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2019-03-08
Il femminismo del futuro: «Fare bimbi è fascista e servono 100 nuovi sessi»
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Da qualche tempo a questa parte, il Me Too ha sancito il ritorno sulla scena sociale e mediatica del femminismo, giusto giusto nel cinquantenario di quando principiò. E gli effetti del film L'utero è mio e lo gestisco io 2 - La vendetta non tardano a vedersi. In occasione della Festa della donna - anche quest'anno trasformata in occasione di lotta - le librerie si sono riempite di volumi perfetti per istruire le nuove generazioni di militanti agguerrite. Sul fronte della narrativa troviamo il romanzo (edito da Bompiani) di Eve Babitz, Sex&Rage. Consigli a giovani donne che hanno voglia di divertirsi. Già: l'amore associato al sesso è reazionario, non è utile alla causa. Bisogna quindi accoppiare sesso e rabbia, e se gli uomini non possono più concedersi nemmeno un complimento a una donna, le donne possono eccome divertirsi e accoppiarsi rabbiosamente a destra e a manca. Anzi, devono.
Nel reparto saggistica troviamo Educare al femminismo di Iria Marañon, accompagnato da strombazzanti placet come «Iria Marañon esorta i genitori e tutte le persone coinvolte nell'educazione dei più piccoli a rifiutare il machismo, ormai “normalizzato" nella società, fin dalla più tenera età» e «un manuale che insegna come bisognerebbe educare i figli affinché siano liberi, impegnati e impermeabili ai modelli soggioganti di televisione, cinema, letteratura, pubblicità e anche della famiglia e della scuola». Certo: i figli, sin dalla più tenera età, vanno educati a combattere il machismo, come no. Di tomi del genere ce ne sono parecchi, soprattutto rivolti alle più giovani. Ad esempio Il libro del femminismo (Gribaudo), una sorta di bignami della attivista furente. Oppure Post pink (Feltrinelli) che si presenta come Antologia di fumetto femminista, con immancabile prefazione di Michela Murgia…
Ma i testi di questo tipo non sono nulla di fronte all'orrore puro, che si presenta nella forma di un libro piccolino intitolato Xenofemminismo (Nero edizioni) e firmato da Helen Hester. È la summa e (in parte) la fonte del pensiero femminista contemporaneo, quello a cui si abbeverano personaggi come la suddetta Murgia quando invoca la scomparsa della patria perché maschilista. In greco xènos vuol dire straniero. Lo xenofemminismo è una forma di femminismo tecnomaterialista, antinaturalista, abolizionista del genere e ultraxenofilo. Si tratta della teorizzazione di un vero e proprio nazismo femminista, elaborata da un «collettivo» chiamato Laboria Cuboniks. Lo xenofemminismo «vuole schierare strategicamente le tecnologie esistenti per riprogettare il mondo».
A che scopo riprogettare il mondo (che si progetta benissimo da solo, per altro)? Ovvio: al fine di ribellarsi alle«strutture di oppressione che costituiscono i nostri mondi materiali», in primis il corpo femminile e la natura, contro i quali bisogna sfoderare «strumenti di intervento femminista nella corporeità», un'ampia e varia «tecnologia riproduttiva, compreso il controllo delle nascite» e l'ectogenesi (la crescita del feto fuori dal corpo, proprio come nel film Matrix, il capolavoro di quelli che all'epoca del film erano i fratelli Wachowski e ora, dopo il cambio di sesso, sono le sorelle Wachowski). Le nostre xenofemministe, insomma, vogliono mettere le mani sulla riproduzione naturale, in perfetto stile eugenetico. Alla procreazione naturale, spiegano, bisogna preferire «la riproduzione tecnologicamente assistita, nella quale i bioingegneri hanno il compito di costruire il figlio come se fosse una macchina fatta di componenti isolate». A leggerlo vi sembra un delirio? Beh, sappiate che tale forma di riproduzione esiste già: è l'utero in affitto. Ulteriore segno del fatto che queste idee, per quanto folli, hanno un impatto sulla realtà.
La natura, per lo xenofemminismo, è «spazio di contestazione» e «limite pseudoteologico» che concede «enormi risorse concettuali alla condanna conservatrice della differenza». La biologia? Deve essere forzata per poter perseguire la «giustizia riproduttiva» e la «trasformazione del genere». Il gender fluid è solo la premessa: l'obiettivo definitivo è cancellare la «matrice eterosessuale», «perché le identità binarie sono criterio di oppressione» e devono «sbocciare un centinaio di sessi!». Il futuro va scollegato dalla «cultura che elogia il Bambino e dunque supporta le ideologie della famiglia etero e normativa», bisogna combattere il «fascismo del volto del Bambino» e favorire il queer (il «sessualmente, etnicamente o socialmente eccentrico rispetto alle definizioni di normalità codificate dalla cultura egemone») perché rappresenta il «violento annullamento di significato, la perdita di identità e coerenza, l'innaturale accesso al godimento».
Tutto, anche l'attivismo sul cambiamento climatico va tarato in chiave anti bambino. L'ambientalismo mainstream, secondo le xenofemministe, usa immagini di giovani, soprattutto bambini maschi, bianchi e biondi e quindi è eterosessismo e paura di un pianeta queer. La Hester riporta che «una delle strategie più popolari tra quelle adottate dalla polizia e da altri oppositori delle attività sessuali negli spazi naturali è stata quella di presentarsi come protettori dei bambini».
La Hester spiega che occorre resistere «alla chiamata della futurità riproduttiva» anche perché «la “bella mammina" ricca e bianca viene elogiata per il suo contributo al futuro dello stato-nazione, ma le madri adolescenti, i genitori di colore e di origine latino-americana, i soggetti trans* e genderqueer, le persone immigrate e rifugiate, e quelle che vivono di sussidi non ricevono lo stesso trattamento». Per contrastare questo fascismo della «futurità riproduttiva normativa bianca» bisogna accogliere l'imperativo di Donna Haraway, vecchia teorica del cyberfemminismo: «Generate parentele, non bambini!». Cioè «sintetizzare nuove solidarietà anziché privilegiare la famiglia genetica e la riproduzione genetica in un mondo che ha esaurito le risorse».
«Noi in quanto specie dovremmo ridurre il tasso di natalità», dice la Haraway, che teorizza un'alleanza intra e interspecie «meno naturalizzata, meno egocentrica e meno parrocchiale». Come? Con un «impegno generale a dare asilo, per quanto possibile, ai soggetti precari e agli oppressi». Serve un «atto di solidarietà con i nuovi arrivi di ogni tipo (dai soggetti migranti alle nuove figure tutrici, fino alle persone giovanissime). La riproduzione eterosessuale deve essere sostituita dall'ingegneria genetica post-genere e multigenitoriale in cui fare bambini significhi anche generare parentele senza investire nella riproduzione sociale di valori bianchi, cisessuali e patriarcali».
Scriveva il grande Roald Dahl, ne Le streghe: «Le vere streghe sembrano donne qualunque, vivono in case qualunque, indossano abiti qualunque e fanno mestieri qualunque. Per questo è così difficile riconoscerle. Una vera strega odia i bambini di un odio così feroce, furibondo, forsennato e furioso da non poterselo immaginare. E infatti passa tutto il suo tempo a escogitare nuovi modi per sbarazzarsi di loro». Quello di Dahl era un libro per l'infanzia uscito nel 1983, ma diceva già tutto sulle femministe di oggi.
Nel Nord Europa emancipato e progressista le ragazze vivono peggio che in Italia
Nel cielo dei luoghi comuni, di cui il tempo presente abbonda più che mai, v'è la prodigiosa civiltà dei Paesi del nord Europa. Con insistenza sentiamo raccontare quanto funziona bene la scuola in Finlandia o in Danimarca; quanto sono progressisti, aperti, «avanti», svedesi e norvegesi; quanto sono gender friendly, sessualmente emancipati e «amici delle donne», in generale, tutti gli Stati nordici che furono protestanti.
Ovviamente la polemica, implicita o esplicita, è verso i Paesi mediterranei, verso i «terroni», di tradizione cattolica: retrogradi, medievali, maschilisti ecc.
Ebbene, visto che oggi è l'8 marzo, senza soffermarci sui mille interrogativi che questi luoghi comuni suscitano (lo avete mai sentito un Tommaso d'Aquino, un Michelangelo o un Galilei cresciuto nelle straordinarie culture nordiche? Perché, se stanno così bene, si suicidano molto di più degli italiani, o dei greci? Proviamo a leggere un solo dato: come se la passano le donne laddove tutto funziona così bene?
Ebbene, la risposta è semplice: molto, molto peggio che in Italia.
Sono costretti a rivelarcelo persino quotidiani che fanno da sempre dell'attacco alle radici cattoliche dell'Italia la loro missione.
Vediamo cosa scrive Repubblica del 2 marzo 2017: «Secondo dati dell'Agenzia per i diritti fondamentali dell'Unione europea, i Paesi in cui la violenza contro le donne (fisica e/o sessuale) è più comune sono quelli del Nord Europa. L'Italia si attesta sotto la metà della classifica, ben al di sotto della media europea: nel nostro Paese le donne vittime di violenza fisica o sessuale dai 15 anni in poi rappresentano il 27%, a fronte del 52% in Danimarca, del 47% in Finlandia, del 46% in Svezia, del 45% nei Paesi Bassi e del 44% in Francia e Regno Unito. La stessa tendenza sarebbe confermata anche se si analizza il fenomeno solo dal punto di vista delle molestie sessuali (15% in Italia, 32% in Danimarca, 27% in Svezia e Paesi Bassi, 24% in Francia e Belgio). Anche per quanto riguarda la violenza subita, specificamente dai partner, l'Italia si attesta nella fasce più basse (15-20%), mentre nella parte alta della classifica si confermano i Paesi del Nord Europa e i Paesi dell'Est...».
Il dato è confermato anche da fonti non ideologiche come il sito Truenumbers che, presentando ai suoi lettori i dati del Gender Equality Index Report 2015, che fanno riferimento anche al Report Violence against Women dell'Fra, il 1 settembre 2015 titolava: «Nel nord Europa più violenza contro le donne».
Infine, essendo i dati sulla violenza sulle donne spesso interpretabili e non univoci, ecco un dato che appare inconfutabile: non il numero delle donne che avrebbero subito violenza di qualche genere, ma quello delle donne assassinate.
Ecco quanto scrivono il professore di demografia ed ex senatore Pd, Gianpiero Dalla Zuanna e la docente di statistica Alessandra Minello, su Lavoce.info e su Il Foglio del 27 agosto 2017: «L'Italia è il Paese sviluppato dove le donne corrono il minor rischio di essere uccise. Infatti, nel periodo 2004-2015 ci sono stati in Italia 0,51 omicidi volontari ogni 100 mila donne residenti, contro una media di 1,23 nei trentadue paesi europei e nordamericani per cui si dispone di dati Unodc. Le differenze sono ampie. I Paesi della ex Urss e gli Usa sono quelli dove le donne sono più a rischio, con tassi quattro volte superiori rispetto all'Italia, mentre i più sicuri sono gli stati dell'Europa meridionale, con l'Italia al trentaduesimo e ultimo posto per tasso di omicidi"».
Ancora una volta, insomma, la realtà dice una cosa, ma l'ideologia ne urla un'altra.
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Nelle librerie italiane arrivano i testi delle teoriche militanti più agguerrite. Nemiche della natura e della riproduzione, chiedono diritti per migranti e trans.Nel Nord Europa emancipato e progressista le ragazze vivono peggio che in Italia. Da parecchio tempo gli Stati protestanti sono presentati come modelli di democrazia e benessere da imitare. Eppure, se si vanno a guardare i dati, si nota che violenze e disagio sono elevati.Lo speciale comprende due articoli. Da qualche tempo a questa parte, il Me Too ha sancito il ritorno sulla scena sociale e mediatica del femminismo, giusto giusto nel cinquantenario di quando principiò. E gli effetti del film L'utero è mio e lo gestisco io 2 - La vendetta non tardano a vedersi. In occasione della Festa della donna - anche quest'anno trasformata in occasione di lotta - le librerie si sono riempite di volumi perfetti per istruire le nuove generazioni di militanti agguerrite. Sul fronte della narrativa troviamo il romanzo (edito da Bompiani) di Eve Babitz, Sex&Rage. Consigli a giovani donne che hanno voglia di divertirsi. Già: l'amore associato al sesso è reazionario, non è utile alla causa. Bisogna quindi accoppiare sesso e rabbia, e se gli uomini non possono più concedersi nemmeno un complimento a una donna, le donne possono eccome divertirsi e accoppiarsi rabbiosamente a destra e a manca. Anzi, devono. Nel reparto saggistica troviamo Educare al femminismo di Iria Marañon, accompagnato da strombazzanti placet come «Iria Marañon esorta i genitori e tutte le persone coinvolte nell'educazione dei più piccoli a rifiutare il machismo, ormai “normalizzato" nella società, fin dalla più tenera età» e «un manuale che insegna come bisognerebbe educare i figli affinché siano liberi, impegnati e impermeabili ai modelli soggioganti di televisione, cinema, letteratura, pubblicità e anche della famiglia e della scuola». Certo: i figli, sin dalla più tenera età, vanno educati a combattere il machismo, come no. Di tomi del genere ce ne sono parecchi, soprattutto rivolti alle più giovani. Ad esempio Il libro del femminismo (Gribaudo), una sorta di bignami della attivista furente. Oppure Post pink (Feltrinelli) che si presenta come Antologia di fumetto femminista, con immancabile prefazione di Michela Murgia…Ma i testi di questo tipo non sono nulla di fronte all'orrore puro, che si presenta nella forma di un libro piccolino intitolato Xenofemminismo (Nero edizioni) e firmato da Helen Hester. È la summa e (in parte) la fonte del pensiero femminista contemporaneo, quello a cui si abbeverano personaggi come la suddetta Murgia quando invoca la scomparsa della patria perché maschilista. In greco xènos vuol dire straniero. Lo xenofemminismo è una forma di femminismo tecnomaterialista, antinaturalista, abolizionista del genere e ultraxenofilo. Si tratta della teorizzazione di un vero e proprio nazismo femminista, elaborata da un «collettivo» chiamato Laboria Cuboniks. Lo xenofemminismo «vuole schierare strategicamente le tecnologie esistenti per riprogettare il mondo». A che scopo riprogettare il mondo (che si progetta benissimo da solo, per altro)? Ovvio: al fine di ribellarsi alle«strutture di oppressione che costituiscono i nostri mondi materiali», in primis il corpo femminile e la natura, contro i quali bisogna sfoderare «strumenti di intervento femminista nella corporeità», un'ampia e varia «tecnologia riproduttiva, compreso il controllo delle nascite» e l'ectogenesi (la crescita del feto fuori dal corpo, proprio come nel film Matrix, il capolavoro di quelli che all'epoca del film erano i fratelli Wachowski e ora, dopo il cambio di sesso, sono le sorelle Wachowski). Le nostre xenofemministe, insomma, vogliono mettere le mani sulla riproduzione naturale, in perfetto stile eugenetico. Alla procreazione naturale, spiegano, bisogna preferire «la riproduzione tecnologicamente assistita, nella quale i bioingegneri hanno il compito di costruire il figlio come se fosse una macchina fatta di componenti isolate». A leggerlo vi sembra un delirio? Beh, sappiate che tale forma di riproduzione esiste già: è l'utero in affitto. Ulteriore segno del fatto che queste idee, per quanto folli, hanno un impatto sulla realtà. La natura, per lo xenofemminismo, è «spazio di contestazione» e «limite pseudoteologico» che concede «enormi risorse concettuali alla condanna conservatrice della differenza». La biologia? Deve essere forzata per poter perseguire la «giustizia riproduttiva» e la «trasformazione del genere». Il gender fluid è solo la premessa: l'obiettivo definitivo è cancellare la «matrice eterosessuale», «perché le identità binarie sono criterio di oppressione» e devono «sbocciare un centinaio di sessi!». Il futuro va scollegato dalla «cultura che elogia il Bambino e dunque supporta le ideologie della famiglia etero e normativa», bisogna combattere il «fascismo del volto del Bambino» e favorire il queer (il «sessualmente, etnicamente o socialmente eccentrico rispetto alle definizioni di normalità codificate dalla cultura egemone») perché rappresenta il «violento annullamento di significato, la perdita di identità e coerenza, l'innaturale accesso al godimento». Tutto, anche l'attivismo sul cambiamento climatico va tarato in chiave anti bambino. L'ambientalismo mainstream, secondo le xenofemministe, usa immagini di giovani, soprattutto bambini maschi, bianchi e biondi e quindi è eterosessismo e paura di un pianeta queer. La Hester riporta che «una delle strategie più popolari tra quelle adottate dalla polizia e da altri oppositori delle attività sessuali negli spazi naturali è stata quella di presentarsi come protettori dei bambini». La Hester spiega che occorre resistere «alla chiamata della futurità riproduttiva» anche perché «la “bella mammina" ricca e bianca viene elogiata per il suo contributo al futuro dello stato-nazione, ma le madri adolescenti, i genitori di colore e di origine latino-americana, i soggetti trans* e genderqueer, le persone immigrate e rifugiate, e quelle che vivono di sussidi non ricevono lo stesso trattamento». Per contrastare questo fascismo della «futurità riproduttiva normativa bianca» bisogna accogliere l'imperativo di Donna Haraway, vecchia teorica del cyberfemminismo: «Generate parentele, non bambini!». Cioè «sintetizzare nuove solidarietà anziché privilegiare la famiglia genetica e la riproduzione genetica in un mondo che ha esaurito le risorse». «Noi in quanto specie dovremmo ridurre il tasso di natalità», dice la Haraway, che teorizza un'alleanza intra e interspecie «meno naturalizzata, meno egocentrica e meno parrocchiale». Come? Con un «impegno generale a dare asilo, per quanto possibile, ai soggetti precari e agli oppressi». Serve un «atto di solidarietà con i nuovi arrivi di ogni tipo (dai soggetti migranti alle nuove figure tutrici, fino alle persone giovanissime). La riproduzione eterosessuale deve essere sostituita dall'ingegneria genetica post-genere e multigenitoriale in cui fare bambini significhi anche generare parentele senza investire nella riproduzione sociale di valori bianchi, cisessuali e patriarcali». Scriveva il grande Roald Dahl, ne Le streghe: «Le vere streghe sembrano donne qualunque, vivono in case qualunque, indossano abiti qualunque e fanno mestieri qualunque. Per questo è così difficile riconoscerle. Una vera strega odia i bambini di un odio così feroce, furibondo, forsennato e furioso da non poterselo immaginare. E infatti passa tutto il suo tempo a escogitare nuovi modi per sbarazzarsi di loro». Quello di Dahl era un libro per l'infanzia uscito nel 1983, ma diceva già tutto sulle femministe di oggi. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-femminismo-del-futuro-fare-bimbi-e-fascista-e-servono-100-nuovi-sessi-2630948323.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="nel-nord-europa-emancipato-e-progressista-le-ragazze-vivono-peggio-che-in-italia" data-post-id="2630948323" data-published-at="1765126343" data-use-pagination="False"> Nel Nord Europa emancipato e progressista le ragazze vivono peggio che in Italia Nel cielo dei luoghi comuni, di cui il tempo presente abbonda più che mai, v'è la prodigiosa civiltà dei Paesi del nord Europa. Con insistenza sentiamo raccontare quanto funziona bene la scuola in Finlandia o in Danimarca; quanto sono progressisti, aperti, «avanti», svedesi e norvegesi; quanto sono gender friendly, sessualmente emancipati e «amici delle donne», in generale, tutti gli Stati nordici che furono protestanti. Ovviamente la polemica, implicita o esplicita, è verso i Paesi mediterranei, verso i «terroni», di tradizione cattolica: retrogradi, medievali, maschilisti ecc. Ebbene, visto che oggi è l'8 marzo, senza soffermarci sui mille interrogativi che questi luoghi comuni suscitano (lo avete mai sentito un Tommaso d'Aquino, un Michelangelo o un Galilei cresciuto nelle straordinarie culture nordiche? Perché, se stanno così bene, si suicidano molto di più degli italiani, o dei greci? Proviamo a leggere un solo dato: come se la passano le donne laddove tutto funziona così bene? Ebbene, la risposta è semplice: molto, molto peggio che in Italia. Sono costretti a rivelarcelo persino quotidiani che fanno da sempre dell'attacco alle radici cattoliche dell'Italia la loro missione. Vediamo cosa scrive Repubblica del 2 marzo 2017: «Secondo dati dell'Agenzia per i diritti fondamentali dell'Unione europea, i Paesi in cui la violenza contro le donne (fisica e/o sessuale) è più comune sono quelli del Nord Europa. L'Italia si attesta sotto la metà della classifica, ben al di sotto della media europea: nel nostro Paese le donne vittime di violenza fisica o sessuale dai 15 anni in poi rappresentano il 27%, a fronte del 52% in Danimarca, del 47% in Finlandia, del 46% in Svezia, del 45% nei Paesi Bassi e del 44% in Francia e Regno Unito. La stessa tendenza sarebbe confermata anche se si analizza il fenomeno solo dal punto di vista delle molestie sessuali (15% in Italia, 32% in Danimarca, 27% in Svezia e Paesi Bassi, 24% in Francia e Belgio). Anche per quanto riguarda la violenza subita, specificamente dai partner, l'Italia si attesta nella fasce più basse (15-20%), mentre nella parte alta della classifica si confermano i Paesi del Nord Europa e i Paesi dell'Est...». Il dato è confermato anche da fonti non ideologiche come il sito Truenumbers che, presentando ai suoi lettori i dati del Gender Equality Index Report 2015, che fanno riferimento anche al Report Violence against Women dell'Fra, il 1 settembre 2015 titolava: «Nel nord Europa più violenza contro le donne». Infine, essendo i dati sulla violenza sulle donne spesso interpretabili e non univoci, ecco un dato che appare inconfutabile: non il numero delle donne che avrebbero subito violenza di qualche genere, ma quello delle donne assassinate. Ecco quanto scrivono il professore di demografia ed ex senatore Pd, Gianpiero Dalla Zuanna e la docente di statistica Alessandra Minello, su Lavoce.info e su Il Foglio del 27 agosto 2017: «L'Italia è il Paese sviluppato dove le donne corrono il minor rischio di essere uccise. Infatti, nel periodo 2004-2015 ci sono stati in Italia 0,51 omicidi volontari ogni 100 mila donne residenti, contro una media di 1,23 nei trentadue paesi europei e nordamericani per cui si dispone di dati Unodc. Le differenze sono ampie. I Paesi della ex Urss e gli Usa sono quelli dove le donne sono più a rischio, con tassi quattro volte superiori rispetto all'Italia, mentre i più sicuri sono gli stati dell'Europa meridionale, con l'Italia al trentaduesimo e ultimo posto per tasso di omicidi"». Ancora una volta, insomma, la realtà dice una cosa, ma l'ideologia ne urla un'altra.
Giorgia Meloni (Imagoeconomica)
L’attuale governo sta mostrando la consapevolezza di dover sostenere, con una politica estera molto attiva sul piano globale, il modello economico italiano basato sull’export che è messo a rischio - gestibile, ma comunque problematico per parecchi settori sul piano dei margini finanziari - dai dazi statunitensi, dalla crisi autoinflitta per irrealismo ambientalista ed eccessi burocratici dell’Ue, dai costi eccessivi dell’energia e, in generale, dal cambio di mondo in atto senza dimenticare la crisi demografica. Vedremo dopo le soluzioni interne, ma qui va sottolineato che l’Italia non può trasformare il proprio modello economico dipendente dall’export senza perdere ricchezza. La consapevolezza di questo punto è provata dalla riforma del ministero degli Esteri: accanto alla Direzione politica, verrà creata nel prossimo gennaio una Direzione economica con la missione di sostenere l’internazionalizzazione e l’export delle imprese italiane in tutto il mondo. Non è una novità totale, ma mostra una concentrazione di risorse e capacità geoeconomiche e geopolitiche finalmente adeguate alla missione di un’Italia globale, per inciso titolo del mio libro pubblicato nell’autunno 2023 (Rubbettino editore). Con quale meccanismo di moltiplicazione del potere negoziale italiano? Tradizionalmente, via la duplice convergenza con Ue e Stati Uniti pur sempre più complicata, ma con più autonomia per siglare partenariati bilaterali strategici di cooperazione economica-industriale (i trattati doganali sono competenza dell’Ue, condizione necessaria per un mercato unico europeo essenziale per l’Italia) a livello mondiale.
E con un metodo al momento solo italiano: partenariati bilaterali con reciproco vantaggio, cioè non asimmetrici. Con priorità l’Africa (al momento, 14 nazioni) ed il progetto di «Via del cotone» (Imec) tra Indo-Pacifico, Mediterraneo ed Atlantico settentrionale via penisola arabica. La nuova (in realtà vecchia perché elaborata dal Partito repubblicano nel 2000) dottrina di sicurezza nazionale statunitense è di ostacolo ad un Italia globale? No, perché, pur essendo divergente con l’Ue, non lo è con le singole nazioni europee, con qualche eccezione. Soprattutto, le chiama a un maggiore attivismo per la loro sicurezza, lasciando di fatto in cambio spazio geopolitico. Come potrà Roma usarlo? Aumentando i suoi bilaterali strategici e approfondendoli con Giappone, India, nazioni arabe sunnite, Asia centrale (rilevante l’accordo con la Mongolia se riuscisse) ecc. Quale nuovo sforzo? Necessariamente integrare una politica mercantilista con i requisiti di schieramento geopolitico. E con un riarmo non solo concentrato contro la minaccia russa, ma mirato a novità tecnologiche utili per scambiare strumenti di sicurezza con partner compatibili. Ovviamente è oggetto di studio, ma l’Italia ha il potenziale per farlo via progetti condivisi con America, europei e giapponesi nonché capacità proprie. Considerazione che ci porta a valutare la modernizzazione interna dell’Italia perché c’è una relazione stretta tra potenziale esterno e interno.
Obiettivi interni
La priorità è ridurre il costo del debito pubblico per aumentare lo spazio di bilancio utile per investimenti e detassazione stimolativi. Ciò implica la sostituzione del Pnrr, che finirà nel 2026, con un programma nazionale stimolativo (non condizionato dall’esterno) di dedebitazione: valorizzare e cedere dai 250 a 150 miliardi di patrimonio statale disponibile, forse di più (sui 600-700 teorici) in 15 anni. Se ben strutturata, tale operazione «patrimonio pubblico contro debito» potrà dare benefici anticipativi via aumento del voto di affidabilità del debito italiano riducendone il costo di servizio che oggi è di 80-90 miliardi anno. Già tale costo è stato un po’ ridotto dal giusto rigore della politica di bilancio per il 2026. Con il nuovo programma qui ipotizzato, da avviare nel 2027 per sua complessità, lo sarà molto di più dando all’Italia più risorse per spesa sociale, di investimenti competitivi e minori tasse.
Stimo dai 10 ai 18 miliardi anno di risparmio sul costo del debito e un aumento di investimenti esteri in Italia perché con voto di affidabilità (rating) crescente. Senza tale programma, l’Italia sarebbe condizionabile dalla concorrenza intraeuropea e senza i soldi sufficienti per la politica globale detta sopra. Ci sono tante altre priorità tecniche sia per invertire più decisamente il lento declino economico dell’Italia, causato da governi di sinistra e/o dissipativi, sia per rendere più globalmente competitiva l’economia italiana. Ma sono fattibili via un nuovo clima di cultura politica che crei fiducia ed ottimismo sul potenziale globale dell’Italia. Come? Più ordine interno, investimenti sulla qualificazione cognitiva di massa, sulla rivoluzione tecnologica, in sintesi su un’Italia futurizzante. L’obiettivo è attrarre più capitale e competenze dall’estero, comunicando credibilmente al mondo che l’Italia è terra di libertà, sicurezza, opportunità e progresso. Non può farlo solo la politica, ma ci vuole il contributo dei privati entro un concetto di «nazione attiva», aperta al mondo e non chiusa. Ritroviamo il vento, gli oceani.
www.carlopelanda.com
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Lando Norris (Getty Images)
Nell’ultimo GP stagionale di Abu Dhabi, Lando Norris si laurea campione del mondo per la prima volta grazie al terzo posto sul circuito di Yas Marina. Nonostante la vittoria in gara, Max Verstappen non riesce a difendere il titolo, interrompendo il suo ciclo di quattro mondiali consecutivi.
Lando Norris è campione del mondo. Dopo quattro anni di dominio incontrastato di Max Verstappen, il pilota britannico centra il titolo iridato al termine di una stagione in cui ha saputo coniugare costanza, precisione e lucidità nei momenti decisivi. La vittoria ad Abu Dhabi, conquistata con una gara solida e senza errori, suggella un percorso iniziato con un Mondiale che sembrava già scritto a favore dell’olandese.
La stagione ha visto Norris prendere il comando delle operazioni già nelle prime gare, approfittando di alcuni passaggi a vuoto di Verstappen e di una gestione impeccabile del suo team. Il britannico ha messo in mostra una costanza rara, evitando rischi inutili e capitalizzando ogni occasione: punti preziosi accumulati gara dopo gara che hanno costruito un vantaggio psicologico e tecnico difficile da colmare per chiunque, ma non per Verstappen, che nelle ultime gare ha tentato il tutto per tutto per costruirsi una chance di rimonta. Una rimonta sfumata per appena due punti, visto che il pilota della McLaren ha chiuso il Mondiale a quota 423 punti, davanti ai 421 del rivale della RedBull e che se avessero chiuso a pari punti il titolo sarebbe andato a Verstappen in virtù del numero di gran premi vinti in stagione: otto contro i sette di Norris. Inevitabile per l'olandese non pensare alla gara della scorsa settimana in Qatar, dove Norris ha recuperato proprio due punti sfruttando un errore di Kimi Antonelli all'inizio dell'ultimo giro.
La gara di Abu Dhabi ha rappresentato la sintesi perfetta della stagione di Norris: partenza accorta, gestione dei pit stop e mantenimento della concentrazione fino alla bandiera a scacchi. L’olandese, pur vincendo la corsa, non è riuscito a recuperare il distacco, confermando che i quattro anni di dominio sono stati interrotti da un talento giovane e capace di gestire la pressione del momento clou.
Alle spalle dei due contendenti, la stagione è stata amara per Ferrari e altri protagonisti attesi al vertice. Charles Leclerc e Lewis Hamilton non hanno mai realmente impensierito i leader della classifica, incapaci di inserirsi nella lotta per il titolo o di ottenere risultati significativi in gran parte del campionato. Una conferma, se ce ne fosse bisogno, delle difficoltà del Cavallino Rosso nel trovare una combinazione di macchina e strategia competitiva.
Il Mondiale 2025 si chiude quindi con un volto nuovo sul gradino più alto del podio e con alcune conferme sullo stato della Formula 1: Norris dimostra che la gestione mentale, l’attenzione ai dettagli e la capacità di evitare errori critici contano quanto la velocità pura. Verstappen, pur da vincitore di tante gare, dovrà riflettere sulle occasioni perdute, mentre la Ferrari è chiamata a ripensare, ancora una volta, strategie e sviluppo per la stagione successiva.
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