2023-08-27
Ma quale società di sottomessi. È il Medioevo l’era del dissenso
La retorica dei «secoli bui» nasconde il fatto che il potere era molto meno pervasivo di oggi. E che gli individui godevano di maggiore autonomia. Non solo, la fede non era un freno, ma la molla per far scattare la rivolta.Se per dissenso consideriamo con il sociologo Leonardo Morlino «ogni forma di disaccordo o atteggiamento negativo verso il regime o il sistema vigente», riesce difficile accettare dallo stesso autore che tale nozione «non è più vecchia di tre secoli e mezzo» e che «il suo riconoscimento e la sua accettazione sono propri della modernizzazione liberale del mondo occidentale». Davvero possiamo tranquillamente includere in blocco il nostro Medioevo occidentale tra le epoche in cui «le diverse forme di assolutismo sono ancora prevalenti» e nelle quali per questo «non vi è posto per tale fenomeno», cioè per il dissenso? In realtà il Medioevo esibisce un campionario notevole di forme di dissenso. [...] Nel Medioevo la diversa qualità delle forme di potere e la loro sostanziale inefficacia nel controllo degli uomini rendevano superflue le rivendicazioni di diritti il cui fondamento era teoricamente teologico e praticamente legato all’impossibilità di esercitare forme di dominazione la cui efficacia fosse anche lontanamente paragonabile a quella degli Stati di età moderna e contemporanea. Per fare un esempio banale ma che forse può chiarire questo punto di vista: nessuno negli anni Ottanta sentiva il bisogno di rivendicare la propria privacy non perché la nostra riservatezza ci stesse meno a cuore rispetto a oggi, ma perché la pervasività delle organizzazioni commerciali e la loro capacità di impossessarsi di notizie sulla nostra persona è infinitamente cresciuta in coincidenza con il mutamento digitale. Da qui si può trarre anche una suggestione utile sul dissenso: esso è inscindibilmente legato alla qualità del sistema delle comunicazioni presente in una determinata epoca. La qualità del sistema di comunicazione influisce, infatti, sia sulla capacità dei detentori del potere di intercettare e di reprimere il dissenso, sia sulla possibilità per i dissidenti di trasformare quello che potrebbe estinguersi come un mero moto interiore di ribellione in effettiva ed esteriore protesta, capace di aggregare attorno a quelle indefinite pulsioni antisistemiche un nucleo relativamente stabile di opinioni e di forze anche militari, in grado di mettere in qualche modo in discussione i fondamenti ideali e reali del sistema di potere dominante.La lotta per le investiture sotto il profilo ora evocato assume un’importanza fondamentale. Ha ragione, infatti, Leidulf Melve quando individua proprio in questo contesto la nascita della public sphere, la sfera pubblica. [...] Non per caso le città italiane della fine del secolo XI presentavano molte delle caratteristiche che il già citato Morlino considera indispensabili per la manifestazione del dissenso: dalla nostra documentazione emerge chiaramente che gli individui avevano risorse proprie e autonome rispetto all’autorità regia o signorile ed erano in grado di gestire e controllare quelle risorse, anche se non era ancora scoppiata la rivoluzione industriale. A questa mancanza cronica di monopolio pubblico nel controllo delle risorse economiche si aggiunga che «l’invadenza totale della religione nella vita quotidiana», lungi dall’impedire il formarsi del dissenso, ne costituiva il presupposto e a esso consegnava i linguaggi e le pratiche in grado di trasformare in un’efficace forza storica queste élite ristrette in competizione [...] La legittimazione della resistenza al sovrano apriva spazi reali al dissenso, che nel caso del gruppo riformatore e dell’aristocrazia tedesca travalicarono di continuo i confini della pubblicistica e si trasformarono in veri e propri scontri militari, minando nel profondo la stabilità del sistema.Un’ultima osservazione meritano le forme di manifestazione del dissenso che abbracciavano una gamma molto ampia di pratiche. Esso si esprimeva all’interno di contesti formalizzati come i sinodi papali e provinciali, ovvero in assemblee a guida ecclesiastica come quelle celebrate a Milano, ove però coesisteva con forme violente di processi popolari sulle pubbliche piazze a danno dei chierici avversati dalla pataria. Non meno importanti e diversificate furono le forme di ritualizzazione e di cerimonializzazione del dissenso come quelle messe in atto dai gregoriani bresciani. Essi periodicamente effettuavano dei pellegrinaggi «identitari» verso le zone che, diversamente dalla loro città, non erano dominate dal partito imperiale ma, grazie alla copertura politico-militare di Matilde di Canossa, garantivano l’esistenza di enclave di resistenza «gregoriana». [...]A fronte di una visione latamente positiva del Medioevo, che per Foucault rappresentava una sorta di polo positivo rispetto alla modernità e alla sua esigenza di «sorvegliare e punire», per R.I. Moore tra X e XIII secolo si sarebbe invece formata una società persecutoria, intollerante e ostile verso i devianti. Possiamo accettare questa impostazione? Un cursorio esame del tema del dissenso durante la lotta per le investiture non sembra andare nella direzione auspicata da Moore. [...]Scorrendo l’indice del libro di Jack Goldstone sulle rivoluzioni, colpisce il salto che dalle «revolutions in ancient world» porta direttamente al capitolo sulle «revolutions in Renaissaince and Reformation». In buona sostanza, uno dei maggiori esperti di storia delle rivoluzioni autorizzerebbe a fare a meno delle pagine che seguono, in quanto sono dedicate al periodo medievale. [...]Lo stesso Goldstone è perfettamente consapevole del fatto che «le rivoluzioni sono estremamente diversificate ed è notoriamente difficile operare una netta separazione tra le rivoluzioni e le rivolte, le ribellioni e le guerre civili, i movimenti di protesta, i colpi di Stato, i movimenti di riforma con i quali le rivoluzioni sono spesso intrecciate». Paul Bertrand per esempio considera la fondazione degli ordini mendicanti come una rivoluzione. Essi sarebbero, infatti, rivoluzionari per il nuovo inquadramento religioso dei laici delle città, per il loro genere di vita, la liturgia, l’impegno culturale, spirituale e pastorale oltre che giuridico ed economico; per il loro approccio alla povertà; per la loro capacità di modellare la vita cittadina, di cui diventano gli attori dominanti. [...] Si pone qui un problema metodologico cruciale per la nostra tematica. Per il Medioevo - o per quello che sbrigativamente consideriamo tale - esiste prima di tutto un problema di «dicibilità», di «narrabilità» del processo rivoluzionario, in quanto, come è ben noto, ogni progettualità oggettivamente innovatrice andava nascosta sotto il velo della reformatio, della riforma intesa come ritorno a una forma, a un modello precedente considerato oggettivamente migliore. Arriviamo, dunque, al paradosso che la rivoluzione non fosse tanto invocata dai protagonisti del processo rivoluzionario per legittimare il proprio operato, quanto piuttosto dai loro avversari, che usavano il carattere eversivo di quello stesso processo per delegittimare chi lo aveva realizzato. Allora quella che per noi è la rivoluzione va cercata non tanto nelle fonti prodotte o in qualche modo riconducibili a chi quella rivoluzione aveva pensato, voluto o realizzato, quanto piuttosto in quelle prodotte dai suoi nemici, che cercavano di trarre vantaggio dal disvelamento dell’altrui progetto rivoluzionario e dalla denuncia del suo carattere eversivo rispetto all’ordine del mondo voluto da Dio. In altri termini le nostre fonti intenzionalmente nascondono la rivoluzione molto più di quanto la raccontino, visto che il nostro paesaggio delle fonti è popolato di norma da testimonianze riferibili alla verità dei vincitori e solo in misura molto minore a quella dei «vinti». [...] Ogni rivoluzione è sostenuta da un giudizio di valore sul passato rispetto al presente. Questa percezione è anch’essa un connotato essenziale dell’agire rivoluzionario. Non per caso proprio le fonti della fine del secolo XI forniscono indizi inequivocabili per chiarire se e quando la coppia antico-moderno abbia smesso di essere usata come semplice categoria di differenziazione cronologica, per trasformarsi in un più o meno implicito richiamo a precisi giudizi di valore e alla delimitazione di differenti universi culturali e istituzionali. Mentre gli autori filo-enriciani consideravano in modo negativo ogni forma di novità, sull’altro fronte la terminologia della modernità era accettata come qualcosa di positivo, sebbene anche Gregorio VII e i suoi fautori cercassero di occultare la rivoluzione sotto il velo della reformatio. A quanti obiettavano che l’investitura dei vescovi da parte delle autorità laiche era giustificata dalla consuetudine, il Pontefice rispondeva col richiamo alla Scrittura, che proiettava il primato petrino in una dimensione metastorica. Sotto le mentite spoglie di una riforma, il papato stava in sostanza realizzando una vera e propria rivoluzione, che contribuì nell’immediato alla crisi del sistema a guida episcopale e imperiale, rimpiazzato dai Comuni in molte città. Nel lungo periodo, la rivoluzione di Gregorio VII gettò le basi della specificità occidentale.
Il valico di Rafah (Getty Images)
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