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2019-03-08
Il femminismo del futuro: «Fare bimbi è fascista e servono 100 nuovi sessi»
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Da qualche tempo a questa parte, il Me Too ha sancito il ritorno sulla scena sociale e mediatica del femminismo, giusto giusto nel cinquantenario di quando principiò. E gli effetti del film L'utero è mio e lo gestisco io 2 - La vendetta non tardano a vedersi. In occasione della Festa della donna - anche quest'anno trasformata in occasione di lotta - le librerie si sono riempite di volumi perfetti per istruire le nuove generazioni di militanti agguerrite. Sul fronte della narrativa troviamo il romanzo (edito da Bompiani) di Eve Babitz, Sex&Rage. Consigli a giovani donne che hanno voglia di divertirsi. Già: l'amore associato al sesso è reazionario, non è utile alla causa. Bisogna quindi accoppiare sesso e rabbia, e se gli uomini non possono più concedersi nemmeno un complimento a una donna, le donne possono eccome divertirsi e accoppiarsi rabbiosamente a destra e a manca. Anzi, devono.
Nel reparto saggistica troviamo Educare al femminismo di Iria Marañon, accompagnato da strombazzanti placet come «Iria Marañon esorta i genitori e tutte le persone coinvolte nell'educazione dei più piccoli a rifiutare il machismo, ormai “normalizzato" nella società, fin dalla più tenera età» e «un manuale che insegna come bisognerebbe educare i figli affinché siano liberi, impegnati e impermeabili ai modelli soggioganti di televisione, cinema, letteratura, pubblicità e anche della famiglia e della scuola». Certo: i figli, sin dalla più tenera età, vanno educati a combattere il machismo, come no. Di tomi del genere ce ne sono parecchi, soprattutto rivolti alle più giovani. Ad esempio Il libro del femminismo (Gribaudo), una sorta di bignami della attivista furente. Oppure Post pink (Feltrinelli) che si presenta come Antologia di fumetto femminista, con immancabile prefazione di Michela Murgia…
Ma i testi di questo tipo non sono nulla di fronte all'orrore puro, che si presenta nella forma di un libro piccolino intitolato Xenofemminismo (Nero edizioni) e firmato da Helen Hester. È la summa e (in parte) la fonte del pensiero femminista contemporaneo, quello a cui si abbeverano personaggi come la suddetta Murgia quando invoca la scomparsa della patria perché maschilista. In greco xènos vuol dire straniero. Lo xenofemminismo è una forma di femminismo tecnomaterialista, antinaturalista, abolizionista del genere e ultraxenofilo. Si tratta della teorizzazione di un vero e proprio nazismo femminista, elaborata da un «collettivo» chiamato Laboria Cuboniks. Lo xenofemminismo «vuole schierare strategicamente le tecnologie esistenti per riprogettare il mondo».
A che scopo riprogettare il mondo (che si progetta benissimo da solo, per altro)? Ovvio: al fine di ribellarsi alle«strutture di oppressione che costituiscono i nostri mondi materiali», in primis il corpo femminile e la natura, contro i quali bisogna sfoderare «strumenti di intervento femminista nella corporeità», un'ampia e varia «tecnologia riproduttiva, compreso il controllo delle nascite» e l'ectogenesi (la crescita del feto fuori dal corpo, proprio come nel film Matrix, il capolavoro di quelli che all'epoca del film erano i fratelli Wachowski e ora, dopo il cambio di sesso, sono le sorelle Wachowski). Le nostre xenofemministe, insomma, vogliono mettere le mani sulla riproduzione naturale, in perfetto stile eugenetico. Alla procreazione naturale, spiegano, bisogna preferire «la riproduzione tecnologicamente assistita, nella quale i bioingegneri hanno il compito di costruire il figlio come se fosse una macchina fatta di componenti isolate». A leggerlo vi sembra un delirio? Beh, sappiate che tale forma di riproduzione esiste già: è l'utero in affitto. Ulteriore segno del fatto che queste idee, per quanto folli, hanno un impatto sulla realtà.
La natura, per lo xenofemminismo, è «spazio di contestazione» e «limite pseudoteologico» che concede «enormi risorse concettuali alla condanna conservatrice della differenza». La biologia? Deve essere forzata per poter perseguire la «giustizia riproduttiva» e la «trasformazione del genere». Il gender fluid è solo la premessa: l'obiettivo definitivo è cancellare la «matrice eterosessuale», «perché le identità binarie sono criterio di oppressione» e devono «sbocciare un centinaio di sessi!». Il futuro va scollegato dalla «cultura che elogia il Bambino e dunque supporta le ideologie della famiglia etero e normativa», bisogna combattere il «fascismo del volto del Bambino» e favorire il queer (il «sessualmente, etnicamente o socialmente eccentrico rispetto alle definizioni di normalità codificate dalla cultura egemone») perché rappresenta il «violento annullamento di significato, la perdita di identità e coerenza, l'innaturale accesso al godimento».
Tutto, anche l'attivismo sul cambiamento climatico va tarato in chiave anti bambino. L'ambientalismo mainstream, secondo le xenofemministe, usa immagini di giovani, soprattutto bambini maschi, bianchi e biondi e quindi è eterosessismo e paura di un pianeta queer. La Hester riporta che «una delle strategie più popolari tra quelle adottate dalla polizia e da altri oppositori delle attività sessuali negli spazi naturali è stata quella di presentarsi come protettori dei bambini».
La Hester spiega che occorre resistere «alla chiamata della futurità riproduttiva» anche perché «la “bella mammina" ricca e bianca viene elogiata per il suo contributo al futuro dello stato-nazione, ma le madri adolescenti, i genitori di colore e di origine latino-americana, i soggetti trans* e genderqueer, le persone immigrate e rifugiate, e quelle che vivono di sussidi non ricevono lo stesso trattamento». Per contrastare questo fascismo della «futurità riproduttiva normativa bianca» bisogna accogliere l'imperativo di Donna Haraway, vecchia teorica del cyberfemminismo: «Generate parentele, non bambini!». Cioè «sintetizzare nuove solidarietà anziché privilegiare la famiglia genetica e la riproduzione genetica in un mondo che ha esaurito le risorse».
«Noi in quanto specie dovremmo ridurre il tasso di natalità», dice la Haraway, che teorizza un'alleanza intra e interspecie «meno naturalizzata, meno egocentrica e meno parrocchiale». Come? Con un «impegno generale a dare asilo, per quanto possibile, ai soggetti precari e agli oppressi». Serve un «atto di solidarietà con i nuovi arrivi di ogni tipo (dai soggetti migranti alle nuove figure tutrici, fino alle persone giovanissime). La riproduzione eterosessuale deve essere sostituita dall'ingegneria genetica post-genere e multigenitoriale in cui fare bambini significhi anche generare parentele senza investire nella riproduzione sociale di valori bianchi, cisessuali e patriarcali».
Scriveva il grande Roald Dahl, ne Le streghe: «Le vere streghe sembrano donne qualunque, vivono in case qualunque, indossano abiti qualunque e fanno mestieri qualunque. Per questo è così difficile riconoscerle. Una vera strega odia i bambini di un odio così feroce, furibondo, forsennato e furioso da non poterselo immaginare. E infatti passa tutto il suo tempo a escogitare nuovi modi per sbarazzarsi di loro». Quello di Dahl era un libro per l'infanzia uscito nel 1983, ma diceva già tutto sulle femministe di oggi.
Nel Nord Europa emancipato e progressista le ragazze vivono peggio che in Italia
Nel cielo dei luoghi comuni, di cui il tempo presente abbonda più che mai, v'è la prodigiosa civiltà dei Paesi del nord Europa. Con insistenza sentiamo raccontare quanto funziona bene la scuola in Finlandia o in Danimarca; quanto sono progressisti, aperti, «avanti», svedesi e norvegesi; quanto sono gender friendly, sessualmente emancipati e «amici delle donne», in generale, tutti gli Stati nordici che furono protestanti.
Ovviamente la polemica, implicita o esplicita, è verso i Paesi mediterranei, verso i «terroni», di tradizione cattolica: retrogradi, medievali, maschilisti ecc.
Ebbene, visto che oggi è l'8 marzo, senza soffermarci sui mille interrogativi che questi luoghi comuni suscitano (lo avete mai sentito un Tommaso d'Aquino, un Michelangelo o un Galilei cresciuto nelle straordinarie culture nordiche? Perché, se stanno così bene, si suicidano molto di più degli italiani, o dei greci? Proviamo a leggere un solo dato: come se la passano le donne laddove tutto funziona così bene?
Ebbene, la risposta è semplice: molto, molto peggio che in Italia.
Sono costretti a rivelarcelo persino quotidiani che fanno da sempre dell'attacco alle radici cattoliche dell'Italia la loro missione.
Vediamo cosa scrive Repubblica del 2 marzo 2017: «Secondo dati dell'Agenzia per i diritti fondamentali dell'Unione europea, i Paesi in cui la violenza contro le donne (fisica e/o sessuale) è più comune sono quelli del Nord Europa. L'Italia si attesta sotto la metà della classifica, ben al di sotto della media europea: nel nostro Paese le donne vittime di violenza fisica o sessuale dai 15 anni in poi rappresentano il 27%, a fronte del 52% in Danimarca, del 47% in Finlandia, del 46% in Svezia, del 45% nei Paesi Bassi e del 44% in Francia e Regno Unito. La stessa tendenza sarebbe confermata anche se si analizza il fenomeno solo dal punto di vista delle molestie sessuali (15% in Italia, 32% in Danimarca, 27% in Svezia e Paesi Bassi, 24% in Francia e Belgio). Anche per quanto riguarda la violenza subita, specificamente dai partner, l'Italia si attesta nella fasce più basse (15-20%), mentre nella parte alta della classifica si confermano i Paesi del Nord Europa e i Paesi dell'Est...».
Il dato è confermato anche da fonti non ideologiche come il sito Truenumbers che, presentando ai suoi lettori i dati del Gender Equality Index Report 2015, che fanno riferimento anche al Report Violence against Women dell'Fra, il 1 settembre 2015 titolava: «Nel nord Europa più violenza contro le donne».
Infine, essendo i dati sulla violenza sulle donne spesso interpretabili e non univoci, ecco un dato che appare inconfutabile: non il numero delle donne che avrebbero subito violenza di qualche genere, ma quello delle donne assassinate.
Ecco quanto scrivono il professore di demografia ed ex senatore Pd, Gianpiero Dalla Zuanna e la docente di statistica Alessandra Minello, su Lavoce.info e su Il Foglio del 27 agosto 2017: «L'Italia è il Paese sviluppato dove le donne corrono il minor rischio di essere uccise. Infatti, nel periodo 2004-2015 ci sono stati in Italia 0,51 omicidi volontari ogni 100 mila donne residenti, contro una media di 1,23 nei trentadue paesi europei e nordamericani per cui si dispone di dati Unodc. Le differenze sono ampie. I Paesi della ex Urss e gli Usa sono quelli dove le donne sono più a rischio, con tassi quattro volte superiori rispetto all'Italia, mentre i più sicuri sono gli stati dell'Europa meridionale, con l'Italia al trentaduesimo e ultimo posto per tasso di omicidi"».
Ancora una volta, insomma, la realtà dice una cosa, ma l'ideologia ne urla un'altra.
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Nelle librerie italiane arrivano i testi delle teoriche militanti più agguerrite. Nemiche della natura e della riproduzione, chiedono diritti per migranti e trans.Nel Nord Europa emancipato e progressista le ragazze vivono peggio che in Italia. Da parecchio tempo gli Stati protestanti sono presentati come modelli di democrazia e benessere da imitare. Eppure, se si vanno a guardare i dati, si nota che violenze e disagio sono elevati.Lo speciale comprende due articoli. Da qualche tempo a questa parte, il Me Too ha sancito il ritorno sulla scena sociale e mediatica del femminismo, giusto giusto nel cinquantenario di quando principiò. E gli effetti del film L'utero è mio e lo gestisco io 2 - La vendetta non tardano a vedersi. In occasione della Festa della donna - anche quest'anno trasformata in occasione di lotta - le librerie si sono riempite di volumi perfetti per istruire le nuove generazioni di militanti agguerrite. Sul fronte della narrativa troviamo il romanzo (edito da Bompiani) di Eve Babitz, Sex&Rage. Consigli a giovani donne che hanno voglia di divertirsi. Già: l'amore associato al sesso è reazionario, non è utile alla causa. Bisogna quindi accoppiare sesso e rabbia, e se gli uomini non possono più concedersi nemmeno un complimento a una donna, le donne possono eccome divertirsi e accoppiarsi rabbiosamente a destra e a manca. Anzi, devono. Nel reparto saggistica troviamo Educare al femminismo di Iria Marañon, accompagnato da strombazzanti placet come «Iria Marañon esorta i genitori e tutte le persone coinvolte nell'educazione dei più piccoli a rifiutare il machismo, ormai “normalizzato" nella società, fin dalla più tenera età» e «un manuale che insegna come bisognerebbe educare i figli affinché siano liberi, impegnati e impermeabili ai modelli soggioganti di televisione, cinema, letteratura, pubblicità e anche della famiglia e della scuola». Certo: i figli, sin dalla più tenera età, vanno educati a combattere il machismo, come no. Di tomi del genere ce ne sono parecchi, soprattutto rivolti alle più giovani. Ad esempio Il libro del femminismo (Gribaudo), una sorta di bignami della attivista furente. Oppure Post pink (Feltrinelli) che si presenta come Antologia di fumetto femminista, con immancabile prefazione di Michela Murgia…Ma i testi di questo tipo non sono nulla di fronte all'orrore puro, che si presenta nella forma di un libro piccolino intitolato Xenofemminismo (Nero edizioni) e firmato da Helen Hester. È la summa e (in parte) la fonte del pensiero femminista contemporaneo, quello a cui si abbeverano personaggi come la suddetta Murgia quando invoca la scomparsa della patria perché maschilista. In greco xènos vuol dire straniero. Lo xenofemminismo è una forma di femminismo tecnomaterialista, antinaturalista, abolizionista del genere e ultraxenofilo. Si tratta della teorizzazione di un vero e proprio nazismo femminista, elaborata da un «collettivo» chiamato Laboria Cuboniks. Lo xenofemminismo «vuole schierare strategicamente le tecnologie esistenti per riprogettare il mondo». A che scopo riprogettare il mondo (che si progetta benissimo da solo, per altro)? Ovvio: al fine di ribellarsi alle«strutture di oppressione che costituiscono i nostri mondi materiali», in primis il corpo femminile e la natura, contro i quali bisogna sfoderare «strumenti di intervento femminista nella corporeità», un'ampia e varia «tecnologia riproduttiva, compreso il controllo delle nascite» e l'ectogenesi (la crescita del feto fuori dal corpo, proprio come nel film Matrix, il capolavoro di quelli che all'epoca del film erano i fratelli Wachowski e ora, dopo il cambio di sesso, sono le sorelle Wachowski). Le nostre xenofemministe, insomma, vogliono mettere le mani sulla riproduzione naturale, in perfetto stile eugenetico. Alla procreazione naturale, spiegano, bisogna preferire «la riproduzione tecnologicamente assistita, nella quale i bioingegneri hanno il compito di costruire il figlio come se fosse una macchina fatta di componenti isolate». A leggerlo vi sembra un delirio? Beh, sappiate che tale forma di riproduzione esiste già: è l'utero in affitto. Ulteriore segno del fatto che queste idee, per quanto folli, hanno un impatto sulla realtà. La natura, per lo xenofemminismo, è «spazio di contestazione» e «limite pseudoteologico» che concede «enormi risorse concettuali alla condanna conservatrice della differenza». La biologia? Deve essere forzata per poter perseguire la «giustizia riproduttiva» e la «trasformazione del genere». Il gender fluid è solo la premessa: l'obiettivo definitivo è cancellare la «matrice eterosessuale», «perché le identità binarie sono criterio di oppressione» e devono «sbocciare un centinaio di sessi!». Il futuro va scollegato dalla «cultura che elogia il Bambino e dunque supporta le ideologie della famiglia etero e normativa», bisogna combattere il «fascismo del volto del Bambino» e favorire il queer (il «sessualmente, etnicamente o socialmente eccentrico rispetto alle definizioni di normalità codificate dalla cultura egemone») perché rappresenta il «violento annullamento di significato, la perdita di identità e coerenza, l'innaturale accesso al godimento». Tutto, anche l'attivismo sul cambiamento climatico va tarato in chiave anti bambino. L'ambientalismo mainstream, secondo le xenofemministe, usa immagini di giovani, soprattutto bambini maschi, bianchi e biondi e quindi è eterosessismo e paura di un pianeta queer. La Hester riporta che «una delle strategie più popolari tra quelle adottate dalla polizia e da altri oppositori delle attività sessuali negli spazi naturali è stata quella di presentarsi come protettori dei bambini». La Hester spiega che occorre resistere «alla chiamata della futurità riproduttiva» anche perché «la “bella mammina" ricca e bianca viene elogiata per il suo contributo al futuro dello stato-nazione, ma le madri adolescenti, i genitori di colore e di origine latino-americana, i soggetti trans* e genderqueer, le persone immigrate e rifugiate, e quelle che vivono di sussidi non ricevono lo stesso trattamento». Per contrastare questo fascismo della «futurità riproduttiva normativa bianca» bisogna accogliere l'imperativo di Donna Haraway, vecchia teorica del cyberfemminismo: «Generate parentele, non bambini!». Cioè «sintetizzare nuove solidarietà anziché privilegiare la famiglia genetica e la riproduzione genetica in un mondo che ha esaurito le risorse». «Noi in quanto specie dovremmo ridurre il tasso di natalità», dice la Haraway, che teorizza un'alleanza intra e interspecie «meno naturalizzata, meno egocentrica e meno parrocchiale». Come? Con un «impegno generale a dare asilo, per quanto possibile, ai soggetti precari e agli oppressi». Serve un «atto di solidarietà con i nuovi arrivi di ogni tipo (dai soggetti migranti alle nuove figure tutrici, fino alle persone giovanissime). La riproduzione eterosessuale deve essere sostituita dall'ingegneria genetica post-genere e multigenitoriale in cui fare bambini significhi anche generare parentele senza investire nella riproduzione sociale di valori bianchi, cisessuali e patriarcali». Scriveva il grande Roald Dahl, ne Le streghe: «Le vere streghe sembrano donne qualunque, vivono in case qualunque, indossano abiti qualunque e fanno mestieri qualunque. Per questo è così difficile riconoscerle. Una vera strega odia i bambini di un odio così feroce, furibondo, forsennato e furioso da non poterselo immaginare. E infatti passa tutto il suo tempo a escogitare nuovi modi per sbarazzarsi di loro». Quello di Dahl era un libro per l'infanzia uscito nel 1983, ma diceva già tutto sulle femministe di oggi. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-femminismo-del-futuro-fare-bimbi-e-fascista-e-servono-100-nuovi-sessi-2630948323.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="nel-nord-europa-emancipato-e-progressista-le-ragazze-vivono-peggio-che-in-italia" data-post-id="2630948323" data-published-at="1766747800" data-use-pagination="False"> Nel Nord Europa emancipato e progressista le ragazze vivono peggio che in Italia Nel cielo dei luoghi comuni, di cui il tempo presente abbonda più che mai, v'è la prodigiosa civiltà dei Paesi del nord Europa. Con insistenza sentiamo raccontare quanto funziona bene la scuola in Finlandia o in Danimarca; quanto sono progressisti, aperti, «avanti», svedesi e norvegesi; quanto sono gender friendly, sessualmente emancipati e «amici delle donne», in generale, tutti gli Stati nordici che furono protestanti. Ovviamente la polemica, implicita o esplicita, è verso i Paesi mediterranei, verso i «terroni», di tradizione cattolica: retrogradi, medievali, maschilisti ecc. Ebbene, visto che oggi è l'8 marzo, senza soffermarci sui mille interrogativi che questi luoghi comuni suscitano (lo avete mai sentito un Tommaso d'Aquino, un Michelangelo o un Galilei cresciuto nelle straordinarie culture nordiche? Perché, se stanno così bene, si suicidano molto di più degli italiani, o dei greci? Proviamo a leggere un solo dato: come se la passano le donne laddove tutto funziona così bene? Ebbene, la risposta è semplice: molto, molto peggio che in Italia. Sono costretti a rivelarcelo persino quotidiani che fanno da sempre dell'attacco alle radici cattoliche dell'Italia la loro missione. Vediamo cosa scrive Repubblica del 2 marzo 2017: «Secondo dati dell'Agenzia per i diritti fondamentali dell'Unione europea, i Paesi in cui la violenza contro le donne (fisica e/o sessuale) è più comune sono quelli del Nord Europa. L'Italia si attesta sotto la metà della classifica, ben al di sotto della media europea: nel nostro Paese le donne vittime di violenza fisica o sessuale dai 15 anni in poi rappresentano il 27%, a fronte del 52% in Danimarca, del 47% in Finlandia, del 46% in Svezia, del 45% nei Paesi Bassi e del 44% in Francia e Regno Unito. La stessa tendenza sarebbe confermata anche se si analizza il fenomeno solo dal punto di vista delle molestie sessuali (15% in Italia, 32% in Danimarca, 27% in Svezia e Paesi Bassi, 24% in Francia e Belgio). Anche per quanto riguarda la violenza subita, specificamente dai partner, l'Italia si attesta nella fasce più basse (15-20%), mentre nella parte alta della classifica si confermano i Paesi del Nord Europa e i Paesi dell'Est...». Il dato è confermato anche da fonti non ideologiche come il sito Truenumbers che, presentando ai suoi lettori i dati del Gender Equality Index Report 2015, che fanno riferimento anche al Report Violence against Women dell'Fra, il 1 settembre 2015 titolava: «Nel nord Europa più violenza contro le donne». Infine, essendo i dati sulla violenza sulle donne spesso interpretabili e non univoci, ecco un dato che appare inconfutabile: non il numero delle donne che avrebbero subito violenza di qualche genere, ma quello delle donne assassinate. Ecco quanto scrivono il professore di demografia ed ex senatore Pd, Gianpiero Dalla Zuanna e la docente di statistica Alessandra Minello, su Lavoce.info e su Il Foglio del 27 agosto 2017: «L'Italia è il Paese sviluppato dove le donne corrono il minor rischio di essere uccise. Infatti, nel periodo 2004-2015 ci sono stati in Italia 0,51 omicidi volontari ogni 100 mila donne residenti, contro una media di 1,23 nei trentadue paesi europei e nordamericani per cui si dispone di dati Unodc. Le differenze sono ampie. I Paesi della ex Urss e gli Usa sono quelli dove le donne sono più a rischio, con tassi quattro volte superiori rispetto all'Italia, mentre i più sicuri sono gli stati dell'Europa meridionale, con l'Italia al trentaduesimo e ultimo posto per tasso di omicidi"». Ancora una volta, insomma, la realtà dice una cosa, ma l'ideologia ne urla un'altra.
Il ministro degli Esteri del Regno di Giordania Ayman Safadi
Il ministro degli Esteri giordano Ayman Safadi spiega la partecipazione di Amman all’operazione Usa in Siria contro l’Isis, il ruolo della comunità drusa nella stabilità interna e l’impegno della Giordania per la pace e la sicurezza nella Striscia di Gaza. «Questi terroristi vogliono ricostituire lo Stato Islamico», avverte.
Nell’attacco alle posizioni dello Stato Islamico in Siria Washington ha colpito 70 obiettivi, neutralizzando la cellula che agiva nella provincia orientale siriana di Deir Ezzor. Questi miliziani dell’Isis erano i responsabili dell’attacco di Palmira dove avevano perso la vita tre americani, due militari e un interprete civile ed erano noti per le continue offensive con droni in questa area. L’operazione, denominata Occhio di falco, si è estesa a diverse località della Siria centrale utilizzando caccia, elicotteri d'attacco e artiglieria e agendo insieme all’aviazione della Giordania. Amman ha confermato la sua partecipazione a questa azione militare ribadendo la propria volontà di sradicare lo Stato Islamico dal Medio Oriente. Ayman Safadi è vice primo ministro e ministro degli Esteri del Regno di Giordania da quasi 9 anni ed è un diplomatico di grande esperienza.
Ministro Safadi, la partecipazione delle vostre forze aeree all’operazione degli Usa dimostra il vostro interesse ad essere protagonisti in Medio Oriente.
«Abbiamo deciso di affiancare gli statunitensi del Centcom perché riteniamo l’Isis un pericolo per tutta la nostra area e soprattutto per la Giordania. Questi terroristi hanno già cercato di infiltrare la nostra nazione, ma la loro propaganda non ha mai attecchito. La Giordania è uno dei 90 paesi che compongono la coalizione globale contro l'Isis, a cui la Siria ha recentemente aderito e questa operazione è l’attuazione pratica dei nostri principi. La nostra aviazione ha agito per impedire ai gruppi estremisti come questo di sfruttare questa regione come una rampa di lancio allo scopo di minacciare la sicurezza dei paesi vicini alla Siria e del Medio Oriente in generale, soprattutto dopo che l'Isis si è riorganizzato e ha ricostruito le sue capacità nella Siria meridionale. In troppi hanno sottovalutato la rinascita di questo network del terrorismo che è proliferato in Africa, dove gestisce traffici di armi, droga e migranti. Con i guadagni di queste attività criminali vogliono ricostituire lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, quella creatura nefasta che aveva conquistato il nord dell’Iraq e tutta la Siria orientale».
Il Medio Oriente è una regione complessa per le diversità culturali e religiose. In Giordania la convivenza sembra funzionare: come vive la sua comunità drusa questo equilibrio?
«Noi drusi siamo un gruppo etno-religioso con una lunga storia e abbiamo sempre lottato per le nazioni dove viviamo. In Giordania la comunità è piccola, ma siamo fieri di essere giordani. In Siria la situazione è complicata per i drusi che sono stati attaccati dai beduini e probabilmente anche da elementi dello Stato Islamico, il nuovo governo di Damasco deve fare di più per difendere le minoranze. Il presidente siriano Ahmed al Shara ha pubblicamente dichiarato di combattere lo Stato Islamico, ma ci sono intere province del sud e dell’est che sono fuori controllo e ci sono ancora troppe armi in Siria».
Il governo israeliano ha dichiarato di non fidarsi del nuovo regime di Damasco, qual è la posizione di Amman?
«Il presidente statunitense Donald Trump ha voluto togliere tutte le sanzioni alla Siria, aprendo un grande credito al nuovo corso. Adesso al Shara deve dimostrare di meritare questa fiducia e lo deve fare pacificando la sua nazione, la Siria è un paese con tante anime: sunniti, sciiti, cristiani e drusi. Washington sta dedicando una grande attenzione al Medio Oriente e questo è positivo. Soltanto il presidente Trump può ottenere una pace duratura e un futuro per la Striscia, la Giordania segue con estrema attenzione ciò che accade a Gaza perché circa il 50% della nostra popolazione è di origine palestinese. Noi siamo totalmente contrari a una divisione della Striscia, il territorio dei palestinese non deve essere toccato ed i confini devono restare gli stessi. La cosa più importante è garantire la sicurezza di tutti, dei palestinesi, degli israeliani ed anche delle nazioni vicine. La Giordania ha sempre represso la presenza di Hamas sul suo territorio, chiudendone gli uffici ed esiliandone i funzionari nel 1999. Negli ultimi anni abbiamo aumentato la sicurezza alle frontiere per ostacolare il contrabbando di armi, collegato ad Hamas che nel passato ha tentato di destabilizzare la Giordania».
Quale futuro per la Striscia di Gaza?
«Dobbiamo difendere la pace e ricostruire un posto dove gli abitanti di Gaza possano vivere. Il nostro sovrano ed il nostro governo hanno più volte dichiarato di essere favorevoli ad un maggior impegno degli europei nella Striscia. La Giordania ha relazioni eccellenti con l’Italia. Sua Maestà il Re Abdullah II di Giordania a marzo ha incontrato Giorgia Meloni e ha espresso apprezzamento per la solida cooperazione tra le due nazioni nell’assistenza umanitaria a Gaza. Il presidente del Consiglio italiano ha voluto sottolineare ancora una volta il ruolo svolto dalla Giordania, come una forza di pace e di dialogo determinante per il futuro di tutta l’area».
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Nuove accuse tra Cambogia e Thailandia lungo il confine conteso. Phnom Penh denuncia bombardamenti con caccia F-16, Bangkok parla di attacchi notturni cambogiani. Oltre mezzo milione di sfollati mentre proseguono i negoziati.
La crisi tra Cambogia e Thailandia torna ad aggravarsi lungo il confine conteso. Phnom Penh accusa Bangkok di aver intensificato i bombardamenti con caccia F-16, mentre le autorità thailandesi parlano di attacchi cambogiani durante la notte. Le accuse incrociate arrivano mentre sono in corso negoziati per un cessate il fuoco e il numero degli sfollati supera il mezzo milione.
Secondo il ministero della Difesa cambogiano, l’aeronautica thailandese avrebbe impiegato caccia F-16, sganciando almeno quaranta bombe nell’area del villaggio di Chok Chey. L’episodio viene descritto come un’ulteriore escalation militare in una zona già colpita da ripetuti raid. La versione di Bangkok è opposta. I media thailandesi riferiscono che, durante la notte, le forze cambogiane avrebbero condotto attacchi massicci lungo il confine nella provincia sud-orientale di Sa Kaeo, provocando danni a diverse abitazioni civili.
Nel frattempo, le due parti hanno avviato un nuovo ciclo di colloqui, iniziato mercoledì e destinato a durare quattro giorni, con l’obiettivo dichiarato di porre fine ai combattimenti. L’incontro si svolge in territorio thailandese, presso un valico di frontiera nella provincia di Chanthaburi, secondo quanto riferito da funzionari di Phnom Penh. Sul piano diplomatico si registra anche un coinvolgimento diretto degli Stati Uniti. Il primo ministro cambogiano Hun Manet ha reso noto di aver avuto un colloquio telefonico con il segretario di Stato americano Marco Rubio, durante il quale si è discusso di «come garantire un cessate il fuoco lungo il confine tra Cambogia e Thailandia».
Alla base delle tensioni c’è una disputa storica sulla delimitazione di circa 800 chilometri di confine, che affonda le radici nell’epoca coloniale. Il confronto armato si è riacceso con forza nel corso dell’anno. A luglio, cinque giorni di scontri avevano provocato circa 40 morti e costretto 300.000 persone ad abbandonare le proprie abitazioni, prima di una tregua che successivamente è fallita.
L’impatto umanitario resta pesante. Secondo le autorità cambogiane, oltre mezzo milione di persone è stato costretto a lasciare case e scuole nelle ultime due settimane di combattimenti. In una nota, il ministero dell’Interno di Phnom Penh ha parlato di 518.611 sfollati, denunciando che «oltre mezzo milione di cambogiani, tra cui donne e bambini, stanno soffrendo gravi difficoltà a causa dello sfollamento forzato dalle loro case e scuole per sfuggire al fuoco di artiglieria, ai razzi e agli attacchi aerei dei caccia F-16 thailandesi». In precedenza, Bangkok aveva indicato in circa 400.000 il numero degli sfollati sul proprio territorio. Il portavoce del ministero della Difesa thailandese, Surasant Kongsiri, ha affermato che il numero di persone accolte nei rifugi è in diminuzione, pur restando superiore alle 200.000 unità. Kongsiri ha inoltre invitato gli abitanti dei villaggi a rientrare con cautela, avvertendo che «potrebbero esserci ancora mine o bombe pericolose». Dal punto di vista militare, Phnom Penh ha sottolineato come le forze thailandesi abbiano continuato le operazioni dall’alba del 21 dicembre, segnalando combattimenti anche nei pressi del tempio khmer di Preah Vihear, risalente a 900 anni fa. La Cambogia ha inoltre ricordato il divario di risorse tra i due eserciti, a vantaggio di Bangkok. Secondo i dati ufficiali, il bilancio complessivo degli scontri è salito ad almeno 41 morti, di cui 22 thailandesi e 19 cambogiani. Le ostilità più recenti sono riprese il 12 dicembre, mentre una precedente ondata di violenze, a luglio, aveva causato 43 vittime in pochi giorni.
La crisi è ora all’attenzione dell’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico. I ministri degli Esteri dell’Asean, compresi quelli di Thailandia e Cambogia, si riuniscono il 22 dicembre a Kuala Lumpur per discutere del conflitto. Entrambi i governi hanno espresso l’auspicio che l’incontro contribuisca a ridurre le tensioni. La portavoce del ministero degli Esteri thailandese, Maratee Nalita Andamo, ha definito il vertice «un’importante opportunità per entrambe le parti». Bangkok ha tuttavia ribadito alcune condizioni preliminari, chiedendo a Phnom Penh di annunciare per prima un cessate il fuoco e di cooperare nelle operazioni di sminamento lungo il confine. In un comunicato, il governo thailandese ha precisato che un accordo potrà essere raggiunto «solo se basato principalmente su una valutazione della situazione sul campo da parte dell’esercito thailandese».
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L’obiettivo è evitare la delocalizzazione della produzione e contrastare l’effetto dei costi energetici elevati sulla competitività europea. La misura riguarda principalmente i settori dell’acciaio, della chimica e dell’automotive, fortemente influenzati dalle bollette elettriche, che in Germania risultano quasi tre volte superiori rispetto agli Stati Uniti. Le autorità tedesche hanno già avviato le trattative con la Commissione Europea per ottenere la compatibilità con le norme sugli aiuti di Stato. Per la Slovacchia, strettamente integrata nelle filiere tedesche, la mossa può rappresentare una sfida competitiva: se le imprese tedesche recuperano tranquillità sui costi dell’energia, le aziende slovacche del comparto manifatturiero esportatrici potrebbero trovarsi a dover far fronte a maggiori pressioni sui costi. Lo stesso potrebbe accadere in Italia.
Prima della Germania il Regno Unito, dove un “price cap” è stato stabilito nel 2019 dall’allora governo May. Dal gennaio 2019 l’Ofgem (l’equivalente della nostra Arera) applica un tetto alla spesa massima dei consumatori di trimestre in trimestre. Ma attenzione: non a tutti i clienti, bensì solo ai sottoscrittori delle “standard variable tariffs”, cioè delle tariffe a prezzo variabile molto basilari, dedicate ai clienti meno abituati a cercare tariffe sul mercato libero, e per questo da anni con lo stesso operatore che a volte approfitta di questo immobilismo applicando prezzi piuttosto elevati.
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