2019-10-09
Il giorno in cui l’acqua cancellò un mondo
Il 9 ottobre 1963, alle 22.39, 1.917 persone morirono nella tragedia del Vajont, quando un'onda alta quanto un grattacielo scavalcò la diga e spazzò via quattro comuni. Il dramma fu frutto di malagestione, burocrazia e omissioni dolose da parte della politica.Nove ottobre 1963, il disastro del Vajont, se non il primo, fu il più tremendo disastro di una catena che le cronache solitamente classificano come «tragedie annunciate». E che, con il rimpallarsi di responsabilità a tutta prima evidenti, finiscono anche per impantanarsi in procedimenti processuali che, come inghiottiti in un labirinto di burocrazia, non riescono a trovare nomi e cognomi cui presentare il conto della giustizia. Allora, in quell'angolo della valle del Piave, nel cuore della provincia di Belluno, una poderosa onda d'acqua che aveva scavalcato la diga, costruita per alimentare una centrale idroelettrica, trascinò via quattro comuni e si prese la vita di 1.917 persone. Agghiaccianti i numeri che illustrano questo disastro. Il monte Toc, andando in pezzi, lasciò scivolare 270 milioni di metri cubi di detriti. Il materiale precipitò alla velocità di 108 chilometri l'ora e finì nel lago artificiale che stava sotto, facendo letteralmente bollire l'acqua. Nell'invaso - secondo i rilievi acquisiti dall'indagine giudiziaria - ce n'erano 115 milioni di metri cubi. La diga resistette all'urto ma non trattenne l'acqua lanciata fino a 250 metri d'altezza. Almeno 30 milioni di metri cubi sprofondarono contro i villaggi che si trovavano più in basso. […]Che quel dramma non fosse il frutto del caso fu evidente fin dall'inizio. La diga sul Vajont era stata realizzata nonostante e contro le evidenze che ne avrebbero sconsigliato la costruzione. I progettisti non considerarono sufficientemente le caratteristiche morfologiche del territorio troppo friabile e, quindi, poco adatto a ospitare impianti di grandi dimensioni. Tutti gli enti interessati, a cominciare dai consigli comunali, si sforzarono (con dolosità) di nascondere gli elementi di rischio, mascherandoli o minimizzandone la portata. In quelle zone, flagellate dalla miseria, sembrava che con il cemento arrivasse la certezza economica di un lavoro con stipendio assicurato il 27 di ogni mese.E anche in seguito, con incuria e superficialità, trascurarono di segnalare le crepe che, con il tempo, si andavano pericolosamente allargando nella montagna, al di sopra della diga. Le preoccupazioni restarono affidate ai reportage di Tina Merlin corrispondente dell'Unità per le Tre Venezie che, a sua firma, pubblicò il primo articolo il 21 febbraio 1961, due anni e mezzo prima del disastro. Ci rimediò un'imputazione per «diffusione di notizie false e tendenziose, atte a turbare l'ordine pubblico». Il processo si svolse a Milano dove fu assolta. Ma gli allarmi lanciati rimasero senza seguito.I progetti ebbero un'incubazione di decenni. La prima ipotesi per una diga capace di sfruttare la forza delle acque del torrente Vajont risalivano al 1926, a opera dell'ingegner Carlo Semenza. [...] Manco a dirlo dopo le domande per le autorizzazioni, i rilievi, le ispezioni e le controdeduzioni, la diga fu realizzata proprio nel quadrante più meridionale che i tecnici, precauzionalmente, avevano invitato a tralasciare. Nel 1940 sembrava che le pratiche preliminari avessero esaurito il loro iter ma a bloccarne la realizzazione arrivò la guerra. Fu necessario attenderne la fine e, nel 1948 (il 21 marzo), la concessione per una diga «a doppio arco» di 202 metri per un invaso di 58 milioni di metri cubi. […]Nessuno considerò o, per superficialità, ritenne di valutare il pericolo provocato da interventi così massicci su terreni poco compatti e disposti a sfaldarsi. Non a caso, gli abitanti della zona, la montagna che stava intorno, la indicavano come Toc, con un nome che, per assonanza e per significato, avrebbe dovuto stimolare qualche riflessione. […]Titolare del progetto la Sade, azienda elettrica privata che, prima della nazionalizzazione con l'Enel, risultava di proprietà del conte Giuseppe Volpi di Misurata. Il governo partecipò significativamente all'impresa finanziando il 45 per cento degli interventi. A dispetto di una struttura ciclopica, le difficoltà non tardarono a manifestarsi. La più allarmante il 4 novembre 1960 quando una frana di 800 mila metri cubi di materiale definita «di medie dimensioni» obbligò nuovi rilievi geologici e nuovi studi. Che, tuttavia, con la proposta di alcuni rimedi banali, risultarono tranquillizzanti. E, allora, a chi attribuire la responsabilità di un disastro che, per imponenza, rimandava con la memoria a una delle battaglie perdute sull'Altipiano? Il 20 febbraio 1968, a quasi 5 anni da quell'evento, il giudice istruttore di Belluno Mario Fabbri mandò a processo una quindicina di persone che, a vario titolo, erano responsabili tecnici degli impianti. [...] Il processo di primo grado si svolse a L'Aquila. L'accusa chiese 21 anni di reclusione per ciascun imputato. I giudici si limitarono a condannare a 6 anni di carcere Almo Violin, Alberico Biadene e Curzio Batini, assolvendo tutti gli altri. L'appello prima e la Cassazione poi confermarono l'impianto del primo grado con qualche correzione quantitativa delle pene. Biadene, unico in carcere, poté ottenere un condono per motivi di salute. E il comune di Longarone fu costretto a vent'anni di ricorsi alla magistratura per avere un risarcimento. Solo in via transattiva, riuscì a chiudere il contenzioso ottenendo il 33 per cento del valore dei danni subiti.
(Guardia di Finanza)
I peluches, originariamente disegnati da un artista di Hong Kong e venduti in tutto il mondo dal colosso nella produzione e vendita di giocattoli Pop Mart, sono diventati in poco tempo un vero trend, che ha generato una corsa frenetica all’acquisto dopo essere stati indossati sui social da star internazionali della musica e del cinema.
In particolare, i Baschi Verdi del Gruppo Pronto Impiego, attraverso un’analisi sulla distribuzione e vendita di giocattoli a Palermo nonché in virtù del costante monitoraggio dei profili social creati dagli operatori del settore, hanno individuato sette esercizi commerciali che disponevano anche degli iconici Labubu, focalizzando l’attenzione soprattutto sul prezzo di vendita, considerando che gli originali, a seconda della tipologia e della dimensione vengono venduti con un prezzo di partenza di circa 35 euro fino ad arrivare a diverse migliaia di euro per i pezzi meno diffusi o a tiratura limitata.
A seguito dei preliminari sopralluoghi effettuati all’interno dei negozi di giocattoli individuati, i finanzieri ne hanno selezionati sette, i quali, per prezzi praticati, fattura e packaging dei prodotti destavano particolari sospetti circa la loro originalità e provenienza.
I controlli eseguiti presso i sette esercizi commerciali hanno fatto emergere come nella quasi totalità dei casi i Labubu fossero imitazioni perfette degli originali, realizzati con materiali di qualità inferiore ma riprodotti con una cura tale da rendere difficile per un comune acquirente distinguere gli esemplari autentici da quelli falsi. I prodotti, acquistati senza fattura da canali non ufficiali o da piattaforme e-commerce, perlopiù facenti parte della grande distribuzione, venivano venduti a prezzi di poco inferiori a quelli praticati per gli originali e riportavano loghi, colori e confezioni del tutto simili a questi ultimi, spesso corredati da etichette e codici identificativi non conformi o totalmente falsificati.
Questi elementi, oltre al fatto che in alcuni casi i negozi che li ponevano in vendita fossero specializzati in giocattoli originali di ogni tipo e delle più note marche, potevano indurre il potenziale acquirente a pensare che si trattasse di prodotti originali venduti a prezzi concorrenziali.
In particolare, in un caso, l’intervento dei Baschi Verdi è stato effettuato in un negozio di giocattoli appartenente a una nota catena di distribuzione all’interno di un centro commerciale cittadino. Proprio in questo negozio è stato rinvenuto il maggior numero di pupazzetti falsi, ben 3.000 tra esercizio e magazzino, dove sono stati trovati molti cartoni pieni sia di Labubu imbustati che di scatole per il confezionamento, segno evidente che gli addetti al negozio provvedevano anche a creare i pacchetti sorpresa, diventati molto popolari proprio grazie alla loro distribuzione tramite blind box, ossia scatole a sorpresa, che hanno creato una vera e propria dipendenza dall’acquisto per i collezionisti di tutto il mondo. Tra gli esemplari sequestrati anche alcune copie più piccole di un modello, in teoria introvabile, venduto nel mese di giugno a un’asta di Pechino per 130.000 euro.
Soprattutto in questo caso la collocazione all’interno di un punto vendita regolare e inserito in un contesto commerciale di fiducia, unita alla cura nella realizzazione delle confezioni, avrebbe potuto facilmente indurre in errore i consumatori convinti di acquistare un prodotto ufficiale.
I sette titolari degli esercizi commerciali ispezionati e destinatari dei sequestri degli oltre 10.000 Labubu falsi che, se immessi sul mercato avrebbero potuto fruttare oltre 500.000 euro, sono stati denunciati all’Autorità Giudiziaria per vendita di prodotti recanti marchi contraffatti.
L’attività s’inquadra nel quotidiano contrasto delle Fiamme Gialle al dilagante fenomeno della contraffazione a tutela dei consumatori e delle aziende che si collocano sul mercato in maniera corretta e che, solo nell’ultimo anno, ha portato i Baschi Verdi del Gruppo P.I. di Palermo a denunciare 37 titolari di esercizi commerciali e a sequestrare oltre 500.000 articoli contraffatti, tra pelletteria, capi d’abbigliamento e profumi recanti marchi delle più note griffe italiane e internazionali.
Continua a leggereRiduci