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2019-01-25
Il Consiglio d’Europa rimprovera l’Italia. Pretende che da noi si abortisca di più
Ansa
La ragion d'essere dell'organizzazione chiamata Consiglio d'Europa dovrebbe essere la promozione della democrazia, dei diritti umani e della identità culturale europea. Ma, a quanto pare, si diletta anche a promuovere la cancellazione degli europei, la loro eliminazione fisica tramite interruzione volontaria di gravidanza. Già, secondo il Comitato per i diritti sociali del Consiglio d'Europa dalle nostre parti è troppo difficile abortire. «Sebbene la situazione sembri migliorare», spiegano da Strasburgo, «sussistono tuttora forti disparità a livello locale, soprattutto dal momento che numerosi medici non obiettori non sono assegnati ai servizi di aborto o non lavorano a tempo pieno».
E non è mica finita. Stando a ciò che scrive il Consiglio, quella del nostro Paese sarebbe una situazione «non conforme». Ovvero ci sarebbero discriminazioni «contro le donne che desiderano porre fine alla gravidanza e la violazione del loro diritto alla salute a causa di problemi di accesso servizi di aborto». In più, pare che ci sia «discriminazione nei confronti dei medici non obiettori».
Per questo motivo il comitato di Strasburgo pretendo che entro il prossimo ottobre il nostro Paese fornisca «informazioni nella prossima relazione sulle misure adottate per garantire che gli operatori non obiettori siano distribuiti in modo più uniforme in tutto il Paese e siano effettivamente disponibili nei servizi di aborto». Per quale motivo i signori del Consiglio d'Europa si permettono queste valutazioni? Semplice: perché nel 2013 la Cgil si è rivolta all'organizzazione presentando un ricorso. Il sindacato, invece di occuparsi della distruzione del mondo del lavoro, si preoccupava del fatto che i lavoratori non venissero nemmeno al mondo.
Così, da qualche anno a questa parte, Strasburgo ci pressa affinché interrompere le gravidanze diventi più facile su tutto il territorio nazionale.
La vicenda, con tutta evidenza, è grottesca, ma merita alcune riflessioni. Tanto per cominciare, è bene dare uno sguardo ai numeri. I rilievi del Consiglio d'Europa si basano su dati forniti dal precedente governo e relativi al 2016. Cifre più aggiornate le ha fornite, pochi giorni fa, il ministero della Salute. Nella «Relazione sull'attuazione della legge 194/78» si legge che gli aborti, nel nostro Paese, sono in calo del 5%. Nel 2017 ne sono stati effettuati 80.733: -4,9% rispetto al 2016 e -65,6% rispetto al 1982, cioè l'anno in cui ci sono state più interruzioni di gravidanza.
Forse è per questo che a Strasburgo si danno tanto da fare: temono che gli aborti calino troppo, e che i fastidiosi italiani riprendano a riprodursi. In ogni caso, l'allarme sui medici antiabortisti è ingiustificato: nel 2017 i ginecologi obiettori erano il 68.4% del totale contro il 70,9% del 2016. Insomma: tantissimi dottori si rifiutano di interrompere gravidanze, ma sono meno che in passato. Quanto gli anestesisti, l'obiezione di coscienza si ferma al 45.6% mentre tra il personale non medico è ferma al 38,9%.
Quindi il problema dove sta? Questi numeri certificano che qui non c'è nessuna emergenza, non viene violato alcun diritto e chi vuole liberarsi del feto sgradito lo può fare praticamente ovunque.
Ma c'è di più. Sempre secondo i dati ministeriali, «nel 2017 oltre un'interruzione volontaria di gravidanza su 5 è stata ottenuta con una pillola abortiva».
Vuol dire che si può abortire senza fatica anche se ci sono tanti obiettori: ricorrere alla pillolina è sempre più semplice e veloce, anche grazie alle simpatiche battaglie condotte da organizzazioni di sinistra e sindacati.
La verità è che in Italia gli unici a rischio discriminazione sono proprio gli obiettori. Negli ultimi tempi subiscono attacchi di ogni tipo, per lo più pretestuosi. Verso la fine di dicembre per le strade di alcune città sono apparsi manifesti realizzati dall'Uaar (l'unione degli atei e degli agnostici) con uno slogan molto diretto: «Testa o croce? Non affidarti al caso! Chiedi subito al tuo medico se pratica qualche forma di obiezione di coscienza». In sostanza, invitavano alla schedatura dei professionisti non allineati. Per quei manifesti, ovviamente non ci sono state polemiche. Mentre i cartelloni contro l'utero in affitto e l'aborto affissi da associazioni come Pro vita e Generazione famiglia sono stati duramente contestati e rimossi.
Ora le affermazioni del Consiglio d'Europa saranno utilizzate dai soliti noti per alimentare la propaganda. Ma la realtà parla una lingua diversa: gli aborti stanno diminuendo e qualcuno non va bene. Come sempre avviene, si riempiono la bocca con la difesa dei «diritti delle donne» e con la «lotta alla discriminazioni». Ma, dietro le paroline dolci e i toni moderati, continuano a fare il tifo per l'ecatombe.
Francesco Borgonovo
A New York la pena di morte esiste soltanto per gli innocenti
Venerdì 18 gennaio si è tenuta la March for Life a Washington per ribadire il valore della vita umana innocente e parallelamente per criticare la storica e micidiale sentenza Roe vs. Wade. Sentenza che nel 1973 legittimò l'interruzione di gravidanza negli Stati Uniti. Aprendo la strada a una quantità enorme di leggi simili, come la 194 da noi, che in fondo si basarono anche sul prestigio politico che gli Stati Uniti, vincitori della guerra e avanguardia del capitalismo, godevano nell'intero mondo occidentale.
All'opposto del predecessore Barack Obama, il repubblicano Donald Trump più di una volta ha espresso il suo compiacimento per la marcia, definita come una lotta in nome dell'amore e la tutela dei bambini. Ed è intervenuto direttamente a sostegno dei pro life, in America molte ben organizzati e diffusi. Il vicepresidente Mike Pence, presente anche quest'anno alla marcia con sua moglie, ha dichiarato di voler sperare di assistere «durante la propria vita» alla fine dell'aborto legale.
Lo Stato di New York però, tra i più progressisti, filodemocratici e meno trumpiani del Paese, ha appena approvato una norma che permetterebbe, per qualunque ragione di difficoltà della madre e per qualunque malattia riscontrata nel feto, la soppressione del nascituro sino al momento che precede la nascita.
«Con la firma di questo disegno di legge, vogliamo inviare un chiaro messaggio secondo cui, qualunque cosa accada a Washington, le donne di New York avranno sempre il diritto fondamentale di gestire il loro corpo», ha detto il governatore Andrew Cuomo, approvando con giubilo degno di miglior causa, il Reproductive Health Act.
Ma se il nascituro può nascere e di fatto spesso e volentieri nasce (e sopravvive) a 8 mesi e perfino a 7, come può non essere infanticidio, la sua soppressione a 9?
A partire dalla seconda guerra mondiale esiste un variegatissimo fronte che reclama ovunque l'abolizione della pena capitale. È un fronte che si appella a Beccaria e che auspica la scomparsa della pena più antica del mondo dai codici penali di tutti gli Stati del pianeta. All'inizio, era prevalentemente diretto da ambienti laici e marxisti, ma poi si è allargato assai, comprendendo i radicali, molti conservatori e lo stesso papa Francesco.
Lo Stato di New York già nel 2007, nell'autonomia che caratterizza gli Stati della federazione, ha soppresso definitivamente la pena di morte, pena che non veniva già data dal 1976. E l'ha perfino dichiarata incostituzionale con un parere della propria corte suprema, approvato dall'allora governatore Eliot Spitzer.
Come si fa però a volere l'abolizione della pena di morte per i delinquenti più incalliti - visto che essa dove esiste è prevista per assassini e terroristi e non certo per ladri di pollame o di biciclette - e poi voler sopprimere il bambino pienamente formato nel ventre materno?
Il ministero della Salute ha appena pubblicato la cifra degli aborti legali in Italia, che ammonterebbero a 80.733 per quanto riguarda l'anno 2017. La stampa ha parlato di un calo netto rispetto all'anno precedente (di quasi il 5%) e questo non può dispiacere ad alcuno. Ma ciò che aumenta più o meno ovunque è il numero degli obiettori di coscienza, ovvero di coloro che rifiutano di praticare un intervento di aborto nel mondo intero.
Il governatore democartico Cuomo e tutti i gruppi di pressione in favore dell'aborto dovrebbero chiedersi come mai, moltissimi uomini di scienza come i medici e i chirurghi, disposti per professione e missione a fare qualunque tipo di operazione medico-sanitario, non vogliano praticare soltanto la cosiddetta interruzione di gravidanza.
Non è il segno che dietro questo millantato diritto ci sia, come diceva Giovanni Paolo II, un reale delitto?
Fabrizio Cannone
I diritti non c’entrano: è infanticidio
Lo stato di New York ha reso legale l'aborto fino al nono mese. Il One World Trade Center si è illuminato di rosa per festeggiare l'approvazione di una legge sull'aborto che permette di abortire fino al nono mese, per qualunque ragione. E permette anche al personale sanitario - non necessariamente medico - di effettuare aborti, così che se non si troveranno in numero sufficiente medici disposti a fare questo scempio, i paramedici potranno ovviare.
Io sono nata di sette mesi: tra l'altro sono nata a casa. Niente culla termica e niente incubatrice. E sono sopravvissuta. Un bambino di sette, otto e ancora di più nove mesi è vitale, è in grado di sopravvivere fuori dal corpo della madre. Perché ucciderlo? Immaginiamo una donna incinta di sette, otto oppure ormai di nove mesi che improvvisamente si rende conto che non vuole il suo bambino. Nel 90% dei casi si tratta di quello che in psicologia si chiama sindrome di Medea: è successo qualcosa di terribile col padre del bambino. Forse ha picchiato la madre, forse l'ha tradita: e la donna non vuole più essere madre di suo figlio.
Nell'aborto fino al sesto mese la morte del feto è un effetto collaterale. La donna vuole ritornare unica utente del proprio corpo, utero incluso. Il piccolino viene espulso, agonizza un pochino tra le garze sporche e poi muore. Nell'aborto dopo il sesto mese, soprattutto dopo il settimo, il feto è vitale. Basterebbe farlo nascere vivo e darlo in adozione: la donna ritorna unico utente delle sue viscere.
Immaginiamo un medico, non solo laureato in medicina, ma un medico vero, degno di questo nome, che combatta per la vita e per non nuocere. Immaginiamo che questo medico si trovi di fronte una donna, incinta di otto mesi, che gli dica: «Quel bastardo mi ha tradito e mi ha picchiato, io non voglio mettere il mondo suo figlio, fai fuori questo scarafaggio».
Un medico per bene risponde: «Certo signora, ha ragione signora, non si preoccupi. Ora le induco il parto e poi daremo in adozione il bimbo. Lei non lo vedrà mai più». Il sanitario dello stato di New York, invece, davanti una situazione di questo genere fa un aborto a nascita parziale, induce il parto e uccide il bambino quando è parzialmente nato. Se il bimbo nasce vivo e piange, non si può più uccidere, perché è legalmente omicidio. Quindi è necessario che non nasca vivo e che non pianga. Il sanitario induce il parto, durante il parto fa una manovra che lo rende podalico, poi estrae il corpicino del bimbo dai piedi e mentre lui sta scalciando, mentre ha ancora la testa nella vagina della signora che non definiamo madre perché non è il caso, gli recide il midollo spinale a livello delle vertebre cervicali.
Il corpicino si affloscia. Il parto podalico è una complicazione per la madre. Occorre quindi una tecnica particolare perché il bimbo non nasca vivo, una tecnica più complicata e più pericolosa per la madre del parto semplice col piccolo che nasce vivo.
Quel bimbo poteva nascere vivo. La scelta della madre, non lo voglio nel mio utero, non c'entra più. Quella scelta poteva essere rispettata facendo semplicemente nascere il bimbo e dandolo in adozione, con un parto più semplice per la madre di quello necessario all'aborto a nascita parziale.
Lo stato di New York quindi è arrivato all'infanticidio, non rispetta più il desiderio della donna di avere l'utero di nuovo vuoto, ma rispetta il suo desiderio di avere il figlio morto, anche a costo di una tecnica di parto più pericolosa per lei. L'odio per il figlio che si manifesta con suo assassinio.
Inginocchiamoci tutti e chiediamo perdono di far parte di questo umanità.
Silvana De Mari
Nell’Olanda dell’eutanasia libera 1 decesso su 4 è per mano medica
Negli stessi giorni in cui il radicale Marco Cappato ha lamentato il «forte ritardo» del nostro Parlamento sul fine vita dopo che la Corte Costituzionale, l'ottobre scorso, ha segnalato un vuoto legislativo in materia, una nuova inchiesta sull'eutanasia legale sta sollevando interrogativi inquietanti. A realizzarla non è stata qualche testata riconducibile alla galassia pro life, ma il britannico Guardian, con un lungo approfondimento firmato da Christopher de Bellaigue. L'inchiesta, significativa fin dal titolo - «Morte su richiesta: l'eutanasia è andata troppo oltre?» -, è interessante perché non si pone in un'ottica di aprioristica contrarietà al diritto di morire, anzi. Va però a mettere a fuoco, senza sconti, gli effetti sociali della legalizzazione della «dolce morte», e lo fa esaminando il caso dell'Olanda, che nel 2001 è stato il primo Paese al mondo a introdurla.
Per vederci chiaro sull'esperienza olandese, de Bellaigue ha parlato con diversi bioeticisti e medici non contrari all'eutanasia, i quali però iniziano a sollevare dei dubbi. Come Theo Boer, che per ben 9 anni, dal 2005 al 2014, è stato membro di uno dei cinque consigli regionali istituiti per esaminare le richieste di morte, ma che ora non nasconde il proprio scetticismo. «Il processo d'introduzione della legislazione sull'eutanasia fu inizialmente accompagnato dalla volontà di trattare i casi più strazianti, forme di morte davvero terribili», ha spiegato Boer al Guardian. «Il problema», ha aggiunto, «è che poi si sono verificati cambiamenti importanti nel modo con cui viene applicata la legge. Sì è messo in moto qualcosa che abbiamo scoperto avere ben più conseguenze di quante ne avessimo mai immaginate».
Dei comitati regionali per monitorare l'eutanasia faceva parte anche la dottoressa di Berna van Baarsen, la cui storia La Verità ha raccontato esattamente un anno fa, la quale è giunta a rassegnare le proprie dimissioni perché stanca degli abusi cui era costretta ad assistere. Del resto, che la situazione olandese sia oramai fuori controllo è dimostrato dagli stessi dati: i 1.882 casi di morte on demand del 2002 sono diventati 3.695 nel 2011, 5.306 nel 2014 e addirittura 6.585 nel 2017. Numeri che descrivono un'impennata costante e che diventano ancor più allarmanti se confrontati col totale dei decessi nel Paese. Infatti, se già nel 2012, come stimato da Wesley J. Smith su National Review, i casi di eutanasia rappresentavano il 12% del totale delle morti olandesi, oggi ammontano a circa il 25%. In pratica, una morte ogni quattro avviene per mano medica.
Un mortifero dilagare dovuto essenzialmente all'allargamento della platea dei destinatari della «dolce morte», in una prima fase riservata solo ai malati terminali ma ora disponibile anche per i malati cronici, le persone affette da demenza e perfino per i pazienti psichiatrici. Di questi ultimi, nel 2017 ne sono stati eliminati con iniezione letale ben 83. Si sono perfino verificati, segnala Smith, casi di eutanasie di coppia perché uno dei due partner temeva la vedovanza. Senza dimenticare, poi, i decessi avvenuti in assenza di qualsivoglia precedente richiesta di morte: solo nel 2015, secondo le statistiche, se ne sono registrati 431.
Le perplessità dei bioeticisti però oggi riguardano soprattutto le morti di persone che non sono affatto malate terminali. «Quando si aiuta a morire un paziente malato terminale», ha sottolineato il già citato Boer, «si sa che, anche se la sua decisione è problematica, quella persona sarebbe morta comunque e di lì a poco. Ma quando si tratta di una persona che avrebbe potuto vivere decenni, è poi difficile togliersi dalla mente che, anziché morire, avrebbe potuto trovare un nuovo equilibrio nella sua vita».
Ciò che colpisce è che il pur emergenziale dilagare dell'eutanasia, in Olanda, non impensierisce più l'opinione pubblica. Viene semplicemente accolto come un dato di fatto. «Nei Paesi Bassi molte persone sostengono che quel processo ora è irreversibile», chiosa il giornalista del Guardian. «Ciò significa forse che gli olandesi sono persone orribili e macabre? Assolutamente no», commenta Smith, «ma sono logici. E una volta che la popolazione ha ampiamente accettato la premessa che uccidere è una risposta accettabile alla sofferenza, significa che il Paese ha abbracciato questa convinzione con tutte le sue conseguenze». Una considerazione conclusiva che, per chi ha orecchie per intendere, ha il sapore del monito.
Giuliano Guzzo
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In risposta a un ricorso della Cgil, l'organismo di Strasburgo grida alla discriminazione perché ci sono troppi obiettori.In uno degli Stati più liberal d'America sarà possibile interrompere la gravidanza anche al nono mese. Dal 2007 non si possono più giustiziare i delinquenti. Però i piccoli senza colpe vanno al massacro.In questo modo si uccidono feti già vitali in modo brutale, facendo presto per evitare che piangano. È una barbarie senza senso di cui l'umanità deve chiedere perdono.È stato il quotidiano progressista «Guardian» a raccontare ciò che accade nei Paesi Bassi, dove nel solo 2017 sono stati uccisi con iniezione 83 pazienti psichiatrici.Lo speciale contiene quattro articoli La ragion d'essere dell'organizzazione chiamata Consiglio d'Europa dovrebbe essere la promozione della democrazia, dei diritti umani e della identità culturale europea. Ma, a quanto pare, si diletta anche a promuovere la cancellazione degli europei, la loro eliminazione fisica tramite interruzione volontaria di gravidanza. Già, secondo il Comitato per i diritti sociali del Consiglio d'Europa dalle nostre parti è troppo difficile abortire. «Sebbene la situazione sembri migliorare», spiegano da Strasburgo, «sussistono tuttora forti disparità a livello locale, soprattutto dal momento che numerosi medici non obiettori non sono assegnati ai servizi di aborto o non lavorano a tempo pieno».E non è mica finita. Stando a ciò che scrive il Consiglio, quella del nostro Paese sarebbe una situazione «non conforme». Ovvero ci sarebbero discriminazioni «contro le donne che desiderano porre fine alla gravidanza e la violazione del loro diritto alla salute a causa di problemi di accesso servizi di aborto». In più, pare che ci sia «discriminazione nei confronti dei medici non obiettori».Per questo motivo il comitato di Strasburgo pretendo che entro il prossimo ottobre il nostro Paese fornisca «informazioni nella prossima relazione sulle misure adottate per garantire che gli operatori non obiettori siano distribuiti in modo più uniforme in tutto il Paese e siano effettivamente disponibili nei servizi di aborto». Per quale motivo i signori del Consiglio d'Europa si permettono queste valutazioni? Semplice: perché nel 2013 la Cgil si è rivolta all'organizzazione presentando un ricorso. Il sindacato, invece di occuparsi della distruzione del mondo del lavoro, si preoccupava del fatto che i lavoratori non venissero nemmeno al mondo.Così, da qualche anno a questa parte, Strasburgo ci pressa affinché interrompere le gravidanze diventi più facile su tutto il territorio nazionale. La vicenda, con tutta evidenza, è grottesca, ma merita alcune riflessioni. Tanto per cominciare, è bene dare uno sguardo ai numeri. I rilievi del Consiglio d'Europa si basano su dati forniti dal precedente governo e relativi al 2016. Cifre più aggiornate le ha fornite, pochi giorni fa, il ministero della Salute. Nella «Relazione sull'attuazione della legge 194/78» si legge che gli aborti, nel nostro Paese, sono in calo del 5%. Nel 2017 ne sono stati effettuati 80.733: -4,9% rispetto al 2016 e -65,6% rispetto al 1982, cioè l'anno in cui ci sono state più interruzioni di gravidanza. Forse è per questo che a Strasburgo si danno tanto da fare: temono che gli aborti calino troppo, e che i fastidiosi italiani riprendano a riprodursi. In ogni caso, l'allarme sui medici antiabortisti è ingiustificato: nel 2017 i ginecologi obiettori erano il 68.4% del totale contro il 70,9% del 2016. Insomma: tantissimi dottori si rifiutano di interrompere gravidanze, ma sono meno che in passato. Quanto gli anestesisti, l'obiezione di coscienza si ferma al 45.6% mentre tra il personale non medico è ferma al 38,9%.Quindi il problema dove sta? Questi numeri certificano che qui non c'è nessuna emergenza, non viene violato alcun diritto e chi vuole liberarsi del feto sgradito lo può fare praticamente ovunque. Ma c'è di più. Sempre secondo i dati ministeriali, «nel 2017 oltre un'interruzione volontaria di gravidanza su 5 è stata ottenuta con una pillola abortiva».Vuol dire che si può abortire senza fatica anche se ci sono tanti obiettori: ricorrere alla pillolina è sempre più semplice e veloce, anche grazie alle simpatiche battaglie condotte da organizzazioni di sinistra e sindacati. La verità è che in Italia gli unici a rischio discriminazione sono proprio gli obiettori. Negli ultimi tempi subiscono attacchi di ogni tipo, per lo più pretestuosi. Verso la fine di dicembre per le strade di alcune città sono apparsi manifesti realizzati dall'Uaar (l'unione degli atei e degli agnostici) con uno slogan molto diretto: «Testa o croce? Non affidarti al caso! Chiedi subito al tuo medico se pratica qualche forma di obiezione di coscienza». In sostanza, invitavano alla schedatura dei professionisti non allineati. Per quei manifesti, ovviamente non ci sono state polemiche. Mentre i cartelloni contro l'utero in affitto e l'aborto affissi da associazioni come Pro vita e Generazione famiglia sono stati duramente contestati e rimossi. Ora le affermazioni del Consiglio d'Europa saranno utilizzate dai soliti noti per alimentare la propaganda. Ma la realtà parla una lingua diversa: gli aborti stanno diminuendo e qualcuno non va bene. Come sempre avviene, si riempiono la bocca con la difesa dei «diritti delle donne» e con la «lotta alla discriminazioni». Ma, dietro le paroline dolci e i toni moderati, continuano a fare il tifo per l'ecatombe. 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Aprendo la strada a una quantità enorme di leggi simili, come la 194 da noi, che in fondo si basarono anche sul prestigio politico che gli Stati Uniti, vincitori della guerra e avanguardia del capitalismo, godevano nell'intero mondo occidentale. All'opposto del predecessore Barack Obama, il repubblicano Donald Trump più di una volta ha espresso il suo compiacimento per la marcia, definita come una lotta in nome dell'amore e la tutela dei bambini. Ed è intervenuto direttamente a sostegno dei pro life, in America molte ben organizzati e diffusi. Il vicepresidente Mike Pence, presente anche quest'anno alla marcia con sua moglie, ha dichiarato di voler sperare di assistere «durante la propria vita» alla fine dell'aborto legale. Lo Stato di New York però, tra i più progressisti, filodemocratici e meno trumpiani del Paese, ha appena approvato una norma che permetterebbe, per qualunque ragione di difficoltà della madre e per qualunque malattia riscontrata nel feto, la soppressione del nascituro sino al momento che precede la nascita. «Con la firma di questo disegno di legge, vogliamo inviare un chiaro messaggio secondo cui, qualunque cosa accada a Washington, le donne di New York avranno sempre il diritto fondamentale di gestire il loro corpo», ha detto il governatore Andrew Cuomo, approvando con giubilo degno di miglior causa, il Reproductive Health Act. Ma se il nascituro può nascere e di fatto spesso e volentieri nasce (e sopravvive) a 8 mesi e perfino a 7, come può non essere infanticidio, la sua soppressione a 9? A partire dalla seconda guerra mondiale esiste un variegatissimo fronte che reclama ovunque l'abolizione della pena capitale. È un fronte che si appella a Beccaria e che auspica la scomparsa della pena più antica del mondo dai codici penali di tutti gli Stati del pianeta. All'inizio, era prevalentemente diretto da ambienti laici e marxisti, ma poi si è allargato assai, comprendendo i radicali, molti conservatori e lo stesso papa Francesco. Lo Stato di New York già nel 2007, nell'autonomia che caratterizza gli Stati della federazione, ha soppresso definitivamente la pena di morte, pena che non veniva già data dal 1976. E l'ha perfino dichiarata incostituzionale con un parere della propria corte suprema, approvato dall'allora governatore Eliot Spitzer. Come si fa però a volere l'abolizione della pena di morte per i delinquenti più incalliti - visto che essa dove esiste è prevista per assassini e terroristi e non certo per ladri di pollame o di biciclette - e poi voler sopprimere il bambino pienamente formato nel ventre materno? Il ministero della Salute ha appena pubblicato la cifra degli aborti legali in Italia, che ammonterebbero a 80.733 per quanto riguarda l'anno 2017. La stampa ha parlato di un calo netto rispetto all'anno precedente (di quasi il 5%) e questo non può dispiacere ad alcuno. Ma ciò che aumenta più o meno ovunque è il numero degli obiettori di coscienza, ovvero di coloro che rifiutano di praticare un intervento di aborto nel mondo intero. Il governatore democartico Cuomo e tutti i gruppi di pressione in favore dell'aborto dovrebbero chiedersi come mai, moltissimi uomini di scienza come i medici e i chirurghi, disposti per professione e missione a fare qualunque tipo di operazione medico-sanitario, non vogliano praticare soltanto la cosiddetta interruzione di gravidanza. Non è il segno che dietro questo millantato diritto ci sia, come diceva Giovanni Paolo II, un reale delitto? Fabrizio Cannone <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-consiglio-deuropa-rimprovera-litalia-pretende-che-da-noi-si-abortisca-di-piu-2626989096.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="i-diritti-non-centrano-e-infanticidio" data-post-id="2626989096" data-published-at="1766862118" data-use-pagination="False"> I diritti non c’entrano: è infanticidio Lo stato di New York ha reso legale l'aborto fino al nono mese. Il One World Trade Center si è illuminato di rosa per festeggiare l'approvazione di una legge sull'aborto che permette di abortire fino al nono mese, per qualunque ragione. E permette anche al personale sanitario - non necessariamente medico - di effettuare aborti, così che se non si troveranno in numero sufficiente medici disposti a fare questo scempio, i paramedici potranno ovviare. Io sono nata di sette mesi: tra l'altro sono nata a casa. Niente culla termica e niente incubatrice. E sono sopravvissuta. Un bambino di sette, otto e ancora di più nove mesi è vitale, è in grado di sopravvivere fuori dal corpo della madre. Perché ucciderlo? Immaginiamo una donna incinta di sette, otto oppure ormai di nove mesi che improvvisamente si rende conto che non vuole il suo bambino. Nel 90% dei casi si tratta di quello che in psicologia si chiama sindrome di Medea: è successo qualcosa di terribile col padre del bambino. Forse ha picchiato la madre, forse l'ha tradita: e la donna non vuole più essere madre di suo figlio. Nell'aborto fino al sesto mese la morte del feto è un effetto collaterale. La donna vuole ritornare unica utente del proprio corpo, utero incluso. Il piccolino viene espulso, agonizza un pochino tra le garze sporche e poi muore. Nell'aborto dopo il sesto mese, soprattutto dopo il settimo, il feto è vitale. Basterebbe farlo nascere vivo e darlo in adozione: la donna ritorna unico utente delle sue viscere. Immaginiamo un medico, non solo laureato in medicina, ma un medico vero, degno di questo nome, che combatta per la vita e per non nuocere. Immaginiamo che questo medico si trovi di fronte una donna, incinta di otto mesi, che gli dica: «Quel bastardo mi ha tradito e mi ha picchiato, io non voglio mettere il mondo suo figlio, fai fuori questo scarafaggio». Un medico per bene risponde: «Certo signora, ha ragione signora, non si preoccupi. Ora le induco il parto e poi daremo in adozione il bimbo. Lei non lo vedrà mai più». Il sanitario dello stato di New York, invece, davanti una situazione di questo genere fa un aborto a nascita parziale, induce il parto e uccide il bambino quando è parzialmente nato. Se il bimbo nasce vivo e piange, non si può più uccidere, perché è legalmente omicidio. Quindi è necessario che non nasca vivo e che non pianga. Il sanitario induce il parto, durante il parto fa una manovra che lo rende podalico, poi estrae il corpicino del bimbo dai piedi e mentre lui sta scalciando, mentre ha ancora la testa nella vagina della signora che non definiamo madre perché non è il caso, gli recide il midollo spinale a livello delle vertebre cervicali. Il corpicino si affloscia. Il parto podalico è una complicazione per la madre. Occorre quindi una tecnica particolare perché il bimbo non nasca vivo, una tecnica più complicata e più pericolosa per la madre del parto semplice col piccolo che nasce vivo. Quel bimbo poteva nascere vivo. La scelta della madre, non lo voglio nel mio utero, non c'entra più. Quella scelta poteva essere rispettata facendo semplicemente nascere il bimbo e dandolo in adozione, con un parto più semplice per la madre di quello necessario all'aborto a nascita parziale. Lo stato di New York quindi è arrivato all'infanticidio, non rispetta più il desiderio della donna di avere l'utero di nuovo vuoto, ma rispetta il suo desiderio di avere il figlio morto, anche a costo di una tecnica di parto più pericolosa per lei. L'odio per il figlio che si manifesta con suo assassinio. Inginocchiamoci tutti e chiediamo perdono di far parte di questo umanità. Silvana De Mari <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-consiglio-deuropa-rimprovera-litalia-pretende-che-da-noi-si-abortisca-di-piu-2626989096.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="nellolanda-delleutanasia-libera-1-decesso-su-4-e-per-mano-medica" data-post-id="2626989096" data-published-at="1766862118" data-use-pagination="False"> Nell’Olanda dell’eutanasia libera 1 decesso su 4 è per mano medica Negli stessi giorni in cui il radicale Marco Cappato ha lamentato il «forte ritardo» del nostro Parlamento sul fine vita dopo che la Corte Costituzionale, l'ottobre scorso, ha segnalato un vuoto legislativo in materia, una nuova inchiesta sull'eutanasia legale sta sollevando interrogativi inquietanti. A realizzarla non è stata qualche testata riconducibile alla galassia pro life, ma il britannico Guardian, con un lungo approfondimento firmato da Christopher de Bellaigue. L'inchiesta, significativa fin dal titolo - «Morte su richiesta: l'eutanasia è andata troppo oltre?» -, è interessante perché non si pone in un'ottica di aprioristica contrarietà al diritto di morire, anzi. Va però a mettere a fuoco, senza sconti, gli effetti sociali della legalizzazione della «dolce morte», e lo fa esaminando il caso dell'Olanda, che nel 2001 è stato il primo Paese al mondo a introdurla. Per vederci chiaro sull'esperienza olandese, de Bellaigue ha parlato con diversi bioeticisti e medici non contrari all'eutanasia, i quali però iniziano a sollevare dei dubbi. Come Theo Boer, che per ben 9 anni, dal 2005 al 2014, è stato membro di uno dei cinque consigli regionali istituiti per esaminare le richieste di morte, ma che ora non nasconde il proprio scetticismo. «Il processo d'introduzione della legislazione sull'eutanasia fu inizialmente accompagnato dalla volontà di trattare i casi più strazianti, forme di morte davvero terribili», ha spiegato Boer al Guardian. «Il problema», ha aggiunto, «è che poi si sono verificati cambiamenti importanti nel modo con cui viene applicata la legge. Sì è messo in moto qualcosa che abbiamo scoperto avere ben più conseguenze di quante ne avessimo mai immaginate». Dei comitati regionali per monitorare l'eutanasia faceva parte anche la dottoressa di Berna van Baarsen, la cui storia La Verità ha raccontato esattamente un anno fa, la quale è giunta a rassegnare le proprie dimissioni perché stanca degli abusi cui era costretta ad assistere. Del resto, che la situazione olandese sia oramai fuori controllo è dimostrato dagli stessi dati: i 1.882 casi di morte on demand del 2002 sono diventati 3.695 nel 2011, 5.306 nel 2014 e addirittura 6.585 nel 2017. Numeri che descrivono un'impennata costante e che diventano ancor più allarmanti se confrontati col totale dei decessi nel Paese. Infatti, se già nel 2012, come stimato da Wesley J. Smith su National Review, i casi di eutanasia rappresentavano il 12% del totale delle morti olandesi, oggi ammontano a circa il 25%. In pratica, una morte ogni quattro avviene per mano medica. Un mortifero dilagare dovuto essenzialmente all'allargamento della platea dei destinatari della «dolce morte», in una prima fase riservata solo ai malati terminali ma ora disponibile anche per i malati cronici, le persone affette da demenza e perfino per i pazienti psichiatrici. Di questi ultimi, nel 2017 ne sono stati eliminati con iniezione letale ben 83. Si sono perfino verificati, segnala Smith, casi di eutanasie di coppia perché uno dei due partner temeva la vedovanza. Senza dimenticare, poi, i decessi avvenuti in assenza di qualsivoglia precedente richiesta di morte: solo nel 2015, secondo le statistiche, se ne sono registrati 431. Le perplessità dei bioeticisti però oggi riguardano soprattutto le morti di persone che non sono affatto malate terminali. «Quando si aiuta a morire un paziente malato terminale», ha sottolineato il già citato Boer, «si sa che, anche se la sua decisione è problematica, quella persona sarebbe morta comunque e di lì a poco. Ma quando si tratta di una persona che avrebbe potuto vivere decenni, è poi difficile togliersi dalla mente che, anziché morire, avrebbe potuto trovare un nuovo equilibrio nella sua vita». Ciò che colpisce è che il pur emergenziale dilagare dell'eutanasia, in Olanda, non impensierisce più l'opinione pubblica. Viene semplicemente accolto come un dato di fatto. «Nei Paesi Bassi molte persone sostengono che quel processo ora è irreversibile», chiosa il giornalista del Guardian. «Ciò significa forse che gli olandesi sono persone orribili e macabre? Assolutamente no», commenta Smith, «ma sono logici. E una volta che la popolazione ha ampiamente accettato la premessa che uccidere è una risposta accettabile alla sofferenza, significa che il Paese ha abbracciato questa convinzione con tutte le sue conseguenze». Una considerazione conclusiva che, per chi ha orecchie per intendere, ha il sapore del monito.Giuliano Guzzo
Gianluigi Cimmino (Imagoeconomica)
Yamamay ha sempre scelto testimonial molto riconoscibili. Oggi il volto del brand è Rose Villain. Perché questa scelta?
«Negli ultimi tre anni ci siamo avvicinati a due canali di comunicazione molto forti e credibili per i giovani: la musica e lo sport. Oggi, dopo il crollo del mondo degli influencer tradizionali, è fondamentale scegliere un volto autentico, coerente e riconoscibile. Gran parte dei nostri investimenti recenti è andata proprio in questa direzione. Rose Villain rappresenta la musica, ma anche una bellezza femminile non scontata: ha un sorriso meraviglioso, un fisico prorompente che rispecchia le nostre consumatrici, donne che si riconoscono nel brand anche per la vestibilità, che riteniamo tra le migliori sul mercato. È una voce importante, un personaggio completo. Inoltre, il mondo musicale oggi vive molto di collaborazioni: lo stesso concetto che abbiamo voluto trasmettere nella campagna, usando il termine «featuring», tipico delle collaborazioni tra artisti. Non a caso, Rose Villain aveva già collaborato con artisti come Geolier, che è stato nostro testimonial l’anno scorso».
I volti famosi fanno vendere di più o il loro valore è soprattutto simbolico e di posizionamento del brand?
«Oggi direi soprattutto posizionamento e coerenza del messaggio. La vendita non dipende più solo dalla pubblicità: per vendere bisogna essere impeccabili sul prodotto, sul prezzo, sull’assortimento. Viviamo un momento di consumi non esaltanti, quindi è necessario lavorare su tutte le leve. Non è che una persona vede lo spot e corre subito in negozio. È un periodo “da elmetto” per il settore retail».
È una situazione comune a molti brand, in questo momento.
«Assolutamente sì. Noi non possiamo lamentarci: anche questo Natale è stato positivo. Però per portare le persone in negozio bisogna investire sempre di più. Il traffico non è più una costante: meno persone nei centri commerciali, meno in strada, meno negli outlet. Per intercettare quel traffico serve investire in offerte, comunicazione, social, utilizzando tutti gli strumenti che permettono soprattutto ai giovani di arrivare in negozio, magari grazie a una promozione mirata».
Guardando al passato, c’è stato un testimonial che ha segnato una svolta per Yamamay?
«Sicuramente Jennifer Lopez: è stato uno dei primi casi in cui una celebrità ha firmato una capsule collection. All’epoca era qualcosa di totalmente nuovo e ci ha dato una visibilità internazionale enorme. Per il mondo maschile, Cristiano Ronaldo ha rappresentato un altro grande salto di qualità. Detto questo, Yamamay è nata fin dall’inizio con una visione molto chiara».
Come è iniziata questa avventura imprenditoriale?
«Con l’incoscienza di un ragazzo di 28 anni che rescinde un importante contratto da manager perché vuole fare l’imprenditore. Ho coinvolto tutta la famiglia in questo sogno: creare un’azienda di intimo, un settore che ho sempre amato. Dico spesso che ero già un grande consumatore, soprattutto perché l’intimo è uno dei regali più fatti. Oggi posso dire di aver realizzato un sogno».
Oggi Yamamay è un marchio internazionale. Quanti negozi avete nel mondo?
«Circa 600 negozi in totale. Di questi, 430 sono in Italia e circa 170 all’estero».
Il vostro è un settore molto competitivo. Qual è oggi il vostro principale elemento di differenziazione?
«Il rapporto qualità-prezzo. Abbiamo scelto di non seguire la strada degli aumenti facili nel post Covid, quando il mercato lo permetteva. Abbiamo continuato invece a investire su prodotto, innovazione, collaborazioni e sostenibilità. Posso dire con orgoglio che Yamamay è uno dei marchi di intimo più sostenibili sul mercato. La sostenibilità per noi non è una moda né uno strumento di marketing: è un valore intrinseco. Anche perché abbiamo in casa una delle massime esperte del settore, mia sorella Barbara, e siamo molto attenti a non fare greenwashing».
Quali sono le direttrici di crescita future?
«Sicuramente l’internazionale, più come presenza reale che come notorietà, e il digitale: l’e-commerce è un canale dove possiamo crescere ancora molto. Inoltre stiamo investendo tantissimo nel menswear. È un mercato in forte evoluzione: l’uomo oggi compra da solo, non delega più alla compagna o alla mamma. È un cambiamento culturale profondo e la crescita sarà a doppia cifra nei prossimi anni. La società è cambiata, è più eterogenea, e noi dobbiamo seguirne le evoluzioni. Penso anche al mondo Lgbtq+, che è storicamente un grande consumatore di intimo e a cui guardiamo con grande attenzione».
Capodanno è un momento simbolico anche per l’intimo. Che consiglio d’acquisto dai ai vostri clienti per iniziare bene l’anno?
«Un consiglio semplicissimo: indossate intimo rosso a Capodanno. Mutande, boxer, slip… non importa. È una tradizione che non va persa, anzi va rafforzata. Il rosso porta amore, ricchezza e salute. E le tradizioni belle vanno rispettate».
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Thierry Breton (Ansa)
«Condanniamo fermamente la decisione degli Stati Uniti di imporre restrizioni di viaggio a cinque individui europei, tra cui l’ex commissario Thierry Breton. Reagiremo», è stato il commento postato sull’account X della Commissione, «la libertà di parola è il fondamento della nostra forte e vivace democrazia europea. Ne siamo orgogliosi. La proteggeremo. Perché la Commissione europea è la custode dei nostri valori», ha cinguettato con piglio autoreferenziale Ursula von der Leyen, cui ha fatto eco la sua vice Kaja Kallas: «La decisione degli Stati Uniti è un tentativo di sfidare la nostra sovranità. L’Europa continuerà a difendere i suoi valori: libertà di espressione, regole digitali eque e il diritto di regolamentare il nostro spazio». Sembrerebbero parole giuste e coraggiose, se non fosse che il bersaglio della decisione di Rubio è la stessa persona che della libertà di espressione ha fatto strame, ideando la famigerata legge del Dsa (Digital services act), che impone alle grandi piattaforme misure di moderazione arbitrarie che di fatto limitano il free speech.
È Breton che il 12 agosto 2024 ha vergato di suo pugno, su carta intestata dell’esecutivo Ue, una lettera senza precedenti in cui, alla vigilia di un’intervista di Elon Musk a Donald Trump su X, ha minacciato Musk di «censura preventiva». Una pesante interferenza nella campagna elettorale Usa due mesi prima delle presidenziali, coronata dalla gravosa multa di 120 milioni di euro comminata dall’Ue a Musk tre settimane fa per violazioni di obblighi di trasparenza previsti dal Dsa, indicando tra i «problemi rilevati» perfino il design della «spunta blu». E non è tutto: a gennaio scorso, Breton non si è fatto problemi nel dichiarare che l’Unione «ha gli strumenti per bloccare qualsiasi ingerenza straniera, come ha fatto in Romania (dove le elezioni sono state invalidate su pressione europea, ndr) e come dovrà fare, se necessario, anche in Germania».
Che il Dsa uccida non soltanto il Primo emendamento ma anche le aziende americane è un altro dato di fatto: l’Unione europea incassa più dalle multe (a Meta, Google, Apple e X) che dalle tasse pagate dalle aziende tecnologiche europee. Per l’amministrazione Trump, però, la questione è soprattutto di principio: «Per troppo tempo, gli ideologi in Europa hanno guidato iniziative organizzate per costringere le piattaforme Usa a punire i punti di vista americani a cui si oppongono.
L’amministrazione Trump non tollererà più questi vergognosi atti di censura extraterritoriale», ha scritto senza mezzi termini Rubio. Christopher Landau, vice segretario di Stato, ha ricordato la missiva di Breton come «una delle lettere più agghiaccianti che abbia mai letto», mentre l’ambasciatore americano presso l’Ue, Andrew Puzder, ha ricordato che «ironia della sorte, le aziende statunitensi che stanno soffrendo delle politiche oppressive di Bruxelles, delle multe e dell’eccedenza normativa sono proprio le aziende che possono portare l’Ue nell’economia dell’Ia (…) investendo e creando posti di lavoro, ma non a rischio di multe paralizzanti (…) che censurano la libertà di parola e ostacolano la crescita economica».
La revoca del visto impedirà a Breton di partecipare agli eventi pianificati negli Stati Uniti, comprese le conferenze tecnologiche. Chi di censura ferisce, di censura perisce.
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iStock
A far risuonare le sirene d’allarme in Italia un po’ tutti i settori produttivi, che disegnando scenari apocalittici sono corsi a chiedere aiuti pubblici. Niente di nuovo sotto il sole, verrebbe da dire, senonché questa narrazione è stata smentita dai fatti, passati in sordina.
A fare un bilancio degli effetti dei dazi americani sul tessuto produttivo è uno studio della Banca d’Italia: «Gli effetti dei dazi statunitensi sulle imprese italiane: una valutazione ex ante a livello micro» (Questioni di Economia e Finanza n. 994, dicembre 2025). Un punto innovativo del report riguarda il rischio che i prodotti cinesi, esclusi dal mercato statunitense dai dazi, vengano «dirottati» verso altri mercati internazionali (inclusa l’Europa), aumentando la concorrenza per le imprese italiane in quei territori.
Dall’analisi di Bankitalia emerge che, contrariamente a scenari catastrofici, l’impatto medio è, per ora, contenuto ma eterogeneo. Prima dello choc, gli esportatori verso gli Usa avevano un margine medio di profitto del 10,1%. Si stima che i dazi portino a una riduzione dei margini di circa 0,3 punti percentuali per la maggior parte delle imprese (circa il 75%). Questa fluttuazione è considerata gestibile, poiché rientra nelle normali variazioni cicliche del decennio scorso. Vale in linea generale ma si evidenzia anche che una serie di imprese (circa il 6,4% in più rispetto al normale) potrebbe subire perdite severe, nel caso di dazi più alti o con durata maggiore. Si tratta di aziende che vivono in una situazione particolare, ovvero i cui ricavi dipendono in modo massiccio dal mercato americano (il 6-7% che vive di solo export Usa, con margini ridotti) e che operano in settori con bassa elasticità di sostituzione o dove non è possibile trasferire l’aumento dei costi sui prezzi finali.
I tecnici di Bankitalia mettono in evidenza un altro aspetto del sistema di imprese italiane: oltre la metà dell’esposizione italiana agli Usa è di tipo indiretto. Molte Pmi (piccole e medie imprese) che non compaiono nelle statistiche dell’export sono in realtà vulnerabili perché producono componenti per i grandi gruppi esportatori. L’analisi mostra che i legami di «primo livello» (fornitore diretto dell’esportatore) sono i più colpiti, mentre l’effetto si diluisce risalendo ulteriormente la catena di produzione.
Si stanno verificando due comportamenti delle imprese a cominciare dal «pricing to market». Ovvero tante aziende scelgono di non aumentare i prezzi di vendita negli Stati Uniti per non perdere quote di mercato e preferiscono assorbire il costo del dazio riducendo i propri guadagni. Poi, per i prodotti di alta qualità, il made in Italy d’eccellenza, i consumatori americani sono disposti a pagare un prezzo più alto, permettendo all’impresa di trasferire parte del dazio sul prezzo finale senza crolli nelle vendite.
Lo studio offre una prospettiva interessante sulla distribuzione geografica e settoriale dell’effetto dei dazi. Anche se l’impatto è definito «marginale» in termini di punti percentuali sui profitti, il Nord Italia è l’area più esposta. Nell’asse Lombardia-Emilia-Romagna si concentra la maggior parte degli esportatori di macchinari e componentistica, e siccome le filiere sono molto lunghe, un calo della domanda negli Usa rimbalza sui subfornitori locali. Il settore automotive, dovendo competere con i produttori americani che non pagano i dazi, è quello che soffre di più dell’erosione dei margini. Nel Sud l’esposizione è minore in termini di volumi totali.
Un elemento di preoccupazione non trascurabile è la pressione competitiva asiatica. Gli Usa, chiudendo le porte alla Cina, inducono Pechino a spostare la sua offerta verso i mercati terzi. Lo studio avverte che i settori italiani che non esportano negli Usa potrebbero comunque soffrire a causa di un’ondata di prodotti cinesi a basso costo nei mercati europei o emergenti, erodendo le quote di mercato italiane.
Bankitalia sottolinea, nel report, che il sistema produttivo italiano possiede una discreta resilienza complessiva. Le principali indicazioni per il futuro includono la necessità di diversificare i mercati di sbocco e l’attenzione alle dinamiche di dumping o eccesso di offerta derivanti dalla diversione dei flussi commerciali globali.
Questo studio si affianca al precedente rapporto che integra queste analisi con dati derivanti da sondaggi diretti presso le imprese, confermando che circa il 20% delle aziende italiane ha già percepito un impatto negativo, seppur moderato, nella prima parte dell’anno.
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