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2020-12-06
Tra noi e la trappola Mes solo i ribelli M5s
Vito Crimi (Ansa)
Luigi Di Maio interviene alla videoassemblea congiunta dei parlamentari pentastellati sul voto del prossimo 9 dicembre sulla riforma del Mes: «Cerchiamo di non spezzare la corda», dice Di Maio, «perché a giocare con il fuoco possiamo farci male». Ma pure la Corda si ribella: «Questo è fascismo. Una conduzione», protesta la deputata Emanuela Corda, «che non ci permette di esprimerci. Solo due minuti e mezzo». Lo psicodramma grillino sul Mes non accenna a placarsi, anzi. I 42 deputati e 16 senatori grillini contrari alla riforma tengono sulla graticola Giuseppe Conte. Una bocciatura della risoluzione di maggioranza aprirebbe la crisi di governo. In queste ore i dissidenti del M5s sono sottoposti a pressioni inimmaginabili per cambiare idea. Il ricatto politico è sempre lo stesso: se cade Conte si va alle elezioni e voi perdete la poltrona. In realtà, non è detto che vada così: morto (politicamente) un premier, nulla vieta di farne un altro.
«Se si vuole cambiare idea sulla riforma del Mes», scrive su Facebook il sottosegretario al Mef, Alessio Villarosa, uno dei dissidenti, «lo si fa con una votazione tra i parlamentari o ancora meglio, una votazione tra gli iscritti, così il gruppo verrebbe legittimato a cambiare idea. Abbiamo a disposizione uno strumento come Rousseau, usiamolo». Prove tecniche di ennesima giravolta? Non si sa. Quello che si sa è che da questa vicenda così triste, da qualunque parte la si guardi, chi esce letteralmente a pezzi è don Vito Crimi, reggente per caso del M5s. «Gualtieri è andato in Europa», dice Crimi, «con il pieno mandato perché mi sono assunto la responsabilità di non indebolire la posizione del nostro Paese nei rapporti internazionali europei». Il ministro dell'Economia Roberto Gualtieri che va in Europa con il pieno mandato di Crimi, che però viene a sua volta mandato (a quel paese, non in Europa) da mezzo M5s. La tragedia del governo italiano è tutta qui: trattasi in realtà di una farsa.
«La nostra non è una battaglia ideologica», si barcamena Crimi a Sky Tg24, «ma una convinzione, che il Mes, anche quello sanitario, è uno strumento anacronistico, non adeguato a quello che stiamo affrontando. Va superato e smantellato, era nel nostro programma e resta un nostro obiettivo. Anche la riforma non ci piace, perché non cambia gli aspetti negativi dello strumento», aggiunge Crimi, «ma anche se non passasse la riforma, il Mes continuerebbe a esistere, con modalità che riteniamo deleterie». La riforma non ci piace, ma la votiamo. Il Mes vogliamo smantellarlo, ma lo rafforziamo. Vi sembrano contraddizioni? Bazzecole, in confronto al triplo salto mortale con avvitamento rappresentato dalle posizioni odierne rispetto a quanto scriveva il M5s nel suo programma elettorale, pubblicato in prossimità delle elezioni politiche del marzo 2018. «Nel 2012», si legge nel documento, «è stato istituito il Meccanismo europeo di stabilità (Mes) per finanziare i paesi dell'Ue in difficoltà finanziaria in cambio dell'impegno ad attuare un percorso di risanamento della finanza pubblica. Questo percorso si è rivelato nei fatti un calvario che ha distrutto l'economia greca». Non solo: «Nel momento in cui si affida a stati economicamente più forti», recita il programma dei grillini, «la possibilità di poter dettare delle misure rigorose, oltre che dell'agenda economica anche di quella politica, il Mes si sostituisce di fatto alle istituzioni nazionali. La democrazia è divenuta oggetto di trattazione delle organizzazioni finanziarie. Il M5s si opporrà in ogni modo a tutti quei ricatti dei mercati e della finanza internazionale travestiti da riforme. In particolare, ci impegneremo allo smantellamento del Mes (fondo salva Stati) e della cosiddetta Troika». Smantellare e rafforzare, come abbiamo già visto, nel vocabolario grillino sono sinonimi. E come dimenticare il contratto di governo tra Lega e M5s, che fu pilastro del primo governo Conte? «Con lo spirito di ritornare all'impostazione pre Maastricht in cui gli Stati europei erano mossi da un genuino intento di pace, fratellanza, cooperazione e solidarietà», si legge nel testo, «si ritiene necessario rivedere, insieme ai partner europei, l'impianto della governance economica europea (politica monetaria unica, Patto di stabilità e crescita, Fiscal compact, Mes, etc.) attualmente basato sul predominio del mercato e sul rispetto di vincoli stringenti dal punto di vista economico e sociale». Istruttivo rileggere anche qualche passaggio della risoluzione presentata alla Camera il 19 giugno 2019 dai capigruppo di M5s e Lega, Francesco D'Uva e Riccardo Molinari, che impegna il governo «in ordine alla riforma del Meccanismoeuropeo di stabilità, a non approvare modifiche che prevedano condizionalità che finiscano per penalizzare quegli Stati membri che più hanno bisogno di riforme strutturali e di investimenti, e che minino le prerogative della Commissione europea in materia di sorveglianza fiscale; a render note alle Camere le proposte di modifica al trattato Esm, elaborate in sede europea, al fine di consentire al parlamento di esprimersi con un atto di indirizzo e, conseguentemente, a sospendere ogni determinazione definitiva finché il parlamento non si sia pronunciato».
Tutto dimenticato, insabbiato, contraddetto. Il M5s si prepara alla più grande figuraccia della sua storia. Se i dissidenti terranno duro, Conte andrà a casa. Se cambieranno idea, il M5s sarà finito. In Forza Italia anche i più convinti sostenitori della riforma del Mes si stanno convincendo del fatto che tenere in vita artificialmente questo governo con qualche «aiutino» sia una pessima idea. Il conto alla rovescia, per Giuseppi, è iniziato.
Sul salva Stati Conte usa il metodo Ue. Non è mai il momento per dire di no
Ora non è il momento, più tardi». Chissà a quanti lettori sarà capitato durante l'infanzia di ascoltare una simile frase dai propri genitori, per respingere una qualsiasi richiesta. Risposta seguita da «ormai è troppo tardi», quando si tornava alla carica, credendo fosse giunto il momento.
Purtroppo è il filo conduttore dei nostri rapporti con l'Europa. Senza andare troppo indietro nel tempo, partendo dal 2012, ci siamo ritrovati ad approvare Fiscal compact, equilibrio di bilancio in Costituzione, approvazione del Mes, il cosiddetto Two pack (che blinda il percorso per l'approvazione della legge di bilancio) e il bail in, sempre ricevendo lo stesso trattamento. La fase di discussione vera si è sempre svolta dietro le quinte, con scarso o nullo coinvolgimento dell'opinione pubblica e del Parlamento (dal 2012 la Legge Moavero, purtroppo priva di sanzioni, ha posto fine a questo scempio). Quando, improvvisamente, il tema è uscito dalle segrete stanze dell'Eurogruppo (delle cui riunioni non restano verbali) per approdare al Consiglio Ecofin o all'Eurosummit o al Consiglio europeo, non era più il momento di fare obiezioni perché era troppo tardi, ed abbiamo dovuto silenziosamente subire regole dannose per gli interessi del Paese. A tale danno si è sempre aggiunta la beffa di una postuma resipiscenza, non appena i protagonisti di quelle scelte scellerate hanno abbandonato i rispettivi ruoli.
Valga, per tutti, la testimonianza resa anni dopo dallo scomparso ex ministro dell'Economia del governo Letta, Fabrizio Saccomanni, a proposito dell'approvazione del bail-in, fatta in fretta nel dicembre 2013 perché incombevano le elezioni dell'Europarlamento: «…Che cosa poteva succedere all'Italia, al debito pubblico, al nostro spread, in un periodo di tale durata? Era effettivamente un rischio importante. […] Le argomentazioni che noi avanzavamo venissero accolte privatamente dicendo: sì, in effetti voi avete ragione, questa situazione rischia di essere difficile da gestire, però… Lascio i puntini di sospensione per non dire cose più sgradevoli […] nei confronti dell'Italia in quel momento c'era una situazione quasi degasperiana». Saccomanni terminò dicendo che «…si era in una situazione in cui non c'era alcuna possibilità di bloccare il negoziato e, se anche ci fosse stata, sarebbe stato molto probabilmente più dannosa che altro…». Peccato che, al termine di quell'Ecofin, Saccomanni avesse commentato trionfante su Twitter: «Con l'Unione Bancaria risparmiatori meglio tutelati, possibilità più credito e costo denaro più basso». Dopo meno di due anni ci sono state la risoluzione, liquidazione o ricapitalizzazione precauzionale di otto banche con l'indice di Borsa crollato del 60% in pochi mesi. L'ex ministro Giovanni Tria paventò un ricatto, dichiarando in audizione parlamentare che «se l'Italia non accettava, si sarebbe diffusa la notizia che l'Italia non accettava perché aveva il sistema bancario prossimo al fallimento, il che significava avere il fallimento del sistema bancario».
Siamo a oggi, e abbiamo il vantaggio di conoscere il copione e poterci liberare della miscela di bugie, ambiguità e arroganza con cui si vuole fare passare la riforma del Mes, che sta allo Stato come il bail in sta alle banche. Uno strumento per la gestione «ordinata» delle crisi, che promette di essere la rovina dello Stato che si vuole «salvare». Ritroviamo quella mistura nelle parole del presidente Giuseppe Conte consegnate a Repubblica ieri. Al netto del tono ultimativo e arrogante di «ora inizia la ricostruzione nel segno dell'Europa e sarà il mio governo a guidarla perché non cadrò sul Mes» (a cui obiettiamo chiedendo dove sia il mandato per decidere il futuro del nostro Paese per così tanti anni a venire), Conte sostiene che «abbiamo ereditato il Mes dai precedenti esecutivi. Abbiamo offerto un contributo importante alla sua riforma». Omette «solo» che era lui il premier del governo precedente e, in quella veste, si impegnò all'Eurosummit del 21 giugno 2019 a «proseguire i lavori su tutto il pacchetto globale». Tale pacchetto comprendeva riforma del Trattato Mes e Bicc (strumento di bilancio per la competitività e la convergenza), oltre al completamento dell'Unione bancaria i cui lavori erano però indietro. Ammesso e non concesso che il Bicc sia stato sostituito dal Next Generation Ue (i due strumenti differiscono per diversi aspetti), per tenere fede ai suoi impegni Conte, al prossimo Euro Summit di venerdì 11, potrà dire solo una cosa: la riforma del Mes è bloccata fino a quando non viene approvato almeno il Ngeu. Altrimenti, delle due l'una: o ha mentito agli italiani e al Parlamento il 21 giugno 2019 o lo farà sia mercoledì a Roma sia venerdì a Bruxelles. Se Conte dichiara che il Mes non gode di grande appeal e proporrà di riconsiderare in modo più radicale la sua struttura e la sua funzione, perché essere ambiguo e approvare ora una riforma che lascia intatti e peggiora tutti i difetti di questa istituzione?
Sostenere che «continueremo a lavorare per attuare lo schema europeo di assicurazione dei depositi (Edis)» - dimenticando però che il comunicato dell'Eurogruppo di lunedì scorso fa cenno a un «trattamento prudenziale (cioè penalizzante) dei titoli di Stato nei bilanci bancari» - significa ripetere lo stesso schema ricattatorio del passato. Quando pensa di farcelo sapere? Quando sarà troppo tardi per dire no? Come con la riforma del Mes? Non funziona più, non siamo più bambini.
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Riduci
In una agitata riunione notturna, il reggente Vito Crimi ammette: «Ho detto a Gualtieri di avallare la riforma del Mes». È rivoltaDal Fiscal compact al bail in, l'Europa funziona così: prima si decide tutto in segreto, e quando il tema diventa di pubblico dominio, è tardi per fare obiezioni. Proprio il modo in cui il premier gestisce il dibattito sul FondoLo speciale contiene due articoliLuigi Di Maio interviene alla videoassemblea congiunta dei parlamentari pentastellati sul voto del prossimo 9 dicembre sulla riforma del Mes: «Cerchiamo di non spezzare la corda», dice Di Maio, «perché a giocare con il fuoco possiamo farci male». Ma pure la Corda si ribella: «Questo è fascismo. Una conduzione», protesta la deputata Emanuela Corda, «che non ci permette di esprimerci. Solo due minuti e mezzo». Lo psicodramma grillino sul Mes non accenna a placarsi, anzi. I 42 deputati e 16 senatori grillini contrari alla riforma tengono sulla graticola Giuseppe Conte. Una bocciatura della risoluzione di maggioranza aprirebbe la crisi di governo. In queste ore i dissidenti del M5s sono sottoposti a pressioni inimmaginabili per cambiare idea. Il ricatto politico è sempre lo stesso: se cade Conte si va alle elezioni e voi perdete la poltrona. In realtà, non è detto che vada così: morto (politicamente) un premier, nulla vieta di farne un altro. «Se si vuole cambiare idea sulla riforma del Mes», scrive su Facebook il sottosegretario al Mef, Alessio Villarosa, uno dei dissidenti, «lo si fa con una votazione tra i parlamentari o ancora meglio, una votazione tra gli iscritti, così il gruppo verrebbe legittimato a cambiare idea. Abbiamo a disposizione uno strumento come Rousseau, usiamolo». Prove tecniche di ennesima giravolta? Non si sa. Quello che si sa è che da questa vicenda così triste, da qualunque parte la si guardi, chi esce letteralmente a pezzi è don Vito Crimi, reggente per caso del M5s. «Gualtieri è andato in Europa», dice Crimi, «con il pieno mandato perché mi sono assunto la responsabilità di non indebolire la posizione del nostro Paese nei rapporti internazionali europei». Il ministro dell'Economia Roberto Gualtieri che va in Europa con il pieno mandato di Crimi, che però viene a sua volta mandato (a quel paese, non in Europa) da mezzo M5s. La tragedia del governo italiano è tutta qui: trattasi in realtà di una farsa. «La nostra non è una battaglia ideologica», si barcamena Crimi a Sky Tg24, «ma una convinzione, che il Mes, anche quello sanitario, è uno strumento anacronistico, non adeguato a quello che stiamo affrontando. Va superato e smantellato, era nel nostro programma e resta un nostro obiettivo. Anche la riforma non ci piace, perché non cambia gli aspetti negativi dello strumento», aggiunge Crimi, «ma anche se non passasse la riforma, il Mes continuerebbe a esistere, con modalità che riteniamo deleterie». La riforma non ci piace, ma la votiamo. Il Mes vogliamo smantellarlo, ma lo rafforziamo. Vi sembrano contraddizioni? Bazzecole, in confronto al triplo salto mortale con avvitamento rappresentato dalle posizioni odierne rispetto a quanto scriveva il M5s nel suo programma elettorale, pubblicato in prossimità delle elezioni politiche del marzo 2018. «Nel 2012», si legge nel documento, «è stato istituito il Meccanismo europeo di stabilità (Mes) per finanziare i paesi dell'Ue in difficoltà finanziaria in cambio dell'impegno ad attuare un percorso di risanamento della finanza pubblica. Questo percorso si è rivelato nei fatti un calvario che ha distrutto l'economia greca». Non solo: «Nel momento in cui si affida a stati economicamente più forti», recita il programma dei grillini, «la possibilità di poter dettare delle misure rigorose, oltre che dell'agenda economica anche di quella politica, il Mes si sostituisce di fatto alle istituzioni nazionali. La democrazia è divenuta oggetto di trattazione delle organizzazioni finanziarie. Il M5s si opporrà in ogni modo a tutti quei ricatti dei mercati e della finanza internazionale travestiti da riforme. In particolare, ci impegneremo allo smantellamento del Mes (fondo salva Stati) e della cosiddetta Troika». Smantellare e rafforzare, come abbiamo già visto, nel vocabolario grillino sono sinonimi. E come dimenticare il contratto di governo tra Lega e M5s, che fu pilastro del primo governo Conte? «Con lo spirito di ritornare all'impostazione pre Maastricht in cui gli Stati europei erano mossi da un genuino intento di pace, fratellanza, cooperazione e solidarietà», si legge nel testo, «si ritiene necessario rivedere, insieme ai partner europei, l'impianto della governance economica europea (politica monetaria unica, Patto di stabilità e crescita, Fiscal compact, Mes, etc.) attualmente basato sul predominio del mercato e sul rispetto di vincoli stringenti dal punto di vista economico e sociale». Istruttivo rileggere anche qualche passaggio della risoluzione presentata alla Camera il 19 giugno 2019 dai capigruppo di M5s e Lega, Francesco D'Uva e Riccardo Molinari, che impegna il governo «in ordine alla riforma del Meccanismoeuropeo di stabilità, a non approvare modifiche che prevedano condizionalità che finiscano per penalizzare quegli Stati membri che più hanno bisogno di riforme strutturali e di investimenti, e che minino le prerogative della Commissione europea in materia di sorveglianza fiscale; a render note alle Camere le proposte di modifica al trattato Esm, elaborate in sede europea, al fine di consentire al parlamento di esprimersi con un atto di indirizzo e, conseguentemente, a sospendere ogni determinazione definitiva finché il parlamento non si sia pronunciato». Tutto dimenticato, insabbiato, contraddetto. Il M5s si prepara alla più grande figuraccia della sua storia. Se i dissidenti terranno duro, Conte andrà a casa. Se cambieranno idea, il M5s sarà finito. In Forza Italia anche i più convinti sostenitori della riforma del Mes si stanno convincendo del fatto che tenere in vita artificialmente questo governo con qualche «aiutino» sia una pessima idea. Il conto alla rovescia, per Giuseppi, è iniziato. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-movimento-5-stelle-alle-comiche-finali-il-fondo-va-azzerato-quindi-riformiamolo-2649325598.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="sul-salva-stati-conte-usa-il-metodo-ue-non-e-mai-il-momento-per-dire-di-no" data-post-id="2649325598" data-published-at="1607212439" data-use-pagination="False"> Sul salva Stati Conte usa il metodo Ue. Non è mai il momento per dire di no Ora non è il momento, più tardi». Chissà a quanti lettori sarà capitato durante l'infanzia di ascoltare una simile frase dai propri genitori, per respingere una qualsiasi richiesta. Risposta seguita da «ormai è troppo tardi», quando si tornava alla carica, credendo fosse giunto il momento. Purtroppo è il filo conduttore dei nostri rapporti con l'Europa. Senza andare troppo indietro nel tempo, partendo dal 2012, ci siamo ritrovati ad approvare Fiscal compact, equilibrio di bilancio in Costituzione, approvazione del Mes, il cosiddetto Two pack (che blinda il percorso per l'approvazione della legge di bilancio) e il bail in, sempre ricevendo lo stesso trattamento. La fase di discussione vera si è sempre svolta dietro le quinte, con scarso o nullo coinvolgimento dell'opinione pubblica e del Parlamento (dal 2012 la Legge Moavero, purtroppo priva di sanzioni, ha posto fine a questo scempio). Quando, improvvisamente, il tema è uscito dalle segrete stanze dell'Eurogruppo (delle cui riunioni non restano verbali) per approdare al Consiglio Ecofin o all'Eurosummit o al Consiglio europeo, non era più il momento di fare obiezioni perché era troppo tardi, ed abbiamo dovuto silenziosamente subire regole dannose per gli interessi del Paese. A tale danno si è sempre aggiunta la beffa di una postuma resipiscenza, non appena i protagonisti di quelle scelte scellerate hanno abbandonato i rispettivi ruoli. Valga, per tutti, la testimonianza resa anni dopo dallo scomparso ex ministro dell'Economia del governo Letta, Fabrizio Saccomanni, a proposito dell'approvazione del bail-in, fatta in fretta nel dicembre 2013 perché incombevano le elezioni dell'Europarlamento: «…Che cosa poteva succedere all'Italia, al debito pubblico, al nostro spread, in un periodo di tale durata? Era effettivamente un rischio importante. […] Le argomentazioni che noi avanzavamo venissero accolte privatamente dicendo: sì, in effetti voi avete ragione, questa situazione rischia di essere difficile da gestire, però… Lascio i puntini di sospensione per non dire cose più sgradevoli […] nei confronti dell'Italia in quel momento c'era una situazione quasi degasperiana». Saccomanni terminò dicendo che «…si era in una situazione in cui non c'era alcuna possibilità di bloccare il negoziato e, se anche ci fosse stata, sarebbe stato molto probabilmente più dannosa che altro…». Peccato che, al termine di quell'Ecofin, Saccomanni avesse commentato trionfante su Twitter: «Con l'Unione Bancaria risparmiatori meglio tutelati, possibilità più credito e costo denaro più basso». Dopo meno di due anni ci sono state la risoluzione, liquidazione o ricapitalizzazione precauzionale di otto banche con l'indice di Borsa crollato del 60% in pochi mesi. L'ex ministro Giovanni Tria paventò un ricatto, dichiarando in audizione parlamentare che «se l'Italia non accettava, si sarebbe diffusa la notizia che l'Italia non accettava perché aveva il sistema bancario prossimo al fallimento, il che significava avere il fallimento del sistema bancario». Siamo a oggi, e abbiamo il vantaggio di conoscere il copione e poterci liberare della miscela di bugie, ambiguità e arroganza con cui si vuole fare passare la riforma del Mes, che sta allo Stato come il bail in sta alle banche. Uno strumento per la gestione «ordinata» delle crisi, che promette di essere la rovina dello Stato che si vuole «salvare». Ritroviamo quella mistura nelle parole del presidente Giuseppe Conte consegnate a Repubblica ieri. Al netto del tono ultimativo e arrogante di «ora inizia la ricostruzione nel segno dell'Europa e sarà il mio governo a guidarla perché non cadrò sul Mes» (a cui obiettiamo chiedendo dove sia il mandato per decidere il futuro del nostro Paese per così tanti anni a venire), Conte sostiene che «abbiamo ereditato il Mes dai precedenti esecutivi. Abbiamo offerto un contributo importante alla sua riforma». Omette «solo» che era lui il premier del governo precedente e, in quella veste, si impegnò all'Eurosummit del 21 giugno 2019 a «proseguire i lavori su tutto il pacchetto globale». Tale pacchetto comprendeva riforma del Trattato Mes e Bicc (strumento di bilancio per la competitività e la convergenza), oltre al completamento dell'Unione bancaria i cui lavori erano però indietro. Ammesso e non concesso che il Bicc sia stato sostituito dal Next Generation Ue (i due strumenti differiscono per diversi aspetti), per tenere fede ai suoi impegni Conte, al prossimo Euro Summit di venerdì 11, potrà dire solo una cosa: la riforma del Mes è bloccata fino a quando non viene approvato almeno il Ngeu. Altrimenti, delle due l'una: o ha mentito agli italiani e al Parlamento il 21 giugno 2019 o lo farà sia mercoledì a Roma sia venerdì a Bruxelles. Se Conte dichiara che il Mes non gode di grande appeal e proporrà di riconsiderare in modo più radicale la sua struttura e la sua funzione, perché essere ambiguo e approvare ora una riforma che lascia intatti e peggiora tutti i difetti di questa istituzione? Sostenere che «continueremo a lavorare per attuare lo schema europeo di assicurazione dei depositi (Edis)» - dimenticando però che il comunicato dell'Eurogruppo di lunedì scorso fa cenno a un «trattamento prudenziale (cioè penalizzante) dei titoli di Stato nei bilanci bancari» - significa ripetere lo stesso schema ricattatorio del passato. Quando pensa di farcelo sapere? Quando sarà troppo tardi per dire no? Come con la riforma del Mes? Non funziona più, non siamo più bambini.
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Riduci
Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Riduci
Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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