salvò 7 persone scovandole sotto i detriti provocati dal terribile terremoto che colpì l'Ecuador il 17 aprile. Lavorò sodo al fianco dei vigili del fuoco che lo avevano addestrato, poi, compiuta la sua missione, morì stremato dalla fatica. E i media locali, nel giorno in cui gli furono dedicati funerali da eroe nazionale, lo salutarono come «il cane che ha dato la vita per il suo lavoro».
Anna Falchi (Ansa)
La conduttrice dei «Fatti vostri»: «L’ho sdoganato perché è un complimento spontaneo. Piaghe come stalking e body shaming sono ben altra cosa. Oggi c’è un perbenismo un po’ forzato e gli uomini stanno sulle difensive».
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Il capo del Consorzio, che celebra i 50 anni di attività, racconta i segreti di questo alimento, che può essere dolce o piccante.
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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L’ad del gruppo Lube Fabio Giulianelli: «Se si riaprisse il mercato russo saremmo felici. Abbiamo puntato sulla pallavolo 35 anni fa: nonostante i successi della Nazionale, nel Paese mancano gli impianti. Eppure il pubblico c’è».