2019-08-07
«Il Pd aveva tolto ogni tutela ai licenziati»
Il vicecapo di gabinetto di Luigi Di Maio al Mise, Giorgio Girgis Sorial: «Fino al governo Gentiloni compreso, i lavoratori non avevano paracadute. Noi abbiamo reintrodotto la cassa straordinaria per cessata attività. I tavoli di crisi permanente sono 150, a settembre presenteremo i dati reali».Onorevole Sorial, lei ha un compito ingrato. «Dice?». Lei è l'uomo dei tavoli di crisi in un Paese con un sistema industriale in crisi. «Questo per me è un motivo di orgoglio. Stiamo facendo un lavoro enorme». E i risultati si vedono? Qualcuno dice che non si conosce il numero esatto delle vertenze aperte al Mise. «I tavoli permanenti sono quasi 150». Tantissimi. «Il 10 settembre Luigi Di Maio presenterà un dossier dettagliato e aggiornato fino all'ultima virgola su quello che stiamo facendo e dove». E lei, che è il coordinatore dell'unità di crisi, sente di avere la coscienza a posto? «Ma lei lo sa che molti dei lavoratori di queste aziende in crisi posso dire di conoscerli per nome e cognome? Di molti conosco le storie, le famiglie, i problemi. Io quest'anno ho visitato una media di due aziende a settimana. Spesso anche nel weekend». Le ho chiesto se pensa di aver fatto tutto quello che era in suo potere. «Non dormiamo la notte, pur di trovare le soluzioni a problemi che si sono accumulati negli anni. E abbiamo iniziato a fare dei cambiamenti decisivi». Ad esempio? «La reintroduzione di uno strumento indispensabile per queste crisi, che purtroppo era stato abolito dal Jobs act». Quale? «La cassa integrazione straordinaria per cessata attività». Spieghi. Qualcuno la ritiene assistenza. «Balle. Fino al governo Gentiloni non c'erano più possibilità di tutela per chi era licenziato». Cioè? «Se un'azienda chiudeva, per qualsiasi motivo, i lavoratori finivano in mezzo a una strada». Era quello che stava accadendo l'estate scorsa alla Bekaert. «Esatto. Così abbiamo reintrodotto questo strumento, proprio in quei giorni, e adesso abbiamo più tempo per cercare delle soluzioni di rilancio. Non solo».Cosa?«In questo tempo i lavoratori restano legati all'azienda».Ma queste soluzioni si trovano? «In questo anno abbiamo visto di tutto: imprenditori che scappano, che delocalizzano, che mettono i lavoratori in mezzo a una strada dalla mattina alla sera». E voi cosa riuscite a fare? «I miracoli non esistono. Però abbiamo iniziato a introdurre norme contro le delocalizzazioni. E - al contrario di quanto accadeva in passato - non abbiamo lasciato solo nessuno». Giorgio Girgis Sorial, pentastellato, vicecapo di gabinetto del ministro dello Sviluppo economico. È uno dei dirigenti del M5s della vecchia guardia: amico di Di Maio (che lo ha voluto con sé al ministero per l'incarico più delicato), deputato per una legislatura (nel 2013). Ingegnere, ex cervello in fuga, oggi impegnato nel lavoro più difficile. Riaprire le aziende chiuse e fallite. Sorial, lei è un bresciano con uno smaccato accento lombardo. «Ma il mio è un cognome egiziano, copto, per l'esattezza». La minoranza cristiana più perseguitata di tutto il Medio Oriente. «Purtroppo per anni non c'è stato Natale, o ricorrenza religiosa, in cui non dovessimo piangere delle vittime, colpite da attentati integralisti. Il mio è un popolo perseguitato. Uomini, donne e bambini vengono ammazzati, trasformati in bersagli». Suo nonno cosa faceva? «Era un funzionario dell'amministrazione pubblica in Egitto. Poi decise di emigrare in Italia». Lei ha iniziato a lavorare presto. «È il ricordo forse più forte della mia vita. Mio padre voleva che facessi l'esperienza della fabbrica, chiese se ero d'accordo e mi trovò un posto». Nello stesso luogo dove lavorava lui. Alla Lonati di Brescia. «Sì. È una fabbrica che produce macchine e utensili per realizzare calzature. Una delle aziende più importanti del settore». E se deve dire una cosa che ha imparato in quella linea, a 16 anni? «Il senso della responsabilità. La consapevolezza che il tuo lavoro implica conseguenze per gli altri. Una lezione che ti resta per la vita». Ma lei cosa voleva fare, da piccolo? (Ride) «L'ingegnere, fin da bambino: e come vede è anche quello che poi ho fatto, molti anni più tardi». Lo sottolinea per testimoniare la sua forza di volontà. (Sorride) «Anche». Lei ha lavorato come volontario della Croce bianca di Brescia. Cosa faceva?«Il soccorritore in ambulanza. Saltavo su per primo, quando ci arrivava una segnalazione, avevo il compito vitale di controllare la dotazione del mezzo». Non sembra difficile. «Dipende. La metta così: se dimentichi qualcosa può morire qualcuno». Il giorno più duro?«Un incidente sul motorino di un ragazzo. Il casco non era bastato a proteggerlo, era già privo di conoscenza». E cosa la colpì quel giorno? «Aveva 20 anni, era poco più piccolo di me». Lei è laureato in ingegneria. Il primo impiego? (Sorriso) «Finisco in un'azienda di schede elettroniche. Il mio primissimo impiego. Ma ne cambio tanti, in poco tempo». Ad esempio? «Faccio l'ingegnere in un'azienda che produce impianti elettrochimici, per realizzare cromature e zincature. Da lì inizio a tessere rapporti con l'estero». Come mai? «Avevo questa piccola fortuna: parlavo le lingue. Italiano, inglese, francese e arabo. Poi investii per pagarmi un master all'estero in business administration». Dove? «In Irlanda, a Dublino. Mi innamoro del Trinity college, la più antica università del Paese». Poi che succede?«Per questioni familiari devo rientrare in Italia. Mi fanno una proposta da Accenture Irlanda, una società di consulenza: è una di quelle che non si possono rifiutare». Di cosa si occupa? «Riorganizzazione di banche. Poi vengo mandato in Belgio ad imparare come si conduce una negoziazione». E cosa ha imparato? «Una cosa che mi serve molto nel lavoro di oggi. Ogni accordo deve essere un win win per tutti». E il Movimento 5 stelle? «Il mio rapporto con il Movimento era iniziato in Italia, nel lontano 2008. Ero il più giovane in azienda. Non c'era sindacato, era padronale. E io ero uno dei più sensibili, appassionato ai temi, mi interessavo alle implicazioni ambientali, all'inceneritore...».E che succede? «Uno dei miei colleghi mi dice: c'è questo Beppe Grillo, un gruppo di ragazzi che si occupano proprio dei temi che ti interessano, perché non andiamo insieme?».E chi erano? «Gli amici di Beppe Grillo. Uno di loro era Vito Crimi. Che - scoprii poi - era anche mio vicino di casa. Diventammo subito amici». Nel 2010 arriva il M5s. «E infatti per le regionali 2010 presentammo la nostra lista. Il candidato presidente era Vito». E cosa si aspettava?«Un trionfo. Correvano tutti con l'obiettivo di eleggerne almeno uno. Volantinavo, attaccavo manifesti, poi mi cambiavo in macchina per andare a un incontro per autofinanziarci». Il nemico era Roberto Formigoni. «Facevamo campagna contro il suo quarto mandato. Ma ottenemmo meno del 3%. Vito non entrò. Ero deluso, abbattuto. Affranto». Ma conosce Grillo? «Proprio in quella campagna. L'ho conosciuto su un palco, balbettando a malapena il mio nome. Beppe era uno spettacolo: senza la sua forza motrice non saremmo stati nulla. Sembra mille anni fa». Grazie a quella sconfitta potete candidarvi alle politiche. «Nel 2013: ne parlai parecchio con Crimi. Dovevo già dividermi tra la mia carriera e gli impegni. Ma correre per le politiche voleva dire licenziarsi». Perché? «Perché c'era un conflitto di interessi e io prendevo sul serio questa questione». E poi si è licenziato davvero da Accenture? «Ovviamente sì». Quando finirà questa esperienza sarà un disoccupato? «Non ho nessun timore. Ho imparato come funziona il mondo del lavoro, me la caverò». Lei si è ritrovato nella cosiddetta Commissione speciale. «E sa chi era il presidente? Giancarlo Giorgetti. Io divento il suo vice». Poi finisce nella Commissione bilancio della Camera.«Mi occupo di imprese, investimenti, bilancio pubblico, società partecipate. Il presidente era Francesco Boccia». E il rapporto con Di Maio?«Si è stretto durante la prima legislatura: è una persona splendida». Come ha scoperto di essere entrato nel governo?«Mi ha mandato un messaggio su Whatsapp Luigi». Prima di lei era un ruolo non politico. «Luigi ha voluto un focus più marcato sui tavoli di crisi per cercare di raccogliere il massimo delle informazioni possibili sul territorio. Prima di me c'era un consulente esterno». Ed è cambiato qualcosa? «Tutto. Abbiamo creato una divisione del segretariato generale. Un'unità di crisi». E se il governo cade? «Non cade. Ma il lavoro che abbiamo fatto resterà».
Il simulatore a telaio basculante di Amedeo Herlitzka (nel riquadro)
Gli anni Dieci del secolo XX segnarono un balzo in avanti all’alba della storia del volo. A pochi anni dal primo successo dei fratelli Wright, le macchine volanti erano diventate una sbalorditiva realtà. Erano gli anni dei circuiti aerei, dei raid, ma anche del primissimo utilizzo dell’aviazione in ambito bellico. L’Italia occupò sin da subito un posto di eccellenza nel campo, come dimostrò la guerra Italo-Turca del 1911-12 quando un pilota italiano compì il primo bombardamento aereo della storia in Libia.
Il rapido sviluppo dell’aviazione portò con sé la necessità di una crescente organizzazione, in particolare nella formazione dei piloti sul territorio italiano. Fino ai primi anni Dieci, le scuole di pilotaggio si trovavano soprattutto in Francia, patria dei principali costruttori aeronautici.
A partire dal primo decennio del nuovo secolo, l’industria dell’aviazione prese piede anche in Italia con svariate aziende che spesso costruivano su licenza estera. Torino fu il centro di riferimento anche per quanto riguardò la scuola piloti, che si formavano presso l’aeroporto di Mirafiori.
Soltanto tre anni erano passati dalla guerra Italo-Turca quando l’Italia entrò nel primo conflitto mondiale, la prima guerra tecnologica in cui l’aviazione militare ebbe un ruolo primario. La necessità di una formazione migliore per i piloti divenne pressante, anche per il dato statistico che dimostrava come la maggior parte delle perdite tra gli aviatori fossero determinate più che dal fuoco nemico da incidenti, avarie e scarsa preparazione fisica. Per ridurre i pericoli di quest’ultimo aspetto, intervenne la scienza nel ramo della fisiologia. La svolta la fornì il professore triestino Amedeo Herlitzka, docente all’Università di Torino ed allievo del grande fisiologo Angelo Mosso.
Sua fu l’idea di sviluppare un’apparecchiatura che potesse preparare fisicamente i piloti a terra, simulando le condizioni estreme del volo. Nel 1917 il governo lo incarica di fondare il Centro Psicofisiologico per la selezione attitudinale dei piloti con sede nella città sabauda. Qui nascerà il primo simulatore di volo della storia, successivamente sviluppato in una versione più avanzata. Oltre al simulatore, il fisiologo triestino ideò la campana pneumatica, un apparecchio dotato di una pompa a depressione in grado di riprodurre le condizioni atmosferiche di un volo fino a 6.000 metri di quota.
Per quanto riguardava le capacità di reazione e orientamento del pilota in condizioni estreme, Herlitzka realizzò il simulatore Blériot (dal nome della marca di apparecchi costruita a Torino su licenza francese). L’apparecchio riproduceva la carlinga del monoplano Blériot XI, dove il candidato seduto ai comandi veniva stimolato soprattutto nel centro dell’equilibrio localizzato nell’orecchio interno. Per simulare le condizioni di volo a visibilità zero l’aspirante pilota veniva bendato e sottoposto a beccheggi e imbardate come nel volo reale. All’apparecchio poteva essere applicato un pannello luminoso dove un operatore accendeva lampadine che il candidato doveva indicare nel minor tempo possibile. Il secondo simulatore, detto a telaio basculante, era ancora più realistico in quanto poteva simulare movimenti di rotazione, i più difficili da controllare, ruotando attorno al proprio asse grazie ad uno speciale binario. In seguito alla stimolazione, il pilota doveva colpire un bersaglio puntando una matita su un foglio sottostante, prova che accertava la capacità di resistenza e controllo del futuro aviatore.
I simulatori di Amedeo Herlitzka sono oggi conservati presso il Museo delle Forze Armate 1914-45 di Montecchio Maggiore (Vicenza).
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