2019-07-14
Il Pd di Zingaretti è più litigioso della Libia
L'assemblea dei democratici, a Roma, restituisce l'immagine di un partito cannibalizzato dalle correnti, con Matteo Renzi che fa più paura di Haftar. Il segretario dice che serve un'agenda autonoma da quella del governo, ma non sa indicare neanche un punto concreto.L'assemblea del Pd, nel casermone di cemento dell'hotel Ergife a Roma, restituisce l'immagine di una situazione quasi «libica», con divisioni tribali e il nemico alle porte, cioè Matteo Renzi, una specie di versione toscana del generale Haftar, visto con gli occhi di Al Serraj-Zingaretti. La relazione di Nicola Zingaretti (in camicia bianca tattica: contro i rischi di ascella pezzata e sudorazione a chiazze, com'era accaduto l'ultima volta) è un mix di impotenza politica e insulti a Matteo Salvini: specchio di un leader fragile (mediaticamente impalpabile), e di un partito che cerca - senza riuscirci - di mascherare la balcanizzazione interna additando il nemico leghista. «Dobbiamo avere fiducia, nulla è prestabilito», ha esordito Zingaretti, e ai più è parso un modo di raccomandarsi l'anima. Poi, un salto surreale: «Abbiamo fatto un primo passo, ma ora vogliamo fare la storia». Anche se i pessimisti in platea sussurravano che l'unico evento storico dei prossimi mesi, per il Pd, sarà la sconfitta nelle regioni rosse. A seguire, un auspicio non seguito da alcuna proposta forte: «Il Pd è l'unica alternativa credibile a questa deriva italiana. Oggi apriamo nuova fase: il primo compito è imporre un'altra agenda, non essere subalterni agli altri». Ma non si capisce con quale messaggio all'opinione pubblica. Sta proprio qui il tratto più lunare del discorso di Zingaretti: sollecita una nuova agenda, ma non avanza proposte, come se non toccasse al segretario indicare 3-4 idee da cui ripartire. Con linguaggio da Prima Repubblica, viene infatti annunciata la cosiddetta «Costituente delle idee», con ennesima relativa «campagna di ascolto», che si concluderà con un evento a Bologna a novembre, mentre nel frattempo proseguirà il triste e solitario giro d'Italia di Zingaretti. Obiettivo: scrivere un programma aprendosi a realtà esterne e associazioni. Sono stati anche nominati i vicesegretari: Paola De Micheli e Andrea Orlando. A rendere le cose ancora più spettrali, parte anche la «Commissione per la riforma dello statuto», che sarà popolata dai rappresentanti delle correnti (pudicamente definite: le diverse sensibilità) e dei mitici territori: la presiederà Maurizio Martina. Tra i temi da discutere, la (non) appassionante questione se ci debba essere separazione tra la carica di segretario del Pd e quella di candidato premier. Per dibattere sarà pure varata una nuova infrastruttura online: vedremo se durerà più o meno dell'ormai dimenticata piattaforma «Bob» lanciata due anni fa da Renzi (allora in fase kennediana). Ma torniamo alla relazione del segretario. Non è mancato l'omaggio a David Sassoli: «Saluto con orgoglio il nuovo presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, un democratico, un europeista. A chi ci diceva: “Scioglietevi", dico che siamo noi a rappresentare l'Italia nelle istituzioni Ue». Dopo di che, prevedibile e fiacco, l'attacco a Salvini: «Abbiamo contro una forte destra illiberale. Ora guardare in faccia questa destra è il modo migliore per sconfiggerla». E ancora, una critica ai grillini, ma solo per il loro attuale posizionamento (con la Lega), e ai più è sembrato (come già accade nel Lazio, di cui Zingaretti è governatore) un modo di occhieggiare al M5s: «I 5 stelle sono diventati un'amara stampella». Ma, letto in controluce, tutto il discorso è segnato dalla lotta tra correnti: «Sul partito dobbiamo cambiare tutto: così non si può andare avanti, basta arcipelaghi dove si esercita il potere, con un regime correntizio che soffoca tutto. Ci sono realtà territoriali feudalizzate che si collocano con un leader o un altro a prescindere dalle idee, solo per convenzienza». E Zingaretti arriva quasi a gridare: «Serve una rivoluzione o non ce la facciamo». La realtà è che il povero Zingaretti non controlla più nulla, e le divisioni interne lo stanno già rosolando. Sull'immigrazione, il partito sembra più che altro un centro di accoglienza, con posizioni lacerate e difficilmente ricomponibili: Matteo Renzi ormai quasi su tesi open borders, Marco Minniti a difesa della sua linea più dura, gran parte del partito contro Minniti, per non parlare dei pasdaran saliti a bordo della Sea Watch. Quanto alle ambizioni di aspiranti capi e capetti, quelle di Carlo Calenda sembrano incontenibili, per nulla arginate dal seggio all'Europarlamento. Luca Lotti, nonostante le disavventure giudiziarie e la bufera delle intercettazioni, ha organizzato un suo correntone. E in questi giorni è tornato Renzi, con la convention milanese dei suoi «circoli»: e a tutti è parso chiaro che, o per riscalare il Pd o per agire dall'esterno, l'ex premier abbia intenzione di muoversi come se Zingaretti non ci fosse. Di più: le ipotetiche sconfitte del Pd alle prossime regionali (in autunno in Umbria e Calabria, a inizio 2020 in Emilia Romagna) potrebbero essere l'occasione d'oro per defenestrare Zingaretti, già impressionato nel vedere che il sindaco di Milano Beppe Sala, considerato freddino verso Renzi, sia invece andato ad abbracciarlo e ad applaudirlo. Stessi toni nella replica finale del segretario: «Non voglio più solo criticare Conte, Di Maio e Salvini: voglio sconfiggerli». E una promessa: sull'immigrazione il Pd esprimerà (sic) un «punto di tenuta e una piattaforma». A rendere tutto più tragicomico, Zingaretti ha aggiunto che, quando ci sono «problemi complessi», bisogna «spingere le istituzioni a starci e interessarsene», e «quando ci sono le guerre», occorre «farle smettere». Ci penserà il Pd?