
L'economista Domenico Lombardi: «Non è uno strumento salvifico e avrà conseguenze gravi. Ma il protrarsi delle incertezze sul Recovery fund aggiunge urgenza alla ricerca di altri finanziamenti».Economista, già impegnato in istituzioni globali come il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale, Domenico Lombardi ha accettato di conversare a tutto campo con La Verità sulla crisi post Covid, sulle risposte in campo e sulle possibili alternative. La chiacchierata è avvenuta ieri, domenica, a Consiglio europeo ancora in corso («Speriamo di sbagliare, ma per ora c'è da temere un esito ancora peggiore delle più modeste aspettative della vigilia», annota Lombardi).Da tempo lei ha formulato un'ipotesi, centrata sui Diritti speciali di prelievo (Dsp) del Fondo monetario internazionale, di cui La Verità ha scritto mesi fa, e che poi è stata rilanciata con forza da Giorgia Meloni. Visto il corso degli eventi, la sua proposta appare sempre più d'attualità…«Proprio coloro che ogni giorno evocano i concetti di basso costo e bassa condizionalità per sostenere la tesi del ricorso al Mes dovrebbero a maggior ragione considerare quest'altra ipotesi, in via alternativa o eventualmente anche in via complementare. Qui il costo sarebbe zero e la condizionalità nulla…». Il vantaggio sarebbe quello di non essere ostaggi dell'Ue ma di ricordare che esistono altre istituzioni sovranazionali come il Fmi«È importante sottolineare che non si tratterebbe di una soluzione isolazionista o nazionalista. Infatti è uno strumento che si appoggia a quell'istituzione, il Fmi, che è il cuore della cooperazione economica e multilaterale mondiale».Perché se ne parla poco?«C'è da domandarselo anche in considerazione del fattore tempo, se prendiamo le altre soluzioni in campo. Siamo nella seconda metà di luglio e i fondi europei sono ancora - diciamo - una prospettiva lontana. Se si fossero utilizzati i mesi passati per lavorare anche sul versante dei Dsp, oggi potremmo essere più tranquilli».Mentre parliamo, sono ancora in corso i lavori del Consiglio europeo. Una prima cosa da sottolineare è il rattrappimento della mitica potenza di fuoco. Ad aprile si parlava di 1.500 miliardi complessivi, ora siamo già scesi a 750. La sola Germania, relativamente a marzo, ha immesso 1.100 miliardi…«Non solo, c'è anche il tema della composizione e della qualità dei 750: in prima battuta si era ipotizzata una quota molto più grande di risorse a fondo perduto, mentre ora, se fossero accolte le proposte dei cosiddetti frugali, questa porzione si ridurrebbe moltissimo. Tra l'altro, va ricordato, quando si parla dell'Italia, che siamo stati per anni contribuenti netti dell'Unione, che abbiamo finanziato le crisi degli altri, e dunque, se anche per una volta beneficiassimo in modo cospicuo di un programma, rimarremmo contributori netti rispetto al funzionamento complessivo dell'Ue».E poi c'è la governance. Se passasse l'idea che un solo membro, alzando il dito, può eccepire sull'uso di alcuni fondi, deferendo la questione al giudizio politico del Consiglio europeo, saremmo alla paralisi e alla politicizzazione di tutto. «C'è un paradosso. Da un lato assistiamo al trionfo degli egoismi nazionali, e dall'altro qui in Italia ascoltiamo una retorica finto-europeista che poi ci porta al commissariamento. Dopo di che, già nel 1944 a Bretton Woods si decise la depoliticizzazione delle condizionalità. Mi spiego: un conto è che ci siano delle condizioni, altro conto (inaccettabile) è che le condizionalità si tramutino in un ricatto politico o mettano uno Stato sovrano alla mercé di un altro Paese. Questo approccio, che sembra aver condizionato l'andamento del summit in corso, è in aperta contraddizione con la storia monetaria internazionale dalla metà del secolo scorso». Da mesi, imperversano quelli che abbiamo chiamato i «piazzisti del Mes». Ma davvero qualcuno può credere che bastino dichiarazioni politiche per correggere Trattati e Regolamenti vigenti? Come si fa a sottovalutare il rischio che, tra sei mesi o un anno, ci si impongano misure correttive?«È un rischio vero. In effetti alcuni osservatori rivelano scarsa conoscenza tecnica della governance del Mes. Anche se potenzialmente il programma sanitario del Mes viene presentato a bassa condizionalità, alcune prerogative tipiche del Mes rimangono. E, in particolare per un Paese ad alto debito, questo può diventare un problema. Non è un caso se altri Paesi si guardano bene dal richiederlo…».Questa parte della storia viene raccontata meno…«Si parla del Mes come se fosse uno strumento salvifico, e invece bisognerebbe spiegare bene agli italiani alcune possibili conseguenze. Segnalo anche che alcuni alleati europei, con le loro interviste, hanno finito per accentuare lo stigma. Un mese fa, intervistato su La Repubblica, il ministro francese Bruno Le Maire ha specificato che il Mes è stato creato per i Paesi che hanno difficoltà di accesso ai mercati, e che la Francia non ne ha bisogno. La settimana scorsa il premier spagnolo Pedro Sanchez ha ribadito al Corriere che la Spagna ha ottimo accesso al mercato…».Resta Cipro, che è pronta a aderire. Siamo al «modello Nicosia»? «Cipro è già cliente del Mes. E in passato ha dovuto sostenere una pesante ristrutturazione dei bilanci bancari…». E quindi mi dica la sua valutazione complessiva sulla situazione«Temo che ci sia una decisione già presa da tantissimo tempo sul Mes, e che si discuta solo di tatticismi, anche sulla tempistica, per farla digerire».Anche la storia del minor tasso di interesse non è convincente. Come la pensa lei? «Ma certo, occorre sempre fare confronti tra entità omogenee. Il Mes è un creditore privilegiato, con rimborso prioritario. Ovvio che questo comporti un rischio inferiore e tassi più bassi».Non le pare che il Mes sia diventato più un fine che un mezzo per alcuni? Intendo dire: mi pare che in alcuni osservatori prevalga il desiderio di assoggettare l'Italia a un programma che prevede sorveglianza rafforzata…«Assolutamente sì. Lo stesso protrarsi dell'incertezza su modalità, tempi, quantità del Recovery fund finisce per aggiungere urgenza alla ricerca di altre forme di finanziamento. E indovini alcuni a cosa pensano? Ovviamente, al Mes. Da questo punto di vista, il protrarsi del dibattito ha un effetto asimmetrico, nel senso che l'Italia non sarebbe in grado di attendere per un tempo indefinito. Tutto questo dà ulteriore trazione a chi spinge per il Mes».La scorsa settimana, intervistato su queste colonne, Paul De Grauwe ha ammonito contro il ritorno del Patto di stabilità, con le sue regole e i suoi parametri, parlando di gravi rischi per la crescita e - a quel punto - di una sorta di «patto di stupidità». La sua opinione?«Condivido questa valutazione. Tra l'altro si tratterebbe di una clamorosa contraddizione. Da un lato, in Italia, il governo discute del rinnovo dello stato d'emergenza; dall'altro, in Ue, si darebbe invece un appoggio al ritorno dei meccanismi normali di controllo della finanza pubblica. La realtà è che anche questo sarebbe un modo di mettere altra pressione sull'Italia. Guardiamo la “global picture": tra Mes e Fiscal compact, la tenaglia sull'Italia si farebbe sempre più stringente. E noto anche che questo avverrebbe, per paradosso, con un governo che usa molta retorica pro Europa. Se poi questi fossero i risultati, ci sarebbe davvero da riflettere…».In generale, non le pare che ci sia un eccesso di controllo top-down da parte di Bruxelles sulle capitali, peraltro in assenza di un'adeguata accountability davanti agli elettori europei da parte dell'Ue?«Soprattutto se questo controllo è asimmetrico, se si risolve nel tentativo di creare una rete intorno all'Italia per controllare i nostri residui margini di scelta nella politica economica».Non sarebbe saggio tornare a un modello da Comunità economica europea, evitando eccessi di integrazione politica e fughe in avanti all'insegna di una pericolosa centralizzazione delle decisioni economiche?«Diciamo che non ci sono i presupposti per una ulteriore integrazione, e cercare di promuoverla disattende le aspettative dei cittadini. Eppure certe élites tentano alcuni colpi di coda chiedendo “più Europa"… Pensi anche ad un altro aspetto: chi ha deciso che il dibattito macroeconomico si sia ridotto a due-tre variabili di finanza pubblica, trascurando altri aspetti, ad esempio quello dei surplus commerciali o della concorrenza fiscale sleale?».Ultima domanda. Non le pare che il dibattito su questa Ue stia assumendo contorni ideologici, per non dire «religiosi»? Possibile che alcuni eurolirici abbiano smarrito la capacità di esaminare in modo freddo se un meccanismo istituzionale funziona o no?«Effettivamente, da italiano che per tanti anni è vissuto all'estero, vedo che c'è una sorta di “partito" che dice sempre sì all'Europa, e pretenderebbe di ridurre a dissidenti quelli che osano mettere in discussione qualcosa. Io invece penso che, intellettualmente, tutti abbiano diritto di cittadinanza. E pure in un'assemblea di condominio occorrerebbe sempre rispettare gli equilibri e assicurare una gestione nell'interesse di tutti».
Nicola Pietrangeli (Getty Images)
Fu il primo azzurro a conquistare uno Slam, al Roland Garros del 1959. Poi nel 1976, da capitano non giocatore, guidò il team con Bertolucci e Panatta che ci regalò la Davis. Il babbo era in prigionia a Tunisi, ma aveva un campo: da bimbo scoprì così il gioco.
La leggenda dei gesti bianchi. Il patriarca del tennis. Il primo italiano a vincere uno slam, il Roland Garros di Parigi nel 1959, bissato l’anno dopo. Se n’è andato con il suo carisma, la sua ironia e la sua autostima Nicola Pietrangeli: aveva 92 anni. Da capitano non giocatore guidò la spedizione in Cile di Adriano Panatta, Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci e Tonino Zugarelli che nel 1976 ci regalò la prima storica Coppa Davis. Oltre a Parigi, vinse due volte gli Internazionali di Roma e tre volte il torneo di Montecarlo. In totale, conquistò 67 titoli, issandosi al terzo posto della classifica mondiale (all’epoca i calcoli erano piuttosto artigianali). Nessuno potrà togliergli il record di partecipazioni (164, tra singolo e doppio) e vittorie (120) in Coppa Davis perché oggi si disputano molti meno match.
Gianni Tessari, presidente del consorzio uva Durella
Il presidente Gianni Tessari: «Abbiamo creato una nuova Doc per valorizzare meglio il territorio. Avremo due etichette, una per i vini rifermentati in autoclave e l’altra per quelli prodotti con metodo classico».
Si è tenuto la settimana scorsa all’Hotel Crowne Plaza di Verona Durello & Friends, la manifestazione, giunta alla sua 23esima edizione, organizzata dal Consorzio di Tutela Vini Lessini Durello, nato giusto 25 anni fa, nel novembre del 2000, per valorizzare le denominazioni da esso gestite insieme con altri vini amici. L’area di pertinenza del Consorzio è di circa 600 ettari, vitati a uva Durella, distribuiti sulla fascia pedemontana dei suggestivi monti della Lessinia, tra Verona e Vicenza, in Veneto; attualmente, le aziende associate al Consorzio di tutela sono 34.
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
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Mark Zuckerberg (Getty Images)
Un mio profilo è stato cancellato quando ho pubblicato dati sanitari sulle pratiche omoerotiche. Un altro è stato bloccato in pandemia e poi eliminato su richiesta dei pro Pal. Ne ho aperto un terzo: parlerò dei miei libri. E, tramite loro, dell’attualità.
Se qualcosa è gratis, il prodotto siamo noi. Facebook è gratis, come Greta è pro Lgbt, pro vax, anzi anti no vax, e pro Pal. Se sgarri, ti abbatte. Il mio primo profilo Facebook con centinaia di migliaia di follower è stato cancellato qualche anno fa, da un giorno all’altro: avevo riportato le statistiche sanitarie delle persone a comportamento omoerotico, erroneamente chiamate omosessuali (la sessualità è una funzione biologica possibile solo tra un maschio e una femmina). In particolare avevo riportato le statistiche sanitarie dei maschi cosiddetti «passivi».






