2020-03-19
Il grido degli allevatori del Lodigiano: «Troppo latte, basta importazioni»
Sulle stalle del primo focolaio del Covid-19 ora si abbattono le conseguenze del «tutti a casa»: domanda crollata, prezzi da fallimento. I produttori chiedono un freno alla concorrenza tedesca, ma il governo latita.«Le vacche vanno munte anche a Natale». Nel senso che il virus lo scacciano come le mosche e non conoscono pause. Ogni giorno il ciclo del latte si rinnova nelle aziende agricole e negli allevamenti del Lodigiano, focolaio dell'epidemia, dove centinaia di agricoltori e allevatori combattono due battaglie: quella personale contro il nemico invisibile e quella collettiva per la sopravvivenza d'impresa. Il crollo della domanda dopo la chiusura di scuole, mense, bar, ristoranti e pizzerie (la mozzarella per la pizza non la compra più nessuno) ha messo in ginocchio il settore ma la produzione di latte non si può interrompere come chiudere un rubinetto. Così si verifica un corto circuito: iperproduzione dell'alimento primario e prezzo in picchiata. Si è passati dai 42 centesimi al litro di media a metà febbraio ai 30 ufficiali di metà marzo, e c'è chi oggi compra a 23. Un tracollo, se fossimo in Borsa avrebbero già chiuso le contrattazioni per eccesso di ribasso. Ma anche se il mercato è cambiato (e non si sa per quanto tempo), il ciclo continua con i suoi riti millenari, le sue tecnologie d'avanguardia, i silos pieni. E la speculazione che galoppa perché ci sono allevatori che, pur di non buttare via un prodotto deperibile dopo un giorno, accettano anche 21 centesimi. Una miseria, se si considera che il pareggio in stalle bene organizzate è stimato a 35 centesimi. «La domanda di materia prima è crollata del 25% e come in guerra c'è chi si approfitta delle difficoltà altrui», denuncia il presidente di Coldiretti, Ettore Prandini. «È inaccettabile disdire al ribasso unilateralmente i contratti, proprio in un momento in cui il Paese ha bisogno del latte italiano. Un ricatto per lucrare sulle difficoltà mentre si moltiplicano le adesioni alla mobilitazione #mangioitaliano. Chi cerca di sfruttare il potere contrattuale per pagare prezzi stracciati è scorretto. Altro che solidarietà nazionale». Contro queste manovre Prandini ha chiesto l'intervento della Guardia di finanza e ha sollecitato il governo a escludere gli speculatori (mediatori e imprenditori senza scrupoli) da qualsiasi forma di indennizzo economico per l'emergenza.Per far fronte all'enorme problema le associazioni degli allevatori pronunciano sempre meno timidamente la parola «autarchia». Il presidente della Cia (Confederazione italiana agricoltori), Dino Scanavino, è uscito allo scoperto: «Bisogna disdire i contratti con l'estero e acquistare latte italiano dai nostri allevatori. Il governo intervenga perché le stalle del nostro Paese non possono e non devono fermarsi». Il problema è sostanzialmente politico perché il maggiore esportatore di latte verso l'Italia è la Germania. Nel settore c'è malumore e la frase «per come ci hanno trattato con le mascherine, meritano questo e altro» è molto gettonata fra gli imprenditori del settore, piccoli e grandi. L'idea delle cooperative per salvare gli allevamenti in ginocchio è semplice: chiudere alle importazioni dalla Germania e stabilire un prezzo del latte da mantenere nell'emergenza (come in Borsa). In un Paese serio accadrebbe questo. Andrea Lugo, direttore dell'associazione allevatori del Friuli Venezia Giulia, mette da parte la diplomazia, non è il momento. «Servono misure urgenti e il governo deve fare in fretta. Deve limitare o addirittura vietare l'importazione di prodotti e materie prime alimentari. Il Paese di mungitura e di trasformazione del latte deve essere l'Italia». Per ora l'esecutivo è latitante. Il ministro delle Politiche agricole, Teresa Bellanova, dopo due dichiarazioni di solidarietà è scomparsa dai radar. E il decreto Cura Italia, che pur considera il settore agricolo, si limita ad autorizzare la cassa integrazione. Un provvedimento che conferma la siderale lontananza della politica dalle logiche dell'agricoltura. «A noi serve poco», spiega Giuseppe Elias, imprenditore agricolo del Lodigiano, già assessore all'Agricoltura della Regione Lombardia. «Questo è il periodo della semina per il foraggio, il lavoro non manca. Non siamo un'industria metalmeccanica. Se mettiamo in cassa integrazione gli addetti, l'anno venturo non diamo da mangiare alle nostre vacche. Da questa emergenza abbiamo capito come i settori strategici - e l'agricoltura lo è - sono fondamentali per un Paese organizzato come il nostro. L'agricoltura garantisce quel substrato di sicurezza alimentare indispensabile per i cittadini. Va mantenuto, ma non a parole. Il sistema dovrebbe reagire con minore timidezza e maggiore vigore».Il virus miete vittime, ogni azienda ha una parte del personale malato. La mazzata è doppiamente dolorosa perché arriva in una stagione strategica, la primavera, nella quale la produzione di latte è ai massimi. Fatta una media di 30 litri capo-giorno, d'estate si scende ai 28 litri per lo stress da caldo degli animali, mentre in questi mesi si arriva a 34, consentendo così al settore di «mettere fieno in cascina» per i periodi grami. Strategie destinate a saltare, si naviga a vista anche perché la dieta dei cittadini ai domiciliari è sostanzialmente cambiata, ci si nutre con alimenti a lunga conservazione e meno con i latticini e i formaggi. Così l'iperproduzione non ha più uno sbocco naturale e ai produttori non resta che evocare il protezionismo o rovesciare il secchio. «Non si tratta di pensieri in libertà, bloccare in maniera importante ciò che arriva dall'estero e favorire il consumo del prodotto interno è fondamentale», conclude Giuseppe Elias, mentre il prezzo del latte scende come mercurio nel termometro e un'altra giornata in trincea si avvicina. Palazzo Chigi è lontano. Dalle campagne e dalle stalle del Lodigiano, in generale dalla vita di chi lotta.
Nel riquadro Roberto Catalucci. Sullo sfondo il Centro Federale Tennis Brallo
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