Il Pd riparte da una cena in famiglia ma a tavola si portano tutti il veleno

- Matteo Orfini: rifondiamo il partito. Una mossa per rinviare il congresso e dare tempo a Matteo Renzi. E Maurizio Martina la stoppa: «Primarie subito». Carlo Calenda si gioca la carta conviviale: «Invito Matteo, Gentiloni e Minniti». E parte l'ironia.
- Arrivano i primi frutti da Maria Elena Boschi in Alto Adige: nasce il patto Lega-Svp. Il movimento autonomista trentino, che garantì il posto a Meb, visto il tracollo dei democratici valuta un asse con il Carroccio.
Lo speciale comprende due articoli.
«Sciogliamo il partito». No, «vediamoci a cena da me». Nell'ormai cronico psicodramma del Pd, il weekend appena trascorso ha raggiunto vette surreali memorabili. Ha cominciato Matteo Orfini, che del partito sarebbe presidente, oltre che indimenticabile compagno di Playstation di Matteo Renzi. Orfini, allineatissimo al Bullo, nonché stratega di alcuni dei più recenti e clamorosi autogol del Pd (a partire dalla gestione della Commissione banche), ha fatto esplodere quella che doveva essere una bomba, ma si è rivelato un goffo petardo: «Il Pd, così com'è, è inutile, non funziona. Stracciamo lo statuto e ricostruiamo con chi vuole davvero fare opposizione». Ma la doppia furbata l'hanno capita tutti. Primo obiettivo orfinesco: rinviare il congresso a dopo le Europee, impedendo una conta rapida nella quale i renziani non hanno ancora trovato il candidato e in cui quindi Nicola Zingaretti (che al Giglio Tragico non piace) potrebbe avere vita facile. Invece, allungando il brodo e mischiando le carte - questo il retropensiero attribuito a Orfini - si guadagnerebbero i mesi utili a favorire il ritorno di Renzi, che - autofomentato dai suoi comizi e dal docufilm su Firenze - continua a pensare solo a sé stesso. Secondo obiettivo: incastrare in un processo costituente voci esterne (ad esempio, Massimo Cacciari e Roberto Saviano) impedendo loro di fare da battitori liberi in grado di bersagliare ogni giorno - da fuori - la dirigenza del partito.
Ma Orfini si è preso una sequenza di no, da Zingaretti fino a Lorenzo Guerini, certo non ostile a Renzi, e che però, vedendo la mala parata, ha tenuto a ribadire che «il percorso con il congresso prima delle europee va rispettato in tutte le sue scadenze». E, nella serata di ieri, è arrivata la dichiarazione del segretario dem Maurizio Martina, che alla festa dell'Unità di Genova ha precisato: «Il congresso ci sarà, faremo le primarie a gennaio».
Unico risultato concreto della sortita dello stratega barbuto? Ulteriore smarrimento dei militanti, il feroce sarcasmo di Matteo Salvini («Scioglimento del Pd? Condivido»), l'ironia di numerosi osservatori sul fatto che il dissolvimento sia già in atto, e l'umorismo romanesco su Twitter del simpatico Osho, che ha immaginato un dialogo Renzi-Orfini in questi termini: «Tocca scioje er partito», dice il primo, e l'altro risponde: «Oppure lo ristrutturamo e ce famo 'n bed & breakfast». Insomma, un raro caso in cui un funerale non ha neanche un elemento di solennità: ridono tutti.
Il secondo evento della giornata parte da uno sconsolato tweet di Giuliano da Empoli, animatore di un think tank filo-renziano: «La Storia non sarà clemente con i quattro leader Renzi, Gentiloni, Calenda, Minniti, che condividono la stessa linea politica, se per ragioni egoistiche non riusciranno a sedersi intorno a un tavolo per impedire la deriva del Pd verso l'irrilevanza e la sottomissione al M5s». Il doloroso tweet (con tanto di Storia scritta in maiuscolo) è stato rilanciato dalla Stampa di Torino, e ieri Carlo Calenda ha diramato le convocazioni, non per un'apericena a Capalbio, ma per un incontro a casa sua. «Hai ragione Giuliano», ha twittato. «Questo è un invito formale. Vediamoci. Martedì da me a cena. Invito pubblico per renderlo più incisivo, ma risposta privata va benissimo».
Nell'attesa che parta la lite pure sul menu, anche in questo caso la reazione sui social network non si è fatta attendere. Il solito Osho si è chiesto: «Pigiama party?», un profilo fake di Paolo Gentiloni ha assicurato «Io porto le pastarelle», mentre un osservatore pure non ostile alla sinistra, il giornalista Stefano Menichini, ha maramaldeggiato: «Ma si vede la Champions?», e, per chi non avesse capito l'aria, ha anche aggiunto che martedì sera gioca l'Inter «se il Pd si batte per cause perse». Certo, almeno un paio di cose lasciano sgomenti.
Nel primo caso, l'idea che qualche escamotage politicista (data del congresso, nome del partito) possa essere efficace presso un'opinione pubblica che ha mostrato un rigetto totale verso i dirigenti del Pd.
I quali continuano a immaginarle tutte: tranne l'ipotesi di andare a casa e favorire un vero ricambio.
Nel secondo caso, balza agli occhi la sincera ammissione (Giuliano da Empoli è un amico di Renzi, non un suo odiatore) di essere davanti a capricci, ripicche, antipatie, personalismi, di quello che dovrebbe essere un gruppo dirigente. Come se si trattasse di includere o escludere qualcuno dall'invito a una festa tra liceali.
In tutto questo, dei poveri elettori non parla nessuno: sono trattati al massimo come spettatori della cena dei quattro.
E non c'è affatto da ridere: un'opposizione funzionante e un'alternativa credibile sarebbero ingredienti fondamentali di una democrazia sana.
Daniele Capezzone
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