
Siamo alla scissione: Matteo Renzi fonderà un movimento d'ispirazione macroniana, nonostante il flop in Francia, sperando di raschiare anche qualche ex voto di Forza Italia. Fra i dem, invece, verrà eletto il leader di un partitino: la sinistra è definitivamente rottamata.È ufficiale: il Pd è morto. Da anni in agonia, attorno al capezzale del principale partito della sinistra nel tempo si sono alternati in tanti. Tuttavia il consulto non è servito a evitare la prematura dipartita. La cara salma sarà traslata nei prossimi mesi in un congresso, ove con tutti gli onori del caso saranno celebrate le esequie. In genere a dare annuncio del triste evento sono i più stretti parenti del defunto e, come da consuetudine, ieri i nomi più familiari del Partito democratico non si sono sottratti al triste rito. Marco Minniti, ex ministro dell'Interno e tra i più autorevoli candidati alla successione di Maurizio Martina, ha fatto circolare su mezza stampa italiana la notizia che intende ritirarsi dalla corsa per l'elezione del segretario. Pur senza aver rilasciato una sola dichiarazione, l'ex capo del Viminale ha consentito che si scrivesse della sua irritazione per il comportamento di Matteo Renzi, il quale dopo averlo spinto al gran passo della candidatura si prepara a uscire dal Pd per fondare un suo movimento in concorrenza con la casa madre. L'ex componente della banda dei Lothar (attorno a Massimo D'Alema, all'epoca presidente del Consiglio, c'erano, oltre a Minniti, Fabrizio Rondolino, Nicola Latorre e Claudio Velardi) si sarebbe sentito preso per i fondelli. Convinto non si sa da chi, forse dall'ambizione, a scendere in campo, l'ex ministro rischia di partecipare a una corsa fratricida per poi ritrovarsi alla guida di un partito striminzito, che privato della presenza dei renziani ha buone probabilità di finire sotto il 10%. Minniti a questo punto medita il passo indietro, lasciando che a scannarsi sia il duplex Martina-Richetti contro il governatore del Lazio Nicola Zingaretti. Una corsa tra perdenti, perché se da un lato pur mettendosi in due Martina e Richetti non fanno un segretario, dall'altra il fratello del commissario Montalbano non va molto lontano dal 20% della sinistra interna che, se raffrontato ai voti dell'intero Pd, significa un 4% scarso. Insomma, gli aspiranti leader del grande partito della sinistra sono dei lillipuziani in fatto di consensi ed è difficile immaginarli alla guida di una futura coalizione di centrosinistra.Tuttavia se il Pd lo si può dare per perso, altrettanto si può dire del resto, in particolare del futuro partito di Renzi. Che l'ex presidente del Consiglio ed ex segretario lavorasse a una Cosa sua, senza più doversi confrontare con le minoranze e con le direzioni centrali è cosa nota. Fummo proprio noi, sulla Verità, a parlarne per primi e addirittura a segnalare la nascita dei comitati civici. Il disegno è chiaro: se non può più essere segretario del Pd, neanche per interposta persona, Renzi vuol fare il segretario di un altro partito. La poltrona di lìder maximo il Rottamatore l'ha dovuta lasciare a causa delle troppe sconfitte, ma fosse stato per lui non se ne sarebbe andato. Nei mesi seguiti all'addio, Renzi ha provato a cercare di fare il segretario per interposta persona, imbullonando i suoi uomini alle poltrone chiave, ma poi deve aver capito che l'operazione non gli sarebbe riuscita. Minniti, che doveva essere il prescelto per fare il burattino del senatore semplice di Scandicci, ha dimostrato una propensione a fare di testa propria che l'ex segretario non ha gradito. Dunque ha tirato fuori il vecchio progetto di un partito suo, alla Macron. Che lo faccia quando il presidente francese con il suo En marche si avvia sul viale del tramonto dovrebbe essergli di monito, ma come si sa Renzi non ha il dono di farsi dare lezioni da altri, fossero pure gli sconfitti. Risultato, anche lui vuole mettersi in marcia. Nessuno sa dire in quale direzione: forse a destra, per conquistare un po' di voti berlusconiani (per lo meno quelli rimasti), forse al centro, per recuperare gli elettori moderati che non votano più. A sinistra no, perché lì sono rimasti quattro gatti e il fallimento di Liberi e uguali lo dimostra. Renzi ci prova. Nei suoi piani lui vorrebbe prendere di più del Pd, per dimostrare di avere ancora la maggioranza e di essere l'unico che può guidare ciò che resta della sinistra. I sondaggi gli attribuiscono una percentuale attorno al 10-12%, probabilmente superiore al 10% che potrebbe prendere il Pd senza di lui. In realtà, finora le scissioni non hanno mai portato fortuna a chi le ha volute. Senza andare con la memoria ai tempi passati, quando a dividersi erano i comunisti o i socialisti, basta ripensare alla storia recente. Cossutta e Diliberto una volta lasciata Rifondazione comunista sono spariti dalla scena politica. La stessa cosa si è ripetuta con D'Alema e Bersani di recente. Non meglio è andata a Gianfranco Fini che capitanò Futuro e libertà. Casini, pur senza fondare un partito, è affondato da solo e ha dovuto chiedere asilo politico a Renzi dopo essere stato presidente della commissione sulle banche. Insomma, separarsi non porta bene e il rischio di partire con i sondaggi che ti danno al 12% per finire al 6 non è da sottovalutare. Comunque vada, una cosa è certa: se il Pd è morto, chi lo ha ucciso non sta meglio del partito. I titoli di coda si avvicinano.
(IStock)
Il tentativo politico di spacciare come certa la colpevolezza dell’uomo per i problemi del globo è sprovvisto di basi solide. Chi svela queste lacune viene escluso dal dibattito.
Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo un estratto della prefazione di Alberto Prestininzi al libro di Franco Battaglia, Guus Berkhout e Nicola Cafetta dal titolo «Clima, lasciamo parlare i dati» (21mo secolo, 228 pagine, 20 euro).
2025-11-28
La Cop30 fa solo danni. Nasce l’Inquisizione per chi non si allinea all’allarme sul clima
(Ansa)
L’Unesco crea un tribunale della verità sulla salute del pianeta. Parigi entusiasta e Ong in prima fila nella caccia al negazionista.
Mentre si smantellano le scenografie della sudata e inconcludente Cop30 di Belém, dal polverone emerge l’ennesima trovata antiliberale. L’Iniziativa globale per l’integrità delle informazioni sui cambiamenti climatici (sic), nata qualche mese fa da una trovata dell’Unesco, del governo brasiliano e delle Nazioni Unite, ha lanciato il 12 novembre la Dichiarazione sull’integrità delle informazioni sui cambiamenti climatici, stabilendo «impegni internazionali condivisi per affrontare la disinformazione sul clima e promuovere informazioni accurate e basate su prove concrete sulle questioni climatiche». Sul sito dell’Unesco si legge che l’iniziativa nasce «per contribuire a indagare, denunciare e smantellare la disinformazione relativa ai cambiamenti climatici, nonché a diffondere i risultati della ricerca».
L'Assemblea Nazionale Francese (Ansa)
L’Assemblea nazionale transalpina boccia all’unanimità l’accordo di libero scambio tra Ue e Sudamerica che nuoce agli agricoltori. Spaccatura nell’Unione e pressing della Commissione in vista della ratifica entro Natale. L’Italia, per una volta, può seguire Parigi.
Ogni giorno per Ursula von der Leyen ha la sua croce. Ieri non è stato il Parlamento europeo, che due giorni fa l’ha di fatto messa in minoranza, a darle un dispiacere, ma quello francese. L’Assemblée national ha votato praticamente all’unanimità una mozione che impegna il governo a bloccare qualsiasi trattativa sul Mercosur. Questa presa di posizione ha una tripla valenza: è contro Emmanuel Macron, che pur di salvare la faccia essendosi intestato «i volenterosi», deve farsi vedere ipereuropeista e dopo anni e anni di netta opposizione francese al trattato commerciale con Argentina, Brasile, Paraguay , Uruguay, Bolivia, Cile, Perù, Colombia, Ecuador, ha sostenuto che Parigi era pronta a dare il via libera; è un voto contro l’Europa dove già i Verdi all’Eurocamera si sono schierati apertamente per bloccare l’intesa al punto da inviare l’accordo al giudizio della Corte di giustizia europea; è un voto a salvaguardia degli interessi nazionali transalpini a cominciare da quelli degli agricoltori e delle piccole imprese.
«Stranger Things 5» (Netflix)
L’ultima stagione di Stranger Things intreccia nostalgia anni Ottanta e toni più cupi: Hawkins è militarizzata, il Sottosopra invade la realtà e Vecna tiene la città in ostaggio. Solo ritrovando lo spirito dell’infanzia il gruppo può tentare l’ultima sfida.
C'è un che di dissonante, nelle prime immagini di Stranger Things 5: i sorrisi dei ragazzi, quei Goonies del nuovo millennio, la loro leggerezza, nel contrasto aperto con la militarizzazione della cittadina che hanno sempre considerato casa. Il volume finale della serie Netflix, in arrivo sulla piattaforma giovedì 27 novembre, sembra aver voluto tener fede allo spirito iniziale, alla magia degli anni Ottanta, alla nostalgia sottile per un'epoca ormai persa, per l'ottimismo e il pensiero positivo.






