Se anche il governo riuscisse a incassare i 10,5 miliardi previsti, cosa assai improbabile visto che finora ne ha in mano meno di 2, i fondi non basterebbero per il nuovo dl Aiuti. Ma la retorica su questa tassa serve ad aggirare il problema dello scostamento.
Se anche il governo riuscisse a incassare i 10,5 miliardi previsti, cosa assai improbabile visto che finora ne ha in mano meno di 2, i fondi non basterebbero per il nuovo dl Aiuti. Ma la retorica su questa tassa serve ad aggirare il problema dello scostamento.Da qualsiasi prospettiva la si analizzi, la tassazione degli extraprofitti delle imprese energetiche dimostra di essere sbagliata o quantomeno insufficiente. Non solo perché il governo non risolve i problemi e nel frattempo aggiunge potenziali aspetti di incostituzionalità. Ma anche perché è una coperta assai corta che tutti tirano senza ammettere che non basterà a coprire né le spese già stanziate, né tantomeno quelle del prossimo decreto in arrivo. Insistere, dunque, pare se non diabolico quantomeno demagogico. Il decreto aiuti da 14 miliardi varato dal governo a inizio maggio prevedeva che la spesa fosse interamente coperta dalla tassa sugli extraprofitti (salita dal 10 al 25% per finanziare un bonus da 200 euro per lavoratori e dipendenti con redditi fino a 35.000 euro) da cui era atteso un gettito da 6,5 miliardi. Poi, a inizio agosto, si è aggiunto il dl Aiuti bis (17 miliardi complessivi). Finora però la tassa ha generato incassi ben al di sotto delle aspettative: il ministero dell’Economia contava di incassare dalla misura circa 10,5 miliardi ma alla scadenza del 30 giugno per versare l’acconto del 40%, le circa 11.000 aziende lungo l’intera filiera energetica italiana avevano pagato solo 1,23 miliardi. Se fosse questo il ritmo dei pagamenti, alla fine del periodo verrebbero raccolti solo poco più di 3 miliardi, oltre 7 miliardi in meno del previsto. L’aliquota del contributo, inizialmente fissata al 10%, è stata incrementata al 25% e riguarda il saldo delle operazioni attive e passive, ai fini Iva, realizzato tra ottobre 2021 e aprile 2022 rispetto a ottobre 2020-aprile 2021. Secondo la tabella di marcia, le imprese interessate avrebbero dovuto versare un acconto del 40% entro il 30 giugno e il saldo a fine novembre. Alla scadenza di fine giugno, però, molte aziende non hanno onorato l’impegno fissato dall’esecutivo e quindi il governo ha deciso una stretta con il dl Aiuti bis stabilendo un percorso in due tappe con sanzioni ridotte per chi ha regolarizzato il dovuto entro il 31 agosto e una multa del 60% di quanto non versato (raddoppiata rispetto alle sanzioni ordinarie già previste) dal primo settembre in poi. Così, nell’ultimo giorno utile per mettersi in regola con la tranche di pagamenti chiesti dal governo, l’Eni ha messo mano alla calcolatrice per rifare i conti su quanto versare all’Agenzia delle entrate. Sulla base dei nuovi calcoli, il gruppo guidato da Claudio Descalzi ha visto quasi triplicare il proprio contributo da 550 milioni a 1,4 miliardi complessivi. Il punto adesso è questo: mettiamo che dopo la stretta e i ravvedimenti operosi vengano versati nella seconda tranche allo Stato un altro miliardo, o addirittura 2, ne ballerebbero ancora 7 per coprire gli aiuti stanziati con i due decreti. Mettiamo che anche nell’ultimo quadrimestre arrivino altri 3 miliardi (per competenza fiscale). Mettiamo che i soldi stanziati non saranno effettivamente tutti quelli spesi (in passato è già successo e i fondi solitamente sono stati utilizzati per i decreti successivi), e il «buco» da riempire» diventi più piccolo, il problema resta. Serviranno a malapena per coprire le spese dei «vecchi» decreti. Sarà quindi difficile utilizzarli per quello nuovo in arrivo, la coperta è sempre quella. E allora come verrà finanziato? Nel Def il governo ha detto che incasserà «x» di tasse ma si tratta di una previsione perché l’inflazione ha fatto salire i prezzi e dunque gli incassi Iva e quel gettito in più lo potrà usare. La risposta potrebbe quindi essere che la prossima tranche di aiuti verrà coperta con l’extragettito di luglio che vale circa mezzo miliardo, mentre quello di agosto vale 650 milioni. Quindi arriviamo a 1,2 miliardi. Il problema è che l’extragettito di agosto si consolida il 15 di settembre. È dunque tecnicamente difficile usarli. E anche se potessero essere utilizzati nel breve, e anche ipotizzando un ricalcolo dei risparmi, non si arriverebbe a più di 3 miliardi. Ecco perché insistere sulla demagogia degli extraprofitti sembra più un mezzo per aggirare lo scostamento di bilancio. Senza dimenticare che molte aziende hanno già pronti nel cassetto i ricorsi per incostituzionalità. Acea ha comunicato di aver versato 28,5 milioni alle casse delle Entrate, ma di aver già pronto il ricorso spiegando che «una parte significativa della base imponibile identificata per le società del gruppo non è riconducibile agli extraprofitti che il legislatore intende tassare, bensì a operazioni straordinarie» Vincere non sarà difficile. Non solo per Acea, ma anche per tutte le altre imprese che evidentemente attendono l’addio di Mario Draghi per scatenare il fuoco di sbarramento legale. Del resto, c’è il precedente illustre della Robin tax targata Giulio Tremonti.
Stefano Antonio Donnarumma, ad di Fs
L’amministratore delegato Stefano Antonio Donnarumma: «Diamante 2.0 è il convoglio al centro dell’intero progetto».
Rete ferroviaria italiana (Rfi), società del gruppo Fs, ha avviato un piano di rinnovo della propria flotta di treni diagnostici, i convogli speciali impiegati per monitorare lo stato dell’infrastruttura ferroviaria. L’operazione prevede nei prossimi mesi l’ingresso in servizio di due nuovi treni ad Alta velocità, cinque destinati alle linee nazionali e 15 per le reti territoriali.
L’obiettivo dichiarato è quello di rafforzare la sicurezza e la regolarità del traffico ferroviario, riducendo i rischi di guasti e rendendo più efficace la manutenzione. Tra i nuovi mezzi spicca il convoglio battezzato Diamante 2.0 (Diamante è l’unione delle prime tre sillabe delle parole «diagnostica», «manutenzione» e «tecnologica»), un treno-laboratorio che utilizza sensori e sistemi digitali per raccogliere dati in tempo reale lungo la rete.
Secondo le informazioni diffuse da Rfi, il convoglio è in grado di monitorare oltre 500 parametri dell’infrastruttura, grazie a più di 200 sensori, videocamere e strumenti dedicati all’analisi del rapporto tra ruota e rotaia, oltre che tra pantografo e catenaria. Può viaggiare fino a 300 chilometri orari, la stessa velocità dei Frecciarossa, consentendo così di controllare le linee Av senza rallentamenti.
Un’ulteriore funzione riguarda la misurazione della qualità della connettività Lte/5G a bordo dei treni ad Alta velocità, un aspetto considerato sempre più rilevante per i passeggeri.
«Diamante 2.0 è il fiore all’occhiello della flotta diagnostica di Rfi», ha affermato l’amministratore delegato del gruppo, Stefano Antonio Donnarumma, che ha viaggiato a bordo del nuovo treno in occasione di una corsa da Roma a Milano.
Attualmente, oltre al nuovo convoglio, Rfi dispone di quattro treni dedicati al monitoraggio delle linee tradizionali e di 15 rotabili destinati al servizio territoriale.
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