
Poche persone con scarse risorse finanziarie e conoscenze informatiche riuscirebbero a infliggere ingenti danni agli Stati.Da anni le cronache parlano di attacchi portati da organizzazioni «state sponsored», assimilabili a gruppi paramilitari. In situazione di guerra cibernetica questi soggetti probabilmente verrebbero militarizzati, ma chi si troverebbe sul fronte opposto? Si tratta di capire quali sarebbero gli obiettivi degli aggressori, ma come abbiamo già scritto non è difficile immaginare che molto probabilmente si tratterebbe di tutte le infrastrutture critiche destinate a erogare servizi essenziali dai trasporti, all'energia, fino all'acqua potabile. Se fosse vero, sul fronte dei difensori si schiererebbero dunque i civili. Ebbene sì, la prima linea di difesa sarebbe rappresentata dal personale destinato a gestire la sicurezza dei sistemi di decine di aziende come Terna, Enel, Eni, Telecom. Per fare un paragone sarebbe come se durante la prima guerra mondiale a respingere gli austroungarici sul Piave ci fossero stati i dipendenti della Fiat, della Pirelli, della Montecatini guidati dai rispettivi dirigenti. Non basta perché in questo tipo particolare di conflitto viene ribaltato uno degli assiomi di tutte le guerre convenzionali, quello secondo cui il vantaggio è di chi si difende. Nel contesto del virtuale la condizione favorevole è quella dell'attaccante perché può colpire ovunque senza essere notato immediatamente. Il fronte da proteggere sembra essere infinito, se pensiamo all'interconnessione tecnologica tra le organizzazioni strategiche e i loro partner. Volendo penetrare i sistemi del principale operatore energetico di un Paese, molto probabilmente il primo e silenzioso attacco sarebbe indirizzato al più oscuro dei suoi fornitori. Gli analisti della Rand corporation, il celebre think tank statunitense, in uno dei loro report definiscono sette caratteristiche tipiche dello strategic information warfare. La prima riguarda le basse barriere di ingresso sostenendo che «a differenza delle tradizionali tecnologie militari, lo sviluppo di tecniche basate sulle informazioni non richiede consistenti risorse finanziarie o il supporto governativo. Gli unici prerequisiti sono delle adeguate conoscenze dei sistemi e l'accesso ai principali network». Da quel lontano 1996, questa affermazione non soltanto mai è stata smentita, ma al contrario ha acquisito contorni sempre più inquietanti. Innanzitutto i network sono diventati un unicum rappresentato da Internet e le «adeguate conoscenze» sono ormai patrimonio di tanti e raggiungibili praticamente da tutti. A questo hanno contribuito anche le numerose fughe di notizie che hanno coinvolto agenzia come la Nsa, che negli ultimi anni ha subito il furto di una parte significativa del suo arsenale cibernetico ad opera di un fantomatico gruppo di criminali informatici noto come Shadow brokers. In tale situazione un conflitto cibernetico conferma tutta la sua asimmetria non soltanto dal punto di vista del difensore, ma anche dell'attaccante. Tutto sommato un gruppo piuttosto ristretto di persone, fortemente motivate, con una non superlativa preparazione tecnica e munito di alcune armi reperibili facilmente e gratuitamente o quasi sulla Rete, potrebbe attaccare uno Stato e avere buone possibilità di infliggere danni gravissimi se non di metterlo in ginocchio. Come abbiamo già scritto, Wannacry ha fatto danni non trascurabili e si trattava di una sola arma utilizzata in una singola aggressione, peraltro con obiettivi indifferenziati. Su queste premesse il concetto stesso di superpotenza è dunque definitivamente superato? Se il termine è associato a uno Stato, probabilmente sì, ma trasferendolo in un altro contesto scopriamo che ha una sua attualità e questo ci porta ai potenziali protagonisti di un conflitto.Secondo un report del 2018 della Rand corporation tra gli attori statali con elevate capacità in materia di operazione cyber spiccano Russia, Cina, Corea del Nord e Iran, tuttavia la natura fortemente asimmetrica della guerra cibernetica consente potenzialmente a chiunque di scatenarla. Probabilmente è soltanto questione di tempo prima che anche le organizzazioni terroristiche, che fino ad oggi hanno puntato essenzialmente sull'information warfare, inizino a strutturarsi per l'altro fronte di guerra. Allo stesso modo organizzazioni criminali, per esempio i trafficati di stupefacenti che operano in Paesi deboli, potrebbero ipotizzare di affrontare sul terreno cyber i propri governi. L'universo di possibilità che si apre sembra rendere inapplicabile l'idea di superpotenza alla guerra cibernetica o per meglio dire non può essere la sola e semplice capacità offensiva a definirla.
Anna Falchi (Ansa)
La conduttrice dei «Fatti vostri»: «L’ho sdoganato perché è un complimento spontaneo. Piaghe come stalking e body shaming sono ben altra cosa. Oggi c’è un perbenismo un po’ forzato e gli uomini stanno sulle difensive».
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Il capo del Consorzio, che celebra i 50 anni di attività, racconta i segreti di questo alimento, che può essere dolce o piccante.
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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Fabio Giulianelli (Getty Images)
L’ad del gruppo Lube Fabio Giulianelli: «Se si riaprisse il mercato russo saremmo felici. Abbiamo puntato sulla pallavolo 35 anni fa: nonostante i successi della Nazionale, nel Paese mancano gli impianti. Eppure il pubblico c’è».