
Tradizionalmente somministrate alle puerpere e ai convalescenti, furono elogiate da Pellegrino Artusi come rimedio per il mal di pancia. A Venezia un tempo erano dette il «bocon del vescovo». E a Milano gli ambulanti le spellavano vive per i clienti.Fanno parte della storia del nostro Paese. Cibo di sussistenza (poche calorie) e di sostanza: il calcio delle loro piccole ossa compensava una carenza di minerali soprattutto nell'Italia di metà Ottocento, polentocentrica. Eppure le rane possono vantare quarti di nobiltà importanti. A cominciare da Dante Alighieri che, in un canto dell'Inferno, le cita ampiamente: «E, come a l'orlo dell'acqua d'un fosso / stanno i ranocchi pur col muso fuori / sì stavan d'ogne parte i peccatori». Riscattate dai fasti rinascimentali, citate da Bartolomeo Scappi, il cuoco segreto di papa Pio V. Maria Bellonci, nella biografia dedicata a Lucrezia Borgia, ricorda il grande pranzo che, nel 1513, offrì a Ferrara in onore di Prospero Colonna con lucci, storioni, anguille.Le rane al tempo venivano destinate alle preparazioni più delicate, considerate adatte a deboli, anziani, convalescenti, puerpere. Nel Cinquecento il nobile Camillo Borromeo costruì, nella campagna pavese, un vivaio recintato dove le rane venivano allevate come pulcini. Fino ad allora erano preda dei «ranatée», i cacciatori di rane. Diverse le tipologie di caccia, ma su tutte quella in uso in Lombardia, che si modulava in base alle stagioni, come descritto da Graziano Pozzetto in Rane e ranocchi, memoria e cucina (Panozzo Editore, 2008): «Si usava il “rusòn", un retino con un grosso sacco in fondo che si poneva in mezzo al fosso. Poi, con un palo, si agitava l'acqua e si sloggiava la rana dalla sua postazione, portandola a saltare in mezzo al fosso, e quindi nel retino». In aprile ci si spostava nella risiera, quando era il tempo della «gagera», il gran concerto di corteggiamento. In base alla voce, più o meno ben imitata, la femmina sceglieva il proprio partner. Per aumentare l'attrazione si poneva il «lumòn» (una lampada a petrolio, poi ad acetilene) sull'argine, sì da attrarre le innocenti ranocchie desiderose di degno accoppiamento. Questi «ranatée», in estate, si armavano del «ranìn», una ranetta spelata e appesa a un bastone, agitato sopra il pelo dell'acqua, a simulare una libellula, ghiottoneria prediletta di questi anfibi. In settembre la caccia proseguiva in notturna, a piedi scalzi, per non far vibrare troppo il terreno. A ottobre, con la risaia asciutta, si usava il «raspn», un piccolo rastrello, per aiutarle a cadere nel retino cacciatore. Infine, d'inverno si andavano a scovare i «buiòc», ovvero le protuberanze del terreno che indicavano dove la rana godeva il meritato letargo.La rana è in stretta simbiosi con i fiumi e i rigagnoli di campagna, in particolare quelli delle risaie. E qui sta una delle criticità che hanno ridimensionato la presenza delle rane nel nostro ecosistema. Diversi i fattori. L'uso dei diserbanti, legato alla sparizione delle mondine che sorvegliavano la buona crescita del riso, ma soprattutto l'anticipo, per esigenze di coltivazione intensiva, del primo prosciugamento delle risaie, in coincidenza con il periodo in cui venivano deposte le uova. A ciò si è aggiunta l'aratura fatta a una profondità molto più marcata di un tempo, che trincia gli anfibi in letargo. Le rane sono presenti a pieno titolo, e con merito, nella letteratura non solo gastronomica. Massimo Montanari elogia la capacità degli italiani «di trasformare le rane in ghiottonerie come forse solo i francesi, definiti dagli americani mangiarane». Pellegrino Artusi, elogiando il risotto di ranocchi, sottolinea come «essendo rinfrescante e dolcificante, viene raccomandato nelle malattie di petto, nelle infiammazioni lente degli intestini». Leone Gessi nel Gastronomo itinerante elenca varie ricette, sottolineando come «tra Emilia Romagna e Lombardia i bambini nascono con la canna in mano per pescare i ranocchi». A proposito di ricordi d'infanzia, Luigi «Gino» Veronelli nella Pacciada, scritta con Gioan Brera nel 1973, ricorda la figura di «quel di rann», l'ambulante che girava per il quartiere della sua Milano a vendere ranocchi e, ancora, la vecchina di piazza della Rosa, che pescava le rane dal sacco custodito tra le ginocchia e le spellava vive per venderle alle famiglie del posto. Forse per quello era vittima dei ragazzi che facevano di tutto per liberare le ranocchie superstiti e vederle saltellare libere per la strada. Un ricordo struggente per il «rann pien pienisc» che gli preparava l'amata nonna. In pratica, rane fritte ripiene di lingua, mortadella, salame, uova, grana.La gastroletteratura registra circa 200 piatti. Predominante il Piemonte, tra Novarese e Vercellese, terre di risaie, dove le rane solitamente sono servite con riso e polenta. Non è un caso che a Livorno Ferraris si trovi il più antico monumento dedicato alla rana. Tra le comunità valdesi del Piemonte esisteva una vecchia tradizione: la pelle delle rane veniva usata per rattoppare la «cousa dal vin», ovvero una zucca svuotata ed essiccata che gli uomini usavano nei campi come borraccia per il vino o l'acqua, soprattutto durante la stagione della fienagione. La rana veniva spellata e la pelle applicata sul foro o fessura, con un ottimo effetto sigillante. In Lombardia la rana, come ricorda Marco Guarnaschelli Scotti, ha concesso a schiere di fedeli di mangiare di magro nei giorni comandati. Ecco allora le rane fritte e le costolette di rana, piatto che richiedeva un'infinita pazienza: bisognava spolpare le coscette, batterle a coltello a tagliarle a fettine.Su tutti, prevale il risotto alla certosina, nel Pavese, nato come piatto penitenziale dei monaci. Un mix che abbinava il meglio del territorio: gamberi di fiume, pesce persico, funghi porcini, piselli e, ovviamente, rane. In Lomellina, ospite dell'unica confraternita dedicata alle rane, ai pranzi di nozze era d'obbligo la risana, un riso di rane. Nel Veneto Bepo Maffioli ricorda come le rane fossero consigliate alle donne che, pare, ne ottenessero un candido e trasparente incarnato. Nel Veneziano le rane erano considerate «bocon del vescovo». Figurarsi che tentazione posto che, in genere, le leccornie normali erano considerate «bocon del prete». Francesco Serantini ha dedicato loro un passaggio molto bello in Addio alle Valli. Siamo ai tempi della grande guerra: «La notte, sul basso Piave, le rane tenevano compagnia ai soldati gracidando a distesa negli acquitrini. Neppure il rimbombo dei grossi cannoni riusciva a mettere pause o sussulti in quella felicità corale».Sulla costa adriatica ravennate i «ranucer», i ranaioli del posto, «usavano un'esca formata da due lumache, le facevano saltellare sull'acqua quasi fossero un insetto», ricorda Augusto Ballestrazzi. Conselice è considerato il paese dei ranocchi, come da decenni testimonia l'annuale sagra del Carnevale di santo Grugnone, con polenta e rane a volontà. Qui si trova un altro monumento al ranocchio, opera di Piero Baldazzi. Nelle Marche, a Fermignano, si tiene il Palio delle rane, poste sopra le carriole e spinte da uomini in costume d'epoca che si dannano per arrivare al traguardo senza perdere il partner per strada. A Roma i ranocchiari ambulanti commerciavano sino a metà del secolo scorso. Nel gergo locale, dare della ranocchia a una signora non è il massimo dei complimenti, ma già «ranocchietta» sta a significare una simpatia complice. In Sicilia gli anfibi vengono anche chiamati «larunchi» o «pisci-catànnu» (pesci che cantano). La rana è protagonista anche in tavole d'autore. Citata da Gualtiero Marchesi, ha in Igles Corelli uno dei suoi più ispirati interpreti con il Savarin con cosce di rana fritte e crema acida, per anni piatto del buon ricordo con il Risotto alle rane alla trattoria Alla chiocciola di Portomaggiore (Ferrara). Un menù le è dedicato da Nizzoli, nel Mantovano, lungo un percorso che prevede una decina di preparazioni.
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