
Con la sua mite arroganza ha conquistato poco meno di un voto disgiunto su due di quelli espressi per il M5s. Ha rifatto il proprio look e ha puntato molto sul sodalizio di ferro con il segretario dei dem.L'ultimo a fare le spese del suo leggendario caratterino, in una rovente serata di talk televisivo, è stato l'ex direttore del Fatto quotidiano Antonio Padellaro. Il giornalista aveva fatto una domanda sapida al candidato del centrosinistra, ma con tono come al solito compassato e cortese. Il presidente dell'Emilia Romagna, invece lo aveva trafitto in contropiede con una risposta affilata e sgarbata: «Io non mi faccio dare lezioni da lei!». Subìto dopo, dietro le quinte i due si sono chiariti, ma il temperamento di Stefano Bonaccini è placido e insieme saturnino, pacato ma talvolta umorale, e fa venire in mente una celebre massima di Sandro Pertini: «Tutti gli uomini di carattere hanno un cattivo carattere, e io modestamente ho carattere».In Emilia ha vinto lui, e - come vedremo tra poco - ha vinto anche per alcune sue scelte testarde e cocciute, fino a sfidare il suo stesso staff. Ha vinto rimodellando il suo corpo con una metamorfosi studiata a tavolino, e sfiorando addirittura l'eccesso kitch dopo aver pubblicato sui social delle foto stile Arnold Schwarzenegger in cui faceva flessioni a due mani con bicipiti scolpiti. Troppo. Un giorno gli chiesi se quella scelta di esibizione palestrata non fosse troppo difforme rispetto alla sua storia, e lui mi rispose con toni zuccherini e apparentemente dimessi: «Sì, forse è stato un errore, ma io faccio palestra perché da piccolo avevo un soffio al cuore, e il medico mi ha chiesto di dedicare una particolare cura al mio fisico. Non dovevo pubblicarle», aveva concluso Bonaccini, «è stato un piccolo peccato di vanità». Si potrebbe partire da questo dettaglio per capire la complessità del personaggio: era vero lo scaltro Bonaccini che postava la foto, o il mite che disconosceva l'atto? Forse entrambi. Sta di fatto che il Bonaccini che è entrato nell'anno del voto era grasso, sovrappeso, con un che di apparatcick comunista che non gli si scollava di dosso. Quello che è uscito trionfatore dalla maratona di domenica notte era una crisalide diventato farfalla. Dimagrito, con il fisico scolpito, con un look tutto stravagante, eccentrico e inincasellabile: doppiopetto stile balera, Ray-ban giganti a goccia stile Gianfranco Fini, barba da Babbo Natale e magliette di flanellina a girocollo che non si vedevano dagli anni Settanta. Confesso, ancora una volta, di non averci capito nulla. Gli dissi di cambiare il look se non voleva passare per il capitano di una nave di diporto. Lui mi rispose: «Avevo il dolcevita perché ero influenzato!». E poi mi mandó un messaggino con un emoticon che piangeva dal ridere. Il Bonaccini zuccherino mi aveva fregato di nuovo, perché pochi giorni dopo uscì il logo elettorale con gli occhiali stilizzati e la barba. È così fu tutto chiaro: Bonaccini lo scaltro aveva riscritto sé stesso togliendosi di dosso l'antropologia dell'apparato nell'unico modo possibile. Per contrario: il logo disneyano è stato una chiave del suo successo: colori verde Padania, niente simbolo del Pd, immagine quasi da cartoon. È così che Bonaccini ha conquistato poco meno di un voto disgiunto su due (percentuale mostruosa rispetto agli standard) di quelli espressi per il M5s. E su questo punto cruciale della campagna elettorale bisogna proprio dire: ha vinto «Zingaccini», perché fu il segretario del Pd a sostenerlo graniticamente (cosa che non fece affatto con Mario Oliverio in Calabria) quando tutti volevano farlo fuori ed immolarlo sull'altare di una alleanza con il M5s. Va detto che Bonaccini lì puntó i piedi: nessun passo indietro, dritto per la sua strada. Andò a Otto e mezzo e disse: «Se il Movimento vuole entrare in coalizione bene. Altrimenti io ci sarò comunque». Amen. Con il senno del poi, quella che allora sembrava una scelta kamikaze (alle politiche in Emilia Romagna il M5s era al 26,5%) è stata la seconda mossa vincente. «Zingaccini» esiste anche perché i due dioscuri del nuovo Pd hanno due vite parallele con curricula mostruosamente simili: entrambi nella Fgci. Poi entrambi nel Pci. Quindi entrambi nella Sinistra giovanile (Nicola segretario, Stefano dirigente nazionale). Entrambi dirigenti di partito, entrambi presidenti di regione, entrambi ricandidati. Entrambi periferici alla conquista delle metropoli. Zingaretti dal quartiere Laurentino, Bonaccini da Campogalliano provincia di Modena. Entrambi da una famiglia semplice. Il futuro presidente dell'Emilia Romagna è figlio di un camionista comunista. Campogalliano è la storica dogana dei tir diretti verso il Nord. Lui cresce tra le Feste dell'Unità (dove accudisce costate e salsicce) la polisportiva vicino casa, il centro giovanile di villa Bartolini. Vive ancora nella casa dove è nato. Tutto questo, anni dopo, è diventato narrazione elettorale: «Abito dove sono cresciuto. E lì ho scelto di rimanere anche quando il lavoro mi ha portato fuori, prima a Modena e poi a Bologna, a Roma e in giro per il mondo. Sono radici forti e profonde: ti tengono con i piedi piantati per terra e ti ricordano ogni giorno chi sei e da dove vieni». Bonaccini ha appena compiuto 53 anni. È sposato due volte, l'ultima con Sandra Notari, una apprezzata stilista che viene chiamata con affetto «la Prada di Modena». Sandra realizza e vende i modelli che lei stessa progetta. Aveva una figlia da una precedente relazione, a cui Bonaccini ha fatto da padre. Un'altra l'hanno avuta insieme. La prima passione di Stefano è stata il calcio: molti chili fa era un centravanti d'area che ai tempi della Fgci tutti volevano in squadra per vincere i tornei fra i circoli territoriali e studenti medi: segnava. Timido in pubblico, Bonaccini si scatenava in privato, e furoreggiava nelle tavolate imitando certo tipi da bar modenesi, a partire dallo slang e raccontando barzellette. Celeberrimo un certo personaggio Ito Ato Uto, che in un dialetto strettissimo si raccontava sempre al passato. Il futuro governatore divenne presidente da segretario regionale, quando apparentemente diceva di voler restare al partito. Lo andarono a pregare, e così fece le scarpe al candidato che allora sembrava più probabile di lui, Matteo Richetti. Ma per realizzare questo colpo Stefano pagò un prezzo alla gloria: fece addolorare Pierluigi Bersani, che ne aveva propiziato l'ascesa, per il suo passaggio a Matteo Renzi. Ma quando Zingaretti scende in campo, riecco «Zingaccini»: Stefano cambia di nuovo campo, bruscamente, e sostiene l'ex compagno contro Roberto Giachetti. Così si è guadagnato la riconferma. Abile, risoluto, grande tombeur des femmes da ragazzo (aveva boccoli e occhi azzurri) ma anche spietato - all'occorrenza. Culo di pietra infaticabile: un giorno al sottoscritto che lo inseguiva per una intervista da tutto il giorno per La Verità (erano le 23.00) disse serissimo: «Ci sentiamo all'una, quando mi sono tolto le incombenze». Così fece. Come ben sanno i suoi assessori, invitati a improbabili colazioni di lavoro, sempre fra le 6.30 e le 7.00. Anche queste giornate di 16 ore hanno prodotto un primato da esibire in campagna elettorale: «Ho visitato praticamente tutti i 328 Comuni dell'Emilia Romagna: dal più grande, Bologna, al più piccolo, Zerba, in provincia di Piacenza, unico Comune della regione con meno di cento abitanti». Qui il Bonaccini «sborone» vanta i suoi crediti: «Conosco i nomi di tutti i sindaci e per ogni centro potrei indicare le imprese o i luoghi di interesse più importanti, i punti di forza e di debolezza. Non è un vezzo: è un'idea del territorio e della comunità, di come si governa, di quale sia la funzione delle istituzioni e della politica». A lungo si è vociferato, in campagna elettorale, di Stefania Bondavalli, una giornalista «spin doctor» - detta la Lilli Gruber di Reggio Emilia - che gli avrebbe dato consigli di immagine . Ma il suo portavoce Stefano Aurighi lo prende in giro: «Purtroppo decide tutto da solo». Ha vinto dando una carezza alla Borgonzoni, non parlando mai del governo Conte, ripetendo come un mantra: «Salvini da lunedì non sarà più in Emilia». Adesso a sinistra tutti lo indicano come modello. Ma per tutto quello che ho raccontato, se fosse così, è davvero un modello irripetibile.
Nadia e Aimo Moroni
Prima puntata sulla vita di un gigante della cucina italiana, morto un mese fa a 91 anni. È da mamma Nunzia che apprende l’arte di riconoscere a occhio una gallina di qualità. Poi il lavoro a Milano, all’inizio come ambulante e successivamente come lavapiatti.
È mancato serenamente a 91 anni il mese scorso. Aimo Moroni si era ritirato oramai da un po’ di tempo dalla prima linea dei fornelli del locale da lui fondato nel 1962 con la sua Nadia, ovvero «Il luogo di Aimo e Nadia», ora affidato nelle salde mani della figlia Stefania e dei due bravi eredi Fabio Pisani e Alessandro Negrini, ma l’eredità che ha lasciato e la storia, per certi versi unica, del suo impegno e della passione dedicata a valorizzare la cucina italiana, i suoi prodotti e quel mondo di artigiani che, silenziosi, hanno sempre operato dietro le quinte, merita adeguato onore.
Franz Botrè (nel riquadro) e Francesco Florio
Il direttore di «Arbiter» Franz Botrè: «Il trofeo “Su misura” celebra la maestria artigiana e la bellezza del “fatto bene”. Il tema di quest’anno, Winter elegance, grazie alla partnership di Loro Piana porterà lo stile alle Olimpiadi».
C’è un’Italia che continua a credere nella bellezza del tempo speso bene, nel valore dei gesti sapienti e nella perfezione di un punto cucito a mano. È l’Italia della sartoria, un’eccellenza che Arbiter celebra da sempre come forma d’arte, cultura e stile di vita. In questo spirito nasce il «Su misura - Trofeo Arbiter», il premio ideato da Franz Botrè, direttore della storica rivista, giunto alla quinta edizione, vinta quest’anno da Francesco Florio della Sartoria Florio di Parigi mentre Hanna Bond, dell’atelier Norton & Sons di Londra, si è aggiudicata lo Spillo d’Oro, assegnato dagli studenti del Master in fashion & luxury management dell’università Bocconi. Un appuntamento, quello del trofeo, che riunisce i migliori maestri sarti italiani e internazionali, protagonisti di una competizione che è prima di tutto un omaggio al mestiere, alla passione e alla capacità di trasformare il tessuto in emozione. Il tema scelto per questa edizione, «Winter elegance», richiama l’eleganza invernale e rende tributo ai prossimi Giochi olimpici di Milano-Cortina 2026, unendo sport, stile e territorio in un’unica narrazione di eccellenza. A firmare la partnership, un nome che è sinonimo di qualità assoluta: Loro Piana, simbolo di lusso discreto e artigianalità senza tempo. Con Franz Botrè abbiamo parlato delle origini del premio, del significato profondo della sartoria su misura e di come, in un mondo dominato dalla velocità, l’abito del sarto resti l’emblema di un’eleganza autentica e duratura.
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A rischiare di cadere nella trappola dei «nuovi» vizi anche i bambini di dieci anni.
Dopo quattro anni dalla precedente edizione, che si era tenuta in forma ridotta a causa della pandemia Covid, si è svolta a Roma la VII Conferenza nazionale sulle dipendenze, che ha visto la numerosa partecipazione dei soggetti, pubblici e privati del terzo settore, che operano nel campo non solo delle tossicodipendenze da stupefacenti, ma anche nel campo di quelle che potremmo definire le «nuove dipendenze»: da condotte e comportamenti, legate all’abuso di internet, con giochi online (gaming), gioco d’azzardo patologico (gambling), che richiedono un’attenzione speciale per i comportamenti a rischio dei giovani e giovanissimi (10/13 anni!). In ordine alla tossicodipendenza, il messaggio unanime degli operatori sul campo è stato molto chiaro e forte: non esistono droghe leggere!
Messi in campo dell’esecutivo 165 milioni nella lotta agli stupefacenti. Meloni: «È una sfida prioritaria e un lavoro di squadra». Tra le misure varate, pure la possibilità di destinare l’8 per mille alle attività di prevenzione e recupero dei tossicodipendenti.
Il governo raddoppia sforzi e risorse nella lotta contro le dipendenze. «Dal 2024 al 2025 l’investimento economico è raddoppiato, toccando quota 165 milioni di euro» ha spiegato il premier Giorgia Meloni in occasione dell’apertura dei lavori del VII Conferenza nazionale sulle dipendenze organizzata dal Dipartimento delle politiche contro la droga e le altre dipendenze. Alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, a cui Meloni ha rivolto i suoi sentiti ringraziamenti, il premier ha spiegato che quella contro le dipendenze è una sfida che lo Stato italiano considera prioritaria». Lo dimostra il fatto che «in questi tre anni non ci siamo limitati a stanziare più risorse, ci siamo preoccupati di costruire un nuovo metodo di lavoro fondato sul confronto e sulla condivisione delle responsabilità. Lo abbiamo fatto perché siamo consapevoli che il lavoro riesce solo se è di squadra».





