2018-10-20
Il femminismo raggela la glaciale Islanda
Per Il Venerdì di Repubblica l'isola è l'eden dell'eguaglianza di genere, con la premier lesbica e la «vescova» luterana. Però per parificare i salari, le aziende hanno abbassato quelli degli uomini. E negli asili sono rispuntate addirittura le classi separate.Un giorno di cinque anni fa la signora Hanna si alzò e decise di fare causa alla sua azienda, che la pagava meno di un maschio fannullone. Poiché siamo a Reykjavik, Islanda, soprannominata l'«isola delle donne», il giudice (donna) le diede ragione. E ordinò al cancelliere (donna) di far recapitare la sentenza alla società nelle mani dell'amministratore delegato (donna) che avrebbe dovuto comunicare al capo del personale (donna) di far rispettare la sentenza. Ma poiché le regole del business sono trasversali anche dalle parti del circolo polare, a fine mese Hanna si trovò in busta lo stesso stipendio di sempre. Lo avevano abbassato al maschio alfa. Come direbbe Roger Federer, parità. Anche questa è uguaglianza e la storiella viene portata ad esempio delle storture alle quali si va incontro quando si parla di gender gap (il differenziale di genere) con il fanatismo tipico dei movimenti di piazza ispirati al Metoo. Nell'isola di ghiaccio, laboratorio sociale di 330.000 abitanti (praticamente un po' più di Bari) è stata varata una legge per imporre stipendi uguali a uomini e donne e per incanalare gli abitanti verso la società più femminista del mondo, in cui l'uguaglianza assoluta si impantana nella burocrazia più rigida: le aziende hanno l'obbligo di farsi certificare gli adempimenti di genere da società apposite (pena 400 euro di multa al giorno). Esattamente come da noi accade per salute e sicurezza. Con un rischio: per non incorrere nelle ire del governo le aziende smetteranno di assumere uomini. La rivoluzione di genere islandese sconfina soprattutto nel terrore gentile di asili separati, strip bar fuorilegge, bambini educati ad essere effeminati. E lo Stato controlla tutto, punendo gli allegroni vecchio stampo, anzi relegandoli negli anfratti dedicati ai reprobi con quel profumo di socialismo orwelliano in cui gli scandinavi sono campioni almeno quanto i vecchi bolscevichi. Con il risultato finale di dover gestire uomini repressi e indecisi, che a loro volta si sentono discriminati e scelgono la via dello psicanalista. L'anno scorso, su 34 suicidi, 32 sono stati compiuti da maschi adulti. E a poco è servita la promessa del governo: «Anche gli uomini avranno aumenti di stipendio se si sentiranno discriminati». In una società planetaria sempre più liquida e multietnica con accessi di follia, la parità di genere (anzi la parità di Venere) è un obiettivo sensato, da perseguire con politiche intelligenti. Ma di tutto abbiamo bisogno tranne che di un neofemminismo da baccanti, di un reggimento di Lisistrate con duemila anni di ritardo, di un mondo senza equilibrio che passa dalla schiavitù della donna all'accusa di sessismo per chi apre la portiera dell'auto alla compagna.Niente a che vedere con la meritocrazia, qui imperversano le esagerazioni. Da una parte l'ultima mostra del cinema di Venezia aveva selezionato venti pellicole di registi maschi e una sola firmata da una donna, Jennifer Kent, attirandosi i lazzi di Hollywood Report sulla «mascolinità tossica italiana» condita da luoghi comuni tardoberlusconiani. Poiché per scorno del direttore del festival Alberto Barbera nessun regista s'è rivelato un nuovo Stanley Kubrick, ecco che la critica aveva un senso. Più che una scelta era una ghettizzazione o il frutto di stupidità gallica con il papillon, secondo cui la donna dovrebbe limitarsi a passeggiare scosciata sul red carpet.Accanto al machismo fuori dal tempo esiste una realtà contraria e pericolosa, quella che tende a sostituire il patriarcato con il matriarcato travestito da parità di genere. Accade appunto in Islanda, scoperta con entusiasmo dal Venerdì di Repubblica, che lancia in prima pagina un interessante e ansiogeno reportage sull'isola delle donne, dove dominano il pensiero unico, il fanatismo sessista al contrario e una società che pur di imporre il risultato di uno a uno nei rapporti uomo-donna scivola allegramente nel passatismo più imbarazzante. L'Islanda è il simbolo di una rivoluzione in cui le Erinni occupano il potere, metallizzate nel trucco e prussianizzate nel passo, quando escono di casa con lo sguardo da battaglia. Lassù le donne hanno definitivamente scalzato gli uomini nel 2009 dopo il crack finanziario del paese. Gli islandesi presero sul serio il motto di Wall Street («Se quella banca si fosse chiamata Lehman Sisters non sarebbe fallita») e votarono come premier la signora Johanna Siguröardottir, ambientalista di 42 anni, dichiaratamente lesbica. Il governo è a maggioranza femminile, l'amministrazione pubblica pure e l'autorità religiosa, per non rimanere indietro un giro, s'è adeguata: la numero uno della chiesa luterana è una vescova.La descrizione di un asilo modello mette i brividi. Bambini e bambine non si distinguono, vestiti come sono con tutine rosse e blu (i colori della bandiera). Stanno in classi separate come accadeva in Italia negli anni Cinquanta perché - spiega ovviamente una signora al ministero del Welfare - «i maschi sono troppo aggressivi, tendono a usurpare gli spazi e il tempo degli educatori». Come approfondisce l'articolo, un'altra ragione dell'apartheid di ritorno è ancora più surreale: «Da noi entrambi i gruppi si mettono lo smalto e riparano i mobili. Le femmine devono poter alzare la voce, portare pesi, sporcarsi e tollerare il dolore fisico. E i maschi devono poter essere dolci, osare essere belli, stare vicino alla maestra. Ci sono differenze in natura, ma poi c'è la cultura». Una cultura che corregge e uniforma, che appiattisce e conduce per mano verso il paradiso plastificato di genitore 1 e genitore 2. Non è un caso che l'Islanda sia il paese con più madri single del mondo.Il gender gap a tutti i costi imperversa e l'era dei vikinghi è definitivamente tramontata. Non osiamo neppure immaginare cosa possa capitare a chi decide di farsi crescere un paio di baffoni biondi. E le differenze naturali? Roba da museo. Nel senso che a Reykjavik è stato inaugurato il Museo del pene, dove sono esposti 282 falli conservati in formaldeide. Rappresentano gli apparati riproduttivi maschili di 93 mammiferi, dalle balene ai cavalli ai gatti. C'è anche quello umano, descritto come «triste e accartocciato». Non è una metafora.