2020-09-03
Il mercante di bellezza che conquistò Bossi
Se ne va Philippe Daverio, collezionista, divulgatore, poliglotta. L'arte lo ha reso famoso ma gli ha anche dato da mangiare: «Chi non capisce il valore dei soldi non può amare l'estetica». Assessore della Lega a Milano: «Con Umberto? Un rapporto folle e divertente».Una volta, mi aveva detto: «Se stai cercando un cittadino d'Europa, auguri. Perché non è facile. Ma se ne vuoi trovare davvero uno, eccomi qua: io sono lumbard, alsaziano e mitteleuropeo. Ma dove lo trovi uno come me?». Ovviamente aveva ragione. Philippe Daverio se n'è andato a 70 anni lasciando un vuoto, perché un altro come lui non c'è, nemmeno a pagarlo oro. Amava raccontare e raccontarsi, e lo avevo intervistato spesso - come sanno bene i lettori della Verità - per questo giornale. E quando raccontava la sua biografia si divertiva a definirsi per paradosso: «Io sono così: bisognerebbe trovare un altro che non sia straniero né in Italia, né in Francia, e nemmeno in Germania». Ho un altro ricordo divertente di questa capacità di auto-definizione geografica di sé stesso che Daverio amava. Durante una puntata di InOnda, due anni fa, avevamo chiesto a lui e a Vittorio Sgarbi di raccontare cosa era l'identità europea a partire da dei quadri di grandi pittori europei. Ne era uscita fuori una puntata indimenticabile per le scintille che scaturivano dal duello intellettuale. Poi, come era inevitabile, i due, dopo essersi studiati, iniziarono a disputare in maniera dottissima ma durissima sul famoso Viandante sul mare di nebbia di Kaspar David Freiderich, uno dei gioielli della stagione romantica. Sgarbi stava dicendo una cosa tecnicamente giusta, e cioè che la nebbia del viandante, un uno dei quadri più famosi del mondo, è un paesaggio metafisico. Ma a quel punto Daverio era esploso in un ululato: «Ma Vittoriooooo! cosa dici? Quelle montagne sono casa mia!». Erano in realtà le montagne della Boemia, ma questo scambio polemico in cui si condensavano autobiografia, spettacolo, cultura e caratteri carismatici (a partire dal suo) fu una delle dispute più godibili in cui Daverio e Sgarbi dicevano entrambi, come Madame Bovary, «il romanticismo c'est moi». Philippe ti spiazzava sempre, e lo dichiarava: «Se cerchi il politicamente corretto non sono la persona giusta». Una volta, dopo il golpe in Turchia, diede scandalo dicendo: «Sono andato a letto, venerdì scorso, tifando per l'esercito turco, nella speranza che deponesse Erdogan. Quando al mio risveglio ho scoperto che Erdogan, l'islamista Erdogan, era ancora al suo posto - concludeva - mi sono depresso». Un'altra volta lo intervistai nella sua bellissima casa-museo, e mi sentii molto provinciale. La scena era esilarante. Daverio, immerso in un divano, con una vistosa camicia a righe viola, bretelle rosse e un vestito carta da zucchero. Mentre lui parlava a me nel suo italiano sofisticato, con un impercettibile accento del Nord, interloquiva con il fratello in un gutturale dialetto alsaziano, e con un amico collezionista (al telefono) in francese, il tutto senza perdere nessun filo. E mentre mi raccontava del suo rapporto profondo con il tedesco, mi spiegava che ne trovava di continuo tracce nel dialetto lombardo, sintetizzando: «La mia idea di Europa nasce intorno a quattro lingue e due dialetti che hanno segnato la mia vita». Ecco, non si può raccontare Daverio senza pensare alla sua lingua, alla sua voce, alla sua straordinaria capacità dialettica, divulgativa, alla sua accuratezza nel vestire, ripercorrendo volutamente le pose del dandy, e gli stilemi dell'anacronismo. Era così inattuale che diventò subito pop, quando (da assessore della giunta milanese leghista, in quota Lega) era diventato un personaggio nazionale. Daverio ti spiazzava. In un altro incontro parlava solo e con orgoglio della sua professione: «Sono un mercante, non sono un accademico: per una vita ho comprato e venduto, trasformato l'arte e la cultura in valore. Chi non capisce il valore dei soldi non può amare il bello». E quando parlava del mestiere che gli aveva dato da vivere diventava un altro Daverio, serio, epico, un personaggio da film americano: «Apro la mia galleria d'arte a via Montenapoleone. E, poco dopo, a New York. Fu la fortuna della mia vita, anche dal punto di vista economico». Avevo provato a interrogarlo sugli ordini di grandezza, chiedendogli di raccontarmi uno dei pezzi più importanti che ti sono passati per le mani. A questo punto gli occhi avevano iniziato a brillargli: «Tanti. Ma se me ne chiedi uno non posso scordare un capolavoro che mi è passato per le mani e che avrebbe dovuto restarmi attaccato». Quale? Chiedevo. E lui, in estasi: «L'ultimo quadro di Umberto Boccioni, che ho venduto in America. Un pezzo di valore i-nes-ti-ma-bi-le». La cosa divertente è che non voleva dirmi a quanto era stato venduto. Poi, domanda e ridomanda, era finalmente crollato: «Eeeehhhh.... 10 milioni di dollari. E la commissione per il gallerista in questo caso superava il 10%». Philippe aveva sentiti che gli facevo i conti in tasca, ma prima che potessi proferire parola aveva aggiunto: «Non devi farti ingannare. Il gallerista è un mestiere molto dispendioso». Gli avevo chiesto se si considerasse «ricco» e lui si era quasi arrabbiato: «Nooooo! Abito in una casa di quasi 400 metri quadri pieni di opere e storia, ma pago anche un affitto spropositato, più di 10.000 euro». Ancora più interessante il racconto di quella sua esperienza nella giunta Formentini in quota Lega Nord. Lui, passato dalle avanguardie novecentesche a Umberto Bossi la definiva «memorabile». Ci era entrato quasi per gioco, trascinato dal suo amico Mario Spagnól, allora alla Bompiani, che gli aveva presentato lo stato maggiore della Lega: «Vuoi che ti descriva il mio rapporto con Bossi? Eccellente. Divertente. Folle». Ancora più interessante il racconto dell'esperienza amministrativa: «Mi sono divertito davvero tanto. Perché ho lasciato dei segni che restano nel tempo. Il Palazzo reale è roba mia. Come la riconversione della Bicocca. Ma non solo: Porta nuova, il Passante, la fiera, le torri, tutti progetti di Formentini, anche portati a termine da altri...». Se gli obiettavi che sembrava una sintesi non carica di modestia ti replicava: «Lo faccio non solo per rendere il giusto merito a Formentini, ma per spiegarti la differenza che in Italia corre fra il tempo delle idee e quello della realtà». Adesso che Daverio ci ha lasciati sappiamo che per andare avanti non dobbiamo dimenticare la sua lezione.
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