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2025-04-11
Il Pd: guai se la Meloni ottiene vantaggi per l’Italia da Trump
Donald Trump e Giorgia Meloni (Ansa)
Il giorno dell’incontro si avvicina. Giovedì prossimo Giorgia Meloni sarà alla Casa Bianca. Va dato atto che ci vuole un certo coraggio visto le ultime sparate di Donald Trump. Siamo però convinti che sia la mossa giusta. Non perché l’ha detto Carlo Calenda, unico delle opposizioni a non strumentalizzare la postura internazionale del premier, ma perché la trattativa è l’unica strada possibile con un levantino come il tycoon.
La scelta, come abbiamo già scritto, ha dato fastidio alla Francia. La quale ha fatto un passo indietro solo perché non ha titolo di intromettersi e perché affida al proprio soft power ben infiltrato lungo la Penisola il compito di intralciare le mosse del governo. Ma anche il Quirinale, nelle ultime ore, ha dato un messaggio molto importante. Si tratta della visita di Carlo d’Inghilterra a Roma. Con la scusa di festeggiare i 20 anni di matrimonio con Camilla ha fatto ciò che gli inglesi sono bravissimi a fare. Ha ricordato la storia di amicizia, la democrazia che ci lega (parlando in Aula) e si è limitato a omettere tutti gli interessi discordanti che abbiamo nei Balcani (basti pensare a quanto fa l’intelligence Uk in Kosovo) e che abbiamo avuto in Egitto (ricordiamo la vicenda Giulio Regeni). Ma adesso re Carlo III piace alla gente che piace e rappresenta l’alternativa a Trump.
Nulla da dire dal punto di vista della postura, ma se ciò diventa di nuovo un messaggio al governo per far sapere che non dovrebbe andare a trattare, allora c’è da dissentire. Primo. Il fatto che ieri Trump abbia ricordato di voler trattare dal punto di vista dei dazi la ue come un blocco unico, non significa che sul piatto della bilancia non vadano posti altre temi per aprire spiragli. Secondo, entrando nel merito di chi frena Meloni, la Francia, come abbiamo visto più volte nelle ultime settimane, punta chiaramente a rafforzare il proprio asse con Berlino e godere dei fondi comuni per il riarmo. L’ultimo esempio? La richiesta fatta l’altro ieri in sede di Consiglio di ulteriori fondi per il progetto dei satelliti Ue. Inutile dire che quei fondi andranno a un consorzio a trazione parigina in aggiunta a una ulteriore tranche da destinare a Eutelsat. Si capisce ancor meglio tutto il pressing contro il governo per non avviare il contratto con Starlink. Il timore della Francia e, a questo punto, anche dell’Inghilterra è che la Meloni, nel suo bilaterale, possa affrontare esattamente questi temi e avviare un dialogo per investimenti reciproci. Non sappiamo quali siano i faldoni nella valigetta del premier. A quanto risulta alla Verità, gli Stati Uniti hanno un particolare interesse per Fincantieri. Vorrebbero ragionare su una estensione delle attività Usa o nuove partnership. Certo, chiederanno impegno finanziario e potenziamento delle attività in loco che per Trump significano posti di lavoro. In cambio Meloni potrebbe chiedere maggiori investimenti delle Big Tech a partire da Aws, la società di Amazon che si occupa di cloud. Significherebbero più posti di lavoro per l’Italia.
Certo, sarà esimente il ruolo di Roma per fare blocco contro chi vuole inasprire (Parigi e Madrid) le barriere di ingresso alle società digitali. Un problema che viene visto solo sul versante Usa ma che affligge anche gli altri colossi. Non ci sono solo Dsa e Dma ma anche le complicazioni fiscali. Pensate alla notizia dell’altro ieri che riguarda Ion di Andrea Pignataro. L’accusa è di aver evaso mezzo miliardo 10 anni fa, cifra ora lievitata a 1,2 miliardi per gli interessi. La Gdf indaga, giustamente. Ma le norme vanno riviste e devono essere chiare per tutto il Continente e per tutte le società. Ciò per dire che è su questo che si dovrà fare leva se si vuole portare avanti in qualche modo la proposta zero dazi da entrambe i lati. Sappiamo bene che il calcolo fatto da Trump il giorno della conferenza stampa nel giardino delle rose somma mele e pere. Da un lato dazi veri e propri e dall’altro burocrazia, multe, tasse, vincoli. Difficile da quantificare in percentuale ma certamente fardelli a carico di imprese e consumatori. Lo zero dazi da entrambe i lati non si può fare se non si semplifica la burocrazia Ue. E, su questo, i socialisti sembrano non sentire ragioni. Insistono con il Green deal fino a estenderlo all’acciaio e all’alluminio con il Cbam. Questo è il ghiaccio sottile su cui si muoverà la Meloni anche se dalla sua potrebbero esserci altre carte. La mossa di Trump, compresa la retro innescata con la moratoria di 90 giorni, è sicuramente dettata dal timore del debito pubblico e dell’impennata del costo degli interessi, ma non cancella l’obiettivo principale. Puntare alla Cina e cercare di isolarla dal resto dell’Occidente. Questo è l’altro ghiaccio sottile su cui Meloni può trovarsi a pattinare. Certamente la Germania non vuole raffreddare ulteriormente i rapporti con Pechino ma a noi, in questo momento, può fare comodo. Uno dei temi sul tavolo il prossimo 17 aprile, a quanto risulta, sarebbe il rilancio dei progetti concordati lo scorso settembre con Larry Fink, ad di Blackrock. Tra questi, il loro ingresso nei porti italiani. Sarebbe la fine definitiva delle mire cinesi a partire da Taranto. Non sono dettagli ma un posizionamento internazionale di lungo termine. A Taranto si fa il futuro dell’eolico, della sovranità energetica che può finire in mano cinese e degli equilibri dei traffici mediterranei. Se le concessioni ora in mano ai turchi finissero a Pechino, sarebbe un segnale pessimo nelle relazioni Italia-Usa.
Il Pd tifa sempre contro. Non vuole che Giorgia porti a casa dei risultati
Non gli resta che sdraiarsi davanti al gate a Fiumicino il Giovedì santo. Bisogna impedire che fra una settimana Giorgia Meloni vada a Washington a incontrare Donald Trump per difendere le aziende italiane. Ed è immaginabile che l’opposizione si mobiliti nell’unico modo che le riesce: una bella manifestazione democratica, un sit-in stile Ultima generazione per non far partire l’aereo. Dalle parti del Nazareno l’allarme è totale. Scende in campo l’economista keynesiana Elly Schlein in prima persona: «Non è altro che una manovra di facciata, andare alla Casa Bianca con il cappello in mano non ha senso. L’incertezza sui dazi di Trump causa danno alle imprese, il governo ci dica cosa vuol fare».
Per la verità, la strategia dell’esecutivo è chiara: utilizzare il vantaggio competitivo di una legittima consonanza politica per cucire una strategia favorevole al made in Italy in tutte le sue forme. Ma al Pd questo non va bene, meglio la rissa che avrebbe come risultato il fallimento. La segretaria non si dà pace perché «serve che l’Europa si muova in sintonia». Ciò che va bene per Bruxelles deve andare bene per l’Italia; è il sentimento profondo, autenticamente anti-italiano, che affiora ancora una volta fra i dem, pronti per interessi di bottega (vedi sondaggi elettorali) a voltare le spalle all’economia nazionale.
Tre mesi di dilazione saranno utili per muovere la diplomazia con forza ed è questo l’obiettivo del viaggio a Washington di Meloni. Ma al Nazareno viene visto come fumo negli occhi. Non sapendo a cosa aggrapparsi, Schlein chiede una svolta surreale: «Palazzo Chigi ha parlato solo con gli imprenditori, noi vogliamo che vengano coinvolti anche i sindacati». Con quale ruolo è impossibile sapere, forse perché in una manifestazione di piazza sventolerebbero bandiere più rosse degli altri. Sembra incredibile, ma questo accade. Lo conferma implicitamente uno dei colonnelli, Andrea Orlando: «Il governo è timido e reticente, al contrario dell’Unione europea che ha fatto ciò che si doveva fare». Vale a dire inscenare il solito muro contro muro di derivazione macroniana che sta diventando una Waterloo per tutti.
Le gastriti galoppano, questo viaggio non s’ha da fare. Per il Pd un successo sarebbe letale, quindi avanti tutta con la critica che diventa scherno. Dopo essersi infilati l’elmetto sul riarmo voluto da Ursula Von der Leyen, al Nazareno se lo incollano alle fronti «poco ammobiliate di pensiero» (copyright di Indro Montanelli) anche sulla guerra commerciale. A dare manforte arriva anche il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri: «Ogni Paese ha diritto di intrattenere rapporti bilaterali ma forza dell’Italia è l’Europa e solo la Ue unita può influenzare le scelte americane». Ubaldo Pagano, capogruppo in commissione Bilancio, s’inventa una realtà marziana: «Meloni è isolata, servono soldi veri per le imprese». Ha nostalgia degli helicopter money a prestito anche perché la strategia del cappello in mano, che ha caratterizzato gli ultimi quattro governi di sinistra, è l’unica che ha mandato a memoria dopo le tabelline del nove.
Prendere le parti dell’industria e del commercio del Paese è considerato un insulto dalla sinistra compatta. In attesa di una sfuriata di Romano Prodi contro qualche cronista, alle giaculatorie si aggiunge il Movimento 5 stelle con il noto imprenditore Riccardo Ricciardi (gestiva un chiringuito a Massa Carrara): «Invece di ripetere “non preoccupatevi” con sussiego sovranista, il premier venga in Aula a spiegare prima della visita negli Stati Uniti». Il post leninista Marco Grimaldi (Avs) supera tutti in eleganza e chiede al ministro Adolfo Urso: «Si tolga il cappellino di Trump, che ha detto che Meloni va lì a baciargli il c…».
Il nervosismo dilaga e non poteva non contagiare Matteo Renzi, colui che più di tutti ha mangiato cappelli come Rockerduck nella sua carriera politica in ginocchio da Bruxelles. Con un post su X accusa Meloni «di condurre una narrazione forviante, utile solo a raccogliere like». Ancora furente per la legge che gli impedisce di arricchirsi in conferenze da Lawrence d’Arabia, sarebbe pronto a sdraiarsi per primo a Fiumicino.
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Sul tavolo del delicatissimo incontro non solo dazi, ma anche possibili investimenti reciproci che potrebbero favorire le nostre aziende. Ma ai dem questo non sta bene: «Il premier resti a casa, tratti soltanto Bruxelles». Il presidente americano spiazza ancora tutti: «La Ue è un blocco unico».Lo speciale contiene due articoliIl giorno dell’incontro si avvicina. Giovedì prossimo Giorgia Meloni sarà alla Casa Bianca. Va dato atto che ci vuole un certo coraggio visto le ultime sparate di Donald Trump. Siamo però convinti che sia la mossa giusta. Non perché l’ha detto Carlo Calenda, unico delle opposizioni a non strumentalizzare la postura internazionale del premier, ma perché la trattativa è l’unica strada possibile con un levantino come il tycoon.La scelta, come abbiamo già scritto, ha dato fastidio alla Francia. La quale ha fatto un passo indietro solo perché non ha titolo di intromettersi e perché affida al proprio soft power ben infiltrato lungo la Penisola il compito di intralciare le mosse del governo. Ma anche il Quirinale, nelle ultime ore, ha dato un messaggio molto importante. Si tratta della visita di Carlo d’Inghilterra a Roma. Con la scusa di festeggiare i 20 anni di matrimonio con Camilla ha fatto ciò che gli inglesi sono bravissimi a fare. Ha ricordato la storia di amicizia, la democrazia che ci lega (parlando in Aula) e si è limitato a omettere tutti gli interessi discordanti che abbiamo nei Balcani (basti pensare a quanto fa l’intelligence Uk in Kosovo) e che abbiamo avuto in Egitto (ricordiamo la vicenda Giulio Regeni). Ma adesso re Carlo III piace alla gente che piace e rappresenta l’alternativa a Trump.Nulla da dire dal punto di vista della postura, ma se ciò diventa di nuovo un messaggio al governo per far sapere che non dovrebbe andare a trattare, allora c’è da dissentire. Primo. Il fatto che ieri Trump abbia ricordato di voler trattare dal punto di vista dei dazi la ue come un blocco unico, non significa che sul piatto della bilancia non vadano posti altre temi per aprire spiragli. Secondo, entrando nel merito di chi frena Meloni, la Francia, come abbiamo visto più volte nelle ultime settimane, punta chiaramente a rafforzare il proprio asse con Berlino e godere dei fondi comuni per il riarmo. L’ultimo esempio? La richiesta fatta l’altro ieri in sede di Consiglio di ulteriori fondi per il progetto dei satelliti Ue. Inutile dire che quei fondi andranno a un consorzio a trazione parigina in aggiunta a una ulteriore tranche da destinare a Eutelsat. Si capisce ancor meglio tutto il pressing contro il governo per non avviare il contratto con Starlink. Il timore della Francia e, a questo punto, anche dell’Inghilterra è che la Meloni, nel suo bilaterale, possa affrontare esattamente questi temi e avviare un dialogo per investimenti reciproci. Non sappiamo quali siano i faldoni nella valigetta del premier. A quanto risulta alla Verità, gli Stati Uniti hanno un particolare interesse per Fincantieri. Vorrebbero ragionare su una estensione delle attività Usa o nuove partnership. Certo, chiederanno impegno finanziario e potenziamento delle attività in loco che per Trump significano posti di lavoro. In cambio Meloni potrebbe chiedere maggiori investimenti delle Big Tech a partire da Aws, la società di Amazon che si occupa di cloud. Significherebbero più posti di lavoro per l’Italia.Certo, sarà esimente il ruolo di Roma per fare blocco contro chi vuole inasprire (Parigi e Madrid) le barriere di ingresso alle società digitali. Un problema che viene visto solo sul versante Usa ma che affligge anche gli altri colossi. Non ci sono solo Dsa e Dma ma anche le complicazioni fiscali. Pensate alla notizia dell’altro ieri che riguarda Ion di Andrea Pignataro. L’accusa è di aver evaso mezzo miliardo 10 anni fa, cifra ora lievitata a 1,2 miliardi per gli interessi. La Gdf indaga, giustamente. Ma le norme vanno riviste e devono essere chiare per tutto il Continente e per tutte le società. Ciò per dire che è su questo che si dovrà fare leva se si vuole portare avanti in qualche modo la proposta zero dazi da entrambe i lati. Sappiamo bene che il calcolo fatto da Trump il giorno della conferenza stampa nel giardino delle rose somma mele e pere. Da un lato dazi veri e propri e dall’altro burocrazia, multe, tasse, vincoli. Difficile da quantificare in percentuale ma certamente fardelli a carico di imprese e consumatori. Lo zero dazi da entrambe i lati non si può fare se non si semplifica la burocrazia Ue. E, su questo, i socialisti sembrano non sentire ragioni. Insistono con il Green deal fino a estenderlo all’acciaio e all’alluminio con il Cbam. Questo è il ghiaccio sottile su cui si muoverà la Meloni anche se dalla sua potrebbero esserci altre carte. La mossa di Trump, compresa la retro innescata con la moratoria di 90 giorni, è sicuramente dettata dal timore del debito pubblico e dell’impennata del costo degli interessi, ma non cancella l’obiettivo principale. Puntare alla Cina e cercare di isolarla dal resto dell’Occidente. Questo è l’altro ghiaccio sottile su cui Meloni può trovarsi a pattinare. Certamente la Germania non vuole raffreddare ulteriormente i rapporti con Pechino ma a noi, in questo momento, può fare comodo. Uno dei temi sul tavolo il prossimo 17 aprile, a quanto risulta, sarebbe il rilancio dei progetti concordati lo scorso settembre con Larry Fink, ad di Blackrock. Tra questi, il loro ingresso nei porti italiani. Sarebbe la fine definitiva delle mire cinesi a partire da Taranto. Non sono dettagli ma un posizionamento internazionale di lungo termine. A Taranto si fa il futuro dell’eolico, della sovranità energetica che può finire in mano cinese e degli equilibri dei traffici mediterranei. Se le concessioni ora in mano ai turchi finissero a Pechino, sarebbe un segnale pessimo nelle relazioni Italia-Usa.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-pd-guai-se-la-meloni-ottiene-vantaggi-per-litalia-da-tump-2671742937.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-pd-tifa-sempre-contro-non-vuole-che-giorgia-porti-a-casa-dei-risultati" data-post-id="2671742937" data-published-at="1744315682" data-use-pagination="False"> Il Pd tifa sempre contro. Non vuole che Giorgia porti a casa dei risultati Non gli resta che sdraiarsi davanti al gate a Fiumicino il Giovedì santo. Bisogna impedire che fra una settimana Giorgia Meloni vada a Washington a incontrare Donald Trump per difendere le aziende italiane. Ed è immaginabile che l’opposizione si mobiliti nell’unico modo che le riesce: una bella manifestazione democratica, un sit-in stile Ultima generazione per non far partire l’aereo. Dalle parti del Nazareno l’allarme è totale. Scende in campo l’economista keynesiana Elly Schlein in prima persona: «Non è altro che una manovra di facciata, andare alla Casa Bianca con il cappello in mano non ha senso. L’incertezza sui dazi di Trump causa danno alle imprese, il governo ci dica cosa vuol fare». Per la verità, la strategia dell’esecutivo è chiara: utilizzare il vantaggio competitivo di una legittima consonanza politica per cucire una strategia favorevole al made in Italy in tutte le sue forme. Ma al Pd questo non va bene, meglio la rissa che avrebbe come risultato il fallimento. La segretaria non si dà pace perché «serve che l’Europa si muova in sintonia». Ciò che va bene per Bruxelles deve andare bene per l’Italia; è il sentimento profondo, autenticamente anti-italiano, che affiora ancora una volta fra i dem, pronti per interessi di bottega (vedi sondaggi elettorali) a voltare le spalle all’economia nazionale. Tre mesi di dilazione saranno utili per muovere la diplomazia con forza ed è questo l’obiettivo del viaggio a Washington di Meloni. Ma al Nazareno viene visto come fumo negli occhi. Non sapendo a cosa aggrapparsi, Schlein chiede una svolta surreale: «Palazzo Chigi ha parlato solo con gli imprenditori, noi vogliamo che vengano coinvolti anche i sindacati». Con quale ruolo è impossibile sapere, forse perché in una manifestazione di piazza sventolerebbero bandiere più rosse degli altri. Sembra incredibile, ma questo accade. Lo conferma implicitamente uno dei colonnelli, Andrea Orlando: «Il governo è timido e reticente, al contrario dell’Unione europea che ha fatto ciò che si doveva fare». Vale a dire inscenare il solito muro contro muro di derivazione macroniana che sta diventando una Waterloo per tutti. Le gastriti galoppano, questo viaggio non s’ha da fare. Per il Pd un successo sarebbe letale, quindi avanti tutta con la critica che diventa scherno. Dopo essersi infilati l’elmetto sul riarmo voluto da Ursula Von der Leyen, al Nazareno se lo incollano alle fronti «poco ammobiliate di pensiero» (copyright di Indro Montanelli) anche sulla guerra commerciale. A dare manforte arriva anche il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri: «Ogni Paese ha diritto di intrattenere rapporti bilaterali ma forza dell’Italia è l’Europa e solo la Ue unita può influenzare le scelte americane». Ubaldo Pagano, capogruppo in commissione Bilancio, s’inventa una realtà marziana: «Meloni è isolata, servono soldi veri per le imprese». Ha nostalgia degli helicopter money a prestito anche perché la strategia del cappello in mano, che ha caratterizzato gli ultimi quattro governi di sinistra, è l’unica che ha mandato a memoria dopo le tabelline del nove. Prendere le parti dell’industria e del commercio del Paese è considerato un insulto dalla sinistra compatta. In attesa di una sfuriata di Romano Prodi contro qualche cronista, alle giaculatorie si aggiunge il Movimento 5 stelle con il noto imprenditore Riccardo Ricciardi (gestiva un chiringuito a Massa Carrara): «Invece di ripetere “non preoccupatevi” con sussiego sovranista, il premier venga in Aula a spiegare prima della visita negli Stati Uniti». Il post leninista Marco Grimaldi (Avs) supera tutti in eleganza e chiede al ministro Adolfo Urso: «Si tolga il cappellino di Trump, che ha detto che Meloni va lì a baciargli il c…». Il nervosismo dilaga e non poteva non contagiare Matteo Renzi, colui che più di tutti ha mangiato cappelli come Rockerduck nella sua carriera politica in ginocchio da Bruxelles. Con un post su X accusa Meloni «di condurre una narrazione forviante, utile solo a raccogliere like». Ancora furente per la legge che gli impedisce di arricchirsi in conferenze da Lawrence d’Arabia, sarebbe pronto a sdraiarsi per primo a Fiumicino.
David Neres festeggia con Rasmus Hojlund dopo aver segnato il gol dell'1-0 durante la semifinale di Supercoppa italiana tra Napoli e Milan a Riyadh (Ansa)
Nella prima semifinale in Arabia Saudita i campioni d’Italia superano 2-0 i rossoneri con un gol per tempo di Neres e Hojlund. Conte: «Vincere contro un top team dà fiducia, entusiasmo e consapevolezza». Allegri: «Il Napoli ha meritato perché ha difeso molto meglio di noi. Dobbiamo migliorare la fase difensiva, è lì che nascono le difficoltà».
È il Napoli la prima finalista della Supercoppa italiana. All’Alawwal Park di Riyadh, davanti a 24.941 spettatori, i campioni d’Italia superano 2-0 il Milan al termine di una semifinale mai realmente in discussione e torneranno lunedì nello stadio dell’Al Nassr per giocarsi il primo trofeo stagionale contro la vincente di Bologna-Inter, in programma domani sera.
Decidono un gol per tempo di Neres e Hojlund, protagonisti assoluti di una gara che la squadra di Antonio Conte ha interpretato con maggiore lucidità, intensità e qualità rispetto ai rossoneri. Il pubblico saudita, arrivato a scaglioni sugli spalti come da consuetudine locale, si è acceso soprattutto per Luka Modric durante il riscaldamento, più inquadrato sugli smartphone che realmente seguito sul campo, ma alla lunga è stato il Napoli a prendersi scena e risultato. Un successo meritato per i partenopei che rispetto al Milan hanno dimostrato di avere più idee e mezzi per colpire.
Conte ha scelto la miglior formazione possibile, confermando il 3-4-2-1 con l’unica eccezione rispetto alle ultime gare di campionato che riguarda il ritorno tra i titolari di Politano al posto di Lang. Davanti la coppia McTominay-Neres ad agire alle spalle di Hojlund. Ed è stato proprio il centravanti danese uno dei protagonisti del match e della vittoria del Napoli, mettendo lo zampino in entrambi i gol e facendo impazzire in marcatura De Winter. L’ex difensore del Genoa è stato scelto da Allegri come perno della difesa a tre per sostituire l'infortunato Gabbia, un’assenza che alla fine dei conti si è rivelata più pesante del previsto. Ma se quella del difensore centrale era praticamente una scelta obbligata, il turnover applicato in mezzo al campo e sulla corsia di destra non ha restituito gli effetti desiderati. Nel solito 3-5-2 hanno trovato spazio dal primo minuto anche Jashari e Loftus-Cheek, titolari al posto di Modric e Fofana, ed Estupinan per far rifiatare Bartesaghi, uno degli uomini più in forma tra i rossoneri.
Il Napoli ha preso infatti fin da subito l’iniziativa, con Elmas al tiro già al 2’ e con Maignan attento a bloccare senza problemi. Il Milan ha poi avuto due ghiotte occasioni: al 5’ sugli sviluppi di una rimessa laterale Pavlovic ha tentato una rovesciata, il pallone è arrivato a Loftus-Cheek che, solo davanti a Milinkovic-Savic, ha mancato incredibilmente l’impatto; al 16' Saelemaekers ha sprecato calciando alto da buona posizione. È l’illusione rossonera, perché da quel momento sono i partenopei a comandare il gioco. Al 32' McTominay ha sfiorato il vantaggio con un destro di prima poco fuori, mentre Nkunku al 37’ ha confermato il suo momento negativo non inquadrando nemmeno la porta a conclusione di un contropiede che poteva cambiare la partita. Partita che è cambiata in maniera decisiva due minuti dopo, al 39’, quando è arrivato il gol che ha sbloccato la semifinale: da un'azione insistita di Elmas sulla sinistra, il pallone è arrivato a Hojlund il cui tiro in diagonale ha messo in difficoltà Maignan. La respinta troppo corta del portiere francese è finita sui piedi di Neres, il più rapido ad avventarsi sul pallone e a depositarlo in rete. Il Napoli è andato vicino al raddoppio già prima dell’intervallo con un altro contropiede orchestrato da Elmas e concluso da Hojlund, su cui Maignan ha dovuto compiere un mezzo miracolo.
Nella ripresa il copione non è cambiato. Rrahmani ha impegnato ancora Maignan da fuori area, poi al 64’ è arrivato il 2-0 che ha chiuso la partita: Spinazzola ha affondato a sinistra e servito Hojlund, veloce e preciso a finalizzare con freddezza, firmando così una prestazione dominante contro un De Winter in grande difficoltà. Allegri ha provato a cambiare volto alla gara passando al 4-1-4-1 con l’ingresso di Fofana e Athekame, ma il Milan non è riuscito di fatto mai a rientrare davvero in partita. Anzi. Al 73' uno scatenato Hojlund ha sfiorato la doppietta personale. Poi, al 75', il Milan ha regalato alla parte di stadio rossonera la gioia più grande di tuta la serata, ovvero l'ingresso in campo di Modric. Il croato è entrato tra gli applausi del pubblico, ma è solo una nota di colore in una serata che resta saldamente nelle mani del Napoli. Nel finale spazio anche a qualche tensione, sia in campo che in panchina. Prima le scintille tra Tomori e McTominay, ammoniti entrambi da Zufferli. Poi, in pieno recupero, un battibecco verbale tra Oriali e Allegri. E mentre scorrevano i sette minuti di recupero concessi dal direttore di gara, accompagnato dal coro dei tifosi sauditi di fede azzurra «Siamo noi, siamo noi, i campioni dell’Italia siamo noi», è arrivato il verdetto definitivo.
Nel post partita Massimiliano Allegri ha riconosciuto i meriti degli avversari: «Il Napoli ha meritato perché ha difeso molto meglio di noi. Dobbiamo migliorare la fase difensiva, è lì che nascono le difficoltà». Sull’eliminazione da Coppa Italia e Supercoppa è stato netto: «Siamo dispiaciuti, ma il nostro obiettivo resta la qualificazione in Champions, che è un salvavita per la società». Di tutt’altro tono Antonio Conte, soddisfatto della risposta della sua squadra: «Battere il Milan fa morale. Vincere contro un top team dà fiducia, entusiasmo e consapevolezza. Con energia, anche in emergenza, siamo difficili da affrontare». Parole di elogio per Hojlund: «Ha 22 anni, grandi margini di crescita e oggi è stato determinante. Sta capendo sempre di più quello che gli chiedo».
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