2021-06-08
Il fratello buono di Saman punta il dito contro lo zio. «È stato lui a strangolarla»
Per la Procura si tratta di omicidio premeditato. Agghiaccianti scambi di messaggi in chat dopo la presunta esecuzione da parte dei parenti: «Un lavoro fatto bene»«È l’unico a cui voglio bene» diceva Saman. Una famiglia di satrapi. Lui invece no. Adesso è proprio il fratello sedicenne a rivelare i dettagli della sua morte. Quella di una ragazza pachistana, che ebbe l’imperdonabile torto di ribellarsi al matrimonio combinato. Racconta il ragazzo: «Secondo me, lo zio l’ha uccisa strangolandola». A mani nude. Come le bestie di mafia. Hasnain Danish, trentatrenne sparito nel nulla, si sarebbe poi rivolto al nipote, minacciandolo: «Ha detto che se io avessi rivelato ai carabinieri cos’era successo, mi avrebbe ucciso». Il ragazzo meditava vendetta: freddare il presunto killer nel sonno. «Ma poi ho pensato che c’avrebbero pensato i carabinieri». La sua testimonianza è «una piena prova indiziaria», scrive il gip di Reggio Emilia, Luca Ramponi. Quel giovane «è particolarmente credibile». «Ora vi dico tutta la verità» esordisce qualche giorno fa il sedicenne, ospite di in una comunità protetta, prima di riferire gli atroci particolari. La notte tra il 30 aprile e il 1° maggio scorso, assicura, lo zio avrebbe detto ai genitori: «Ora andate in casa. Ora ci penso io». Sarebbe stato lui a liberarsi, una volta per tutte, di quella cocciuta che anelava a un po’ di libertà. E il padre, ricorda il ragazzo, al rientro di Danish «si è sentito male e ha iniziato a piangere, stava quasi per svenire». Anche lo zio avrebbe «pianto molto». Dopo avere confessato, sottende il ragazzo. E poi? Da un mese, tra le sconfinate serre coltivate a cocomero, si cerca il corpo di Saman. «Io gliel’ho chiesto dov’era» racconta ancora il sedicenne. «Volevo abbracciarla un’ultima volta. Lui mi ha risposto di non potermelo dire». Omicidio premeditato. La procura di Reggio Emilia cambia quindi il capo d’imputazione. Assieme allo zio, sono indagati i genitori e due cugini. Nell’ordinanza di custodia in carcere, il gip ricostruisce la sera dello scorso 30 aprile. Saman tenta di fuggire, dopo una violenta lite con la madre e il padre. Loro urlano. Lei gli chiede indietro il suo documento d’identità. Voleva sposare un altro? No, assicura Saman. Prende le sue cose. Va via. E l’uomo chiama Danish. Deve riportarla indietro, a ogni costo. «Tutto sistemato» annuncia infine lo zio al suo ritorno. L’ordinanza ricostruisce pure inquietanti frammenti di vita familiare. Il padre, Shabbar Abbas, aveva impedito alla figlia di frequentare le superiori. «Spesso la chiudeva fuori casa obbligandola a dormire sul marciapiede» aggiunge il gip. «Voleva costringerla tornare in Pakistan per sposare un cugino». Così a fine novembre, lei si allontana da casa. È ancora minorenne. Finisce in una comunità protetta. Ma poi, l’11 aprile 2021, torna. «Stava sempre in casa. Non parlava con nessuno. Usciva solo per fare qualche passo, accompagnata dalla madre» racconta agli investigatori il titolare dell’azienda agricola dove lavorano i familiari di Saman. È stato lui, il proprietario, a far installare tempo fa delle telecamere di sorveglianza. La ragazza viveva con i genitori in una cascina lì accanto. Alcune riprese di quei giorni sono finite nell’inchiesta. È la sera del 29 aprile scorso. Si vedono tre persone. Hanno due pale, un secchio, un sacchetto azzurro e un piede di porco. Vanno verso i campi. Rientrano dopo circa due ore e mezza. Quei tre uomini, per gli inquirenti, sono lo zio di Saman e due cugini: Nomanulhaq Nomanulhaq e Ikram Ijaz, arrestato in Francia, destinato all’estradizione. Quell’armamentario sarebbe servito per scavare la fossa destinata a Saman. Il giorno seguente, la sera del 30 aprile, le telecamere riprendono la ragazza. Esce di casa con i genitori. Si incamminano verso un sentiero. Dieci minuti dopo, padre e madre tornano indietro. Da soli.Insomma, prove e indizi convergono. La testimonianza del fratello. Le immagini registrate dalle telecamere. E gli audio recuperati dagli inquirenti. «Un lavoro fatto bene, se ci chiedono di lei diremo che sta in Pakistan» si vanta lo zio in chat con una conoscente. E poi il c’è il messaggio vocale mandato da Saman al fidanzato, un giovane connazionale. La diciottenne, in quel momento, è nella sua stanza, riferisce il ragazzo agli investigatori. Ha preso il cellulare della madre, Nazia Shaeeen, a sua insaputa. Le ha sentito dire che quella sarebbe l’unica «soluzione» per punirla, a causa della tenace avversione al matrimonio combinato. Parlava della sua uccisione? Saman ne è certa. Prima, avverte il fidanzato. Poi, chiede direttamente alla donna. Che nega: si riferiva ad altro, assicura. La figlia non le crede. Così manda un audio al ragazzo: «L’ho sentita con le mie orecchie, ti giuro che stavano parlando di me». Aggiunge: «Se non mi senti per 48 ore rivolgiti alle forze dell’ordine». Saman è inghiottita dalla notte. Ma anche il clan Abbas sparisce da Novellara. I genitori vanno in Pakistan. Gli altri sono diretti in Francia. Il 9 maggio lo zio, il fratello e due cugini vengono fermati in provincia di Imperia, vicino al confine. Non hanno i documenti in regola, ma si eclissano dopo il controllo. Mentre il sedicenne finisce in un centro per minori. Poi è sentito dai carabinieri, che scoprono della scomparsa di Saman. Dov’è finita la ragazza? «In Belgio», assicurava qualche giorno fa il padre dal Pakistan. La procuratrice di Reggio Emilia, Isabella Chiesi, lo sconfessa: «Non è lì». Si continuano a cercare i resti nei campi attorno alla cascina: «Siamo in grado di ritrovare il corpo» assicura il magistrato. Oggi si comincia a scandagliare il sottosuolo con l’elettromagnetometro. Tra le amene serre, in cerca di quella diciottenne che amava canticchiare Sfera Ebbasta: «Quando chiami tu mi chiedi: “Dove sei?”».
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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