2022-12-10
Il rivoluzionario ancorato alla tradizione
Il primo a sinistra Dino Villani (Wikipedia)
Con le sue invenzioni, Dino Villani ha cambiato il mondo della comunicazione dolciaria, ma anche del costume e della società del tempo. Ma non ha mai dimenticato le radici della sua terra mantovana. Compresi i suoi simboli, come la scodella bianca.Nella prima tappa del viaggio lungo il geniale mondo di Dino Villani si è narrato di molte delle sue invenzioni che hanno rivoluzionato il mondo della comunicazione, e non solo nel settore della dolciaria, panettone e colomba, ma anche nel mondo del costume e della società del tempo, pensiamo al concorso Miss Italia. Eppure, pur operando ai vertici della comunicazione con tecniche innovative che hanno lasciato segni indelebili, non ha mai dimenticato le radici della sua terra mantovana, con le tradizioni, i valori di una civiltà contadina che la progressiva modernizzazione rischiava di far scomparire. Testimone Cesare Zavattini, compagno di tavola nelle trattorie milanesi e non solo. «L’itinerario di Dino Villani è un lungo e continuo ritorno sul Po, come gli storioni alla sorgente». Potrebbe sembrare l’ennesima fantasia dello sceneggiatore del miglior neorealismo italiano, ma sono le stesse pagine dei diari di Villani a confermarcelo. «Nelle ore libere andavo in giro in biciletta percorrendo le stradicciole di campagna osservando la vita dei locali», tanto che, nelle brumose giornate invernali «andavo nelle stalle dove si riuniscono d’inverno le donne a filare, mentre in estate mi divertivo nelle aie dove si trebbia il grano, si sfoglia cantando il granoturco». Era inevitabile che Dino Villani diventasse sicuro affidamento per chi, all’invasione della modernità nella vita quotidiana, volesse dare valore alla memoria di antiche tradizioni senza tempo e i simboli relativi, come ad esempio la scodella bianca. La semplice scodellina, contenitore di diverse meraviglie, era stata progressivamente sostituita dalle tazze con il manico. Ma vuoi mettere godersi una bella zuppa fumante cui dava sostanza il pane raffermo tagliato a fette. Oppure i cappelletti conditi con il lambrusco, il classico bevr’in vin, una buona tradizione consumata nelle osterie prima di tornare a casa dal mercato dove in molti di recavano all’alba, o dopo la messa festiva, naturalmente pedalando di lena in biciletta dalla campagna alla piazza del paese. Bevr ’in vin buona tradizione familiare per le grandi occasioni, battesimi o matrimoni. Lo si sorbiva prima di mettersi a tavola, gli uomini in ordine sparso in piedi davanti alle finestre, mai seduti, perché non è detto che questo uso potesse essere gradito a qualche eventuale foresto. Scodella bianca protagonista anche a tavola, altro che calici di cristallo di Boemia, perché solo così si potevano assaporare i rustici profumi del lambrusco. Tanto è vero che i commercianti e mediatori di vino quando si recavano nelle cantine per valutare l’acquisto dal vignaiolo di turno lo valutavano con regolare scodella bianca. Scodelle bianche esposte a pile nei negozi di pentolame come nei carretti degli ambulanti. A Suzzara uno storico locale di tradizione, il Cavallino Bianco, gestito dalla sorella Dina Villani. Qui Dino spesso portava amici e conoscenti per far gustare loro l’anima della vera cucina mantovana. Un giorno capitò Orio Vergani, un maestro del giornalismo sportivo, tra i suoi allievi Gianni Brera, amante della cucina di solida tradizione. Milanese doc aveva esperienza dei tortelli alle erbe e ricotta, ma le sue papille furono prese in contropiede dai tortelli farciti di zucca, un tempo piatto della vigilia di Natale. Ne fu così colpito che, quando andò a trovare Dino Villani nella sua abitazione milanese, pose una sola condizione. Riassaggiarli. Ne fu così soddisfatto che invitò l’amico pubblicitario ad aiutarlo a realizzare un sogno che coltivava da tempo, ovvero il recupero e valorizzazione della cucina delle specialità regionali. Fu (anche) grazie ai tortelli di zucca che Vergani, con Villani, Dino Buzzati, Arnoldo Mondadori e pochi altri fondò nel luglio del 1953 l’Accademia italiana della cucina. Orio Vergani personaggio di originale talento, per certi versi fuori dagli schemi. Infatti l’attuale presidente nazionale dell’Accademia, Paolo Petroni, nel tratteggiarne la figura riprende una frecciatina che gli dedicò quel toscanaccio di Indro Montanelli. «Orio Vergani del Giro d’Italia e di quello di Francia sapeva tutto, meno chi avesse vinto la tappa, perché per strada si era fermato ad una trattoria famosa per i suoi arrosti o il baccalà». Ecco perché assumono particolare valore i tortelli di zucca che gli fece gustare l’amico Dino Villani. Per il quale stupire i palati con gustose sorprese era la normalità. Come quella volta che ospitò Angelo Berti, talentuoso ristoratore scomparso anzitempo assieme al quale, tra le svariate iniziative, aveva organizzato uno strepitoso pranzo rinascimentale abbinato alla grande mostra dedicata ad Andrea Mantegna presso il Palazzo Ducale di Mantova. Non certo un palato di primo pelo. Eppure Roberta, la signora Villani, cuoca talentuosa, riuscì a stupirlo non tanto con i grandi classici quali i cappelletti in brodo, il lesso misto come la faraona arrosto, ma con l’intrigante abbinamento con le salse tricolori di contorno. Quella bianca con il rafano; verde con peperone e filetto di acciuga sotto sale, anche se il botto avvenne con quella rossa, un mix intrigante di salsa di pomodoro, verdure, uno spicchio d’aglio, aceto forte e pepe. Al termine del godurioso pranzo alla domanda di rito «desidera il bis di qualcosa», un timido Berti chiese due cucchiaiate di salsa rossa, accompagnata da relativa ricetta. Immaginatevi donna Roberta, rossa in viso per l’emozione, scrivere su di un pezzo di carta la ricetta che il famoso ristoratore le aveva chiesto. In quegli anni Dino Villani collaborava con Carlo Erba che, tra le diverse attività, valutava se entrare nella grande distribuzione alimentare. Il nostro propose ai vertici la salsa rossa by lady Villani ma, pur molto gradita, posta la presenza delle verdure nella preparazione, per la difficoltà di mantenerle integre per la lunga conservazione non approdarono ai bancali della spesa. Tra i suoi numerosi scritti, sorta di amarcord della tradizione, anche golosa, Dino Villani non manca di citare il mattarello. Ne esistevano due tipi. «Quello cittadino, corto a due manici, che Petronilla brandiva per rincorrere Arcibaldo, e quello lungo senza manici, la canela, che le casalinghe di campagna usano per tirare una sfoglia larga e rotonda che sembra tracciata con il compasso». Canela strategica per preparare i cappelletti della sagra, quelli delle feste di paese arricchiti da uno stracotto di carni diverse. Cappelletti che Dino Villani poteva anche confezionare a mano libera quando passava a Suzzara dalla sorella e non si negava a dare un aiuto, senza formalismi, tanto che qualche cappelletto se lo mangiava anche crudo «se presentava qualche piccola imperfezione». Villani era un abile disegnatore e, nei suoi numerosi libri, accompagnava con immagini quanto andava a descrivere. Ad esempio i contadini che al lavoro in campagna avevano di conforto le zucche da vino, una varietale panciuta dal collo stretto, simile ad un fiasco, dalla corteccia dura e sottile, di una affidabile impermeabilità. Veniva chiusa dal «marluss», un tappo confezionato con il torsolo della pannocchia di granoturco sgranata. Quando il «non buttar via niente» non era facile slogan, ma sostanza quotidiana. Sui titoli di coda non possono mancare le dolci coccole di fine pasto, come ad esempio li mistochi, una preparazione portata a casa Villani dalla nonna Luigia, modenese. Un impasto di farina bianca, uvetta sultanina, una scorzetta di limone e un bicchierino di marsala. Il tutto poi fritto nella teglia, ma che restava morbido e gustoso anche freddo, il giorno dopo. Oppure il sugol, mosto bollito con farina bianca, posto a riposare nella scodella bianca per due giorni, una sorta di rustico budino. E che dire del flipun, frittelle di polenta cotte sotto la cenere dei camini anziché fritti. Goduria pura.
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