2020-02-07
«Il rischio povertà continua ad aumentare»
Il presidente dell'Istat Gian Carlo Blangiardo, a un anno dalla nomina: «Il reddito di cittadinanza? Non commento scelte politiche. La nostra economia è sempre più debole e siamo vicini alla recessione. La crisi della natalità ci mette in difficoltà e non sarà l'immigrazione a risolverla».«Non è colpa dell'Istat se nel paniere sono state inserite le auto elettriche, i monopattini, ecc. Non c'è alcuna richiesta europea. La verità è un'altra». Quale presidente Blangiardo? «Ogni anno l'Istat seleziona i prodotti da inserire nel paniere utilizzato per rilevare i prezzi al consumo e quindi stimare l'inflazione. I criteri sono rigorosi, oggettivi e quantitativi. Ricordo che il paniere è costituito da 1700 prodotti elementari ed ogni anno inseriamo delle novità in rapporto alla loro incidenza sul consumo».È arrabbiato, ma non troppo il presidente Gian Carlo Blangiardo. È abituato alle critiche e alle polemiche dei media, anche quando il suo istituto non ha alcuna colpa. Quando sono stato invitato in via Balbo, nella storica sede dell'Istat, era il 4 febbraio. Esattamente un anno fa Gian Carlo Blangiardo (il 4 febbraio 2019) varcava il portone di questo austero palazzo per cominciare il suo lavoro di presidente. Aveva 70 anni e insegnava demografia all'Università Bicocca di Milano dal 1998. Ma si era anche occupato, come ricercatore, all'Università statale e alla Cattolica di Milano, di metodologia statistica, sempre di demografia e di statistiche sociali . È sempre stato considerato un accademico, mai militante in alcun partito o movimento politico. Come studioso di demografia veniva interpellato spesso dagli imprenditori, sindacati (soprattutto Cgil e Cisl), università e dai più diversi centri studi. Eppure un anno fa il professor Blangiardo era stato oggetto di una campagna di stampa (soprattutto del gruppo Espresso-Repubblica) solo perché era stato proposto dal governo gialloblù alla presidenza dell'Istat e forse per il fatto di essere milanese veniva definito da quei giornali «l'ultrà leghista di Salvini». Ma all'istituto nessuno si è accorto che il presidente abbia mai manifestato simpatie leghiste. Comunque non esistono dichiarazioni, interviste o altri atti che possono testimoniare la sua presunta «fede leghista». In ogni caso, anche se si fosse manifestato un intento politico di quel tipo non credo si possa classificare come un reato. In passato, più di un presidente di sinistra ha scavalcato senza alcuna critica pubblica il campo della neutralità. Qualcuno si è distinto come militante di sinistra e uno è diventato successivamente ministro (seppure tecnico) in un governo politico. Ma il professor Blangiardo è sereno e risponde a tutte le domande.Presidente, l'Italia è ferma: l'inflazione allo 0,2% da novembre 2018 a novembre 2019; il pil è salito dello 0,1% nel terzo trimestre 2019 ; è calato il clima di fiducia delle imprese industriali (sotto i cento punti a fine 2019); la disoccupazione sempre vicina al 10%. Stiamo scivolando verso una stagnazione, che può diventare permanente, se non recessione?«Certo, dalla stagnazione si può arrivare alla recessione. L'attuale andamento della nostra economia è altalenante. Il sistema economico e, in particolare, quello industriale, è sempre più debole. Prima della flessione del quarto trimestre dell'anno scorso il pil era cresciuto dello 0,5%. Più che di stagnazione parlerei quindi di crescita molto debole. Ma con la “caduta" del quarto trimestre, si è registrata una crescita zero, rispetto alla fine del 2018, e uno strascico negativo sul 2020. C'è comunque da ricordare che la flessione del pil nel nostro Paese è stata determinata anche da fattori negativi, ciclici e congiunturali, comuni a diversi Paesi dell'area dell'euro, come la Francia, che ha subito una flessione dello 0,1%. In sostanza, vorrei sottolineare che se il pil non cresce, la struttura economica diventa sempre più debole, più a rischio». È facile chiederle: a questo punto quale può essere la terapia per risollevare le nostre sorti?«Credo che ognuno deve fare la propria parte, senza ipocrisie e fughe in avanti, senza demagogie». Un esempio? «La povertà è diminuita o no? Le misurazioni statistiche di questo fenomeno sono molto complesse. Nel corso del 2019 sono state messe in campo misure che potrebbero diminuirla. Una risposta certa l'avremo a maggio a conclusione di una rilevazione attualmente in corso».Poi c'è il grande problema della produttività che non cresce più.«Certo, non solo la produttività, ma anche la capacità di investire. Abbiamo analizzato il fenomeno, che penalizza soprattutto le piccole imprese del nostro Paese: queste difficoltà si sono accentuate soprattutto a partire dal 2011. Aggiungiamo che da un nostro rapporto risulta che nel 2018 la produttività del lavoro è diminuita dello 0,3% e nel periodo 2014-18 è aumentato il divario della crescita della produttività del lavoro tra l'Italia (+0.3% annuo) e l'area euro (+1%). La produttività è quindi diminuita in quanto il pil è cresciuto (+0,1) meno delle ore lavorate (+0,4); il secondo dato conferma il primo anche nel lungo periodo e certifica il divario crescente tra l'Italia e l'area euro».Ma perché non si discute mai di un problema centrale, come è appunto la produttività? «È vero. La ragione credo vada ricercata nella crisi, ormai irreversibile, del nostro sistema industriale basato dal dopoguerra sulle piccole e medie imprese che possono essere in difficoltà di competitività nei nuovi scenari globali. In passato qualche presidente del Consiglio esaltava questo modello. Ma in seguito la forte crescita delle innovazioni tecnologiche e l'esigenza di spostare le produzioni verso unità produttive di maggiori dimensioni ha fatto entrare in crisi l'attuale sistema». E i governi, che si sono alternati negli ultimi anni, non sono stati in grado di dare una concreta risposta ai problemi legati alla competitività internazionale. Ma del resto, non si tratta solo di questo. Ad esempio, oltre 100 miliardi di euro rimangono nelle casse della pubblica amministrazione perché non si riescono a investire in opere pubbliche, già progettate o iniziate, di cui abbiamo molto bisogno.«Questo sarebbe il modo più efficace per incrementare il pil. Ma si tratta di scelte politiche su cui, per il mio ruolo, preferisco non esprimere pareri».Ma un Paese che non crea più ricchezza e sceglie di incrementare il debito pubblico (aumenta ormai a un ritmo di 60-70 miliardi l'anno), si può permettere spese gigantesche come il reddito di cittadinanza e quota 100? «Vorrei precisare che, dalle indagini Istat, il debito pubblico è aumentato di 36,5 miliardi di euro nel 2015, di 46 nel 2016, di 43,4 nel 2017 e di 51,6 nel 2018. Il livello del debito pubblico, a fine 2018, è pari a 2380 miliardi euro. Ovviamente sul deficit pubblico pesa molto la spesa per interessi che però, negli ultimi quattro anni, appare decrescente, passando dai 68,1 miliardi del 2015 ai 64,7 miliardi del 2018».E i costi per il reddito di cittadinanza? È stato calcolato che questa spesa assorbirà nel triennio 2020-2022 ben 26 miliardi di euro, che aggiunti ad altri 9,7 miliardi che dovrebbero essere destinati alle politiche attive per il lavoro fanno più di 35 miliardi (fonte Uninpresa). Per quota 100 le cifre sono più ridotte: 23 miliardi investiti in quattro anni dal 2019 al 2022 (fonte Banca d'Italia).«Purtroppo non abbiamo ancora dati precisi su queste due spese sociali. Ma anche in questi casi vorrei precisare che si tratta di scelte politiche del governo e del parlamento».La spesa previdenziale certamente cresce. «In totale quella pensionistica ha raggiunto i 293 miliardi di euro l'anno (+2,2% rispetto al 2017), con una incidenza sul pil del 16,6%. I beneficiati sono 16 milioni, con un importo medio lordo di 1469 euro mensili per quelle di vecchiaia (17.634 l'anno), mentre l'assegno non supera i 500 euro mensili per le pensioni assistenziali. In media si calcolano 259 pensionati ogni 1000 abitanti. Si è ridotta la percentuale (di sei punti) tra gli occupati e i pensionati: 606 in pensione ogni 1000 con un lavoro (erano 683 nel 2000). Questo significa che la situazione è peggiorata e che il rischio povertà è aumentato».Nonostante il reddito di cittadinanza. E sono aumentati anche gli italiani che si sono trasferiti all'estero per lavoro. È stato calcolato che dal 2002 al 2017 sono emigrate dal Mezzogiorno oltre due milioni di persone (fonte Svimez). Una parte è rientrata, ma il saldo è comunque negativo.«Anche l'Istat ha accertato che negli ultimi dieci anni 816 mila italiani sono emigrati. Solo nel 2018 sono stati 157.000 (+1,2% rispetto al 2017). E quel che è peggio - a differenza delle migrazioni del passato - è che il 73% hanno più di 25 anni e che, di questi, quasi tre su quattro hanno un livello di istruzione medio-alto. È curioso che dalla Regione più industrializzata del nostro Paese (la Lombardia) emigrano più italiani; seguono Veneto, Sicilia, Lazio e Piemonte». E l'emigrazione sud-nord è sempre alta.«Noi la chiamiamo “mobilità interna". Negli ultimi dieci anni sono stati un milione e 115.000 i lavoratori che si sono spostati dal Mezzogiorno nelle Regioni del centro-nord. Almeno 117.000 sono i trasferimenti di residenza sud-nord. Solo dalla Sicilia e dalla Campania si sono trasferiti al nord 8500 giovani laureati».Soltanto di recente c'è una maggiore attenzione, almeno nel dibattito pubblico. E i politici hanno scoperto questo problema. Anzi qualcuno ha cercato di giustificare l'immigrazione con la riduzione costante della nostra popolazione.«Allora precisiamo che dal 1861 il numero dei nati in Italia è stato sempre alto, ma negli anni più recenti si è interrotto. Solo in un anno dai primi nove mesi del 2019, rispetto allo stesso periodo del 2018, la natalità si è ridotta del 2%, che significa 10.000 nati in meno . Nell'intero anno 2019 si sono registrati 193.000 nati in meno e almeno altrettanti nel 2020».L'immigrazione non compensa questi cali di natalità?«No. Complessivamente abbiamo perso 400.000 persone rispetto alla popolazione passata. È un fenomeno che ci impoverisce».Soprattutto se aggiungiamo l'invecchiamento della nostra popolazione.«Certo, ogni giorno che passa… Le coppie fanno fatica a fare figli. Pensano prima al lavoro, a farsi una casa e dopo programmano un figlio. Ma spesso sono di età avanzata; al massimo riescono a fare solo un figlio… Si chiama tutto questo la crisi del primogenito».Come intervenire?«È un problema aperto in tutta Europa. Diversi Paesi (Gran Bretagna, Francia, Germania, ecc.) cercano di fronteggiare questo fenomeno incentivando al massimo le giovani coppie a procreare (contributi economici, detrazioni fiscali, servizi gratuiti ed efficienti, ecc.). Noi siamo fermi al bonus bebè e penalizziamo il ceto medio, oggi il più tartassato».
Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato - ha osservato - chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
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Intervistato da Maurizio Belpietro, direttore de La Verità, il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Fratin non usa giri di parole: «Io non sono contro l’elettrico, sono convinto che il motore elettrico abbia un futuro enorme. Ma una cosa è credere in una tecnologia, un’altra è trasformarla in un’imposizione politica. Questo ha fatto l’Unione Europea con la scadenza del 2035». Secondo Pichetto Fratin, il vincolo fissato a Bruxelles non nasce da ragioni scientifiche: «È come se io oggi decidessi quale sarà la tecnologia del 2040. È un metodo sovietico, come le tavole di Leontief: la politica stabilisce dall’alto cosa succederà, ignorando il mercato e i progressi scientifici. Nessuno mi toglie dalla testa che Timmermans abbia imposto alle case automobilistiche europee – che all’epoca erano d’accordo – il vincolo del 2035. Ma oggi quelle stesse industrie si accorgono che non è più sostenibile».
Il motore elettrico: futuro sì, imposizioni no. Il ministro tiene a ribadire di non avere pregiudizi sulla tecnologia: «Il motore elettrico è il più semplice da costruire, ha sette-otto volte meno pezzi, si rompe raramente. Pensi al motore del frigorifero: quello di mia madre ha funzionato cinquant’anni senza mai guastarsi. È una tecnologia solida. Ma da questo a imporre a tutti gli europei di pagare la riconversione industriale delle case automobilistiche, ce ne corre». Colonnine e paradosso dell’uovo e della gallina. Belpietro chiede conto del tema infrastrutturale: perché le gare per le colonnine sono andate deserte? Pichetto Fratin replica: «Perché non c’è il mercato. Non ci sono abbastanza auto elettriche in circolazione, quindi nessuno vuole investire. È il classico paradosso: prima l’uovo o la gallina?». Il ministro racconta di aver tentato in tutti i modi: «Ho fatto bandi, ho ripetuto le gare, ho perfino chiesto a Rfi di partecipare. Alla fine ho dovuto riconvertire i 597 milioni di fondi europei destinati alle colonnine, dopo una lunga contrattazione con Bruxelles. Ma anche qui si vede l’assurdità: l’Unione Europea ci impone obiettivi, senza considerare che il mercato non risponde».
Prezzi eccessivi e mercato bloccato. Un altro nodo è il costo delle auto elettriche: «In Germania servono due o tre annualità di stipendio di un operaio per comprarne una. In Italia ce ne vogliono cinque. Non è un caso che fino a poco tempo fa fossero auto da direttori di giornale o grandi manager. Questo non è un mercato libero, è un’imposizione politica». L’errore: imporre il motore, non le emissioni. Per Pichetto Fratin, l’errore dell’Ue è stato vincolare la tecnologia, non il risultato: «Se l’obiettivo era emissione zero nel 2035, bastava dirlo. Ci sono già veicoli diesel a emissioni zero, ci sono biocarburanti, c’è il biometano. Ma Bruxelles ha deciso che l’unica via è l’elettrico. È qui l’errore: hanno trasformato una direttiva ambientale in un regalo alle case automobilistiche, scaricando il costo sugli europei».
Bruxelles e la vicepresidente Ribera. Belpietro ricorda le dichiarazioni della vicepresidente Teresa Ribera. Il ministro risponde: «La Ribera è una che ascolta, devo riconoscerlo. Ma resta molto ideologica. E la Commissione Europea è un rassemblement, non un vero governo: dentro c’è di tutto. In Spagna, per esempio, la Ribera è stata protagonista delle scelte che hanno portato al blackout, puntando solo sulle rinnovabili senza un mix energetico». La critica alla Germania. Il ministro non risparmia critiche alla Germania: «Prima chiudono le centrali nucleari, poi riaprono quelle a carbone, la fonte più inquinante. È pura ipocrisia. Noi in Italia abbiamo smesso col carbone, ma a Berlino per compiacere i Verdi hanno abbandonato il nucleare e sono tornati indietro di decenni».
Obiettivi 2040: «Irrealistici per l’Italia». Si arriva quindi alla trattativa sul nuovo target europeo: riduzione del 90% delle emissioni entro il 2040. Pichetto Fratin è netto: «È un obiettivo irraggiungibile per l’Italia. I Paesi del Nord hanno territori sterminati e pochi abitanti. Noi abbiamo centomila borghi, due catene montuose, il mare, la Pianura Padana che soffre già l’inquinamento. Imporre le stesse regole a tutti è sbagliato. L’Italia rischia di non farcela e di pagare un prezzo altissimo». Il ruolo del gas e le prospettive future. Il ministro difende il gas come energia di transizione: «È il combustibile fossile meno dannoso, e ci accompagnerà per decenni. Prima di poterlo sostituire servirà il nucleare di quarta generazione, o magari la fusione. Nel frattempo il gas resta la garanzia di stabilità energetica». Conclusione: pragmatismo contro ideologia. Nelle battute finali dell’intervista con Belpietro, Pichetto Fratin riassume la sua posizione: «Ridurre le emissioni è un obiettivo giusto. Ma un conto è farlo con scienza e tecnologia, un altro è imporre scadenze irrealistiche che distruggono l’economia reale. Qui non si tratta di ambiente: si tratta di ideologia. E i costi ricadono sempre sugli europei.»
Il ministro aggiunge: «Oggi produciamo in Italia circa 260 TWh. Il resto lo importiamo, soprattutto dalla Francia, poi da Montenegro e altri paesi. Se vogliamo davvero dare una risposta a questo fabbisogno crescente, non c’è alternativa: bisogna guardare al nucleare. Non quello di ieri, ma un nuovo nucleare. Io sono convinto che la strada siano i piccoli reattori modulari, anche se aspettiamo i fatti concreti. È lì che dobbiamo guardare». Pichetto Fratin chiarisce: «Il nucleare non è un’alternativa alle altre fonti: non sostituisce l’eolico, non sostituisce il fotovoltaico, né il geotermico. Ma è un tassello indispensabile in un mix equilibrato. Senza, non potremo mai reggere i consumi futuri». Gas liquido e rapporti con gli Stati Uniti. Il discorso scivola poi sul gas: «Abbiamo firmato un accordo standard con gli Stati Uniti per l’importazione di Gnl, ma oggi non abbiamo ancora i rigassificatori sufficienti per rispettarlo. Oggi la nostra capacità di importazione è di circa 28 miliardi di metri cubi l’anno, mentre l’impegno arriverebbe a 60. Negli Usa i liquefattori sono in costruzione: servirà almeno un anno o due. E, comunque, non è lo Stato a comprare: sono gli operatori, come Eni, che decidono in base al prezzo. Non è un obbligo politico, è mercato». Bollette e prezzi dell’energia. Sul tema bollette, il ministro precisa: «L’obiettivo è farle scendere, ma non esistono bacchette magiche. Non è che con un mio decreto domani la bolletta cala: questo accadeva solo in altri regimi. Noi stiamo lavorando per correggere il meccanismo che determina il prezzo dell’energia, perché ci sono anomalie evidenti. A breve uscirà un decreto con alcuni interventi puntuali. Ma la verità è che per avere bollette davvero più basse bisogna avere energia a un costo molto più basso. E i francesi, grazie al nucleare, ce l’hanno a prezzi molto inferiori ai nostri».
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Giancarlo Giorgetti (Ansa)
Giorgetti ha poi escluso la possibilità di una manovra correttiva: «Non c'è bisogno di correggere una rotta che già gli arbitri ci dicono essere quella rotta giusta» e sottolinea l'obiettivo di tutelare e andare incontro alle famiglie e ai lavoratori con uno sguardo alle famiglie numerose». Per quanto riguarda l'ipotesi di un intervento in manovra sulle banche ha detto: «Io penso che chiunque faccia l'amministratore pubblico debba valutare con attenzione ogni euro speso dalla pubblica amministrazione. Però queste sono valutazioni politiche, ribadisco che saranno fatte solo quando il quadro di priorità sarà definito e basta aspettare due settimane».
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