2024-06-23
Il cinema «in punta di pipa» di Tati ci mostra la realtà che non vediamo
Un saggio di Maria Cristina Bonati ripercorre l’opera di un genio dimenticato. Il suo carnevale d’imprevisti stravolge ciò che ci circonda, mentre la parola lascia posto al suono. E Francois Truffaut disse: «Nulla gli somiglia».Un piccolo editore di Viterbo, La Caravella, ha dato alle stampe alcuni mesi fa un delizioso libello scritto da Maria Cristina Bonati: Jacques Tati o l’uomo immaginario (90 pagine, 14 euro). La Bonati è musicista concertista e insegnante di violino, vive a Parma e scrive di argomenti quali cinema, arte, musica e filosofia. Ha dedicato un saggio al cinema di Tati che da alcuni anni soffre invero di una certa dimenticanza. Mentre altri cineasti d’Oltralpe hanno continuato a mietere felici vittime con i propri film, e penso anzitutto alla schiera dei registi che hanno vivificato la cosiddetta Nouvelle vague, altri sono caduti nel dimenticatoio, o quasi, come è accaduto al cinema d’arte e d’intuizione di Tati. Eppure il suo cinema, anzitutto nel ciclo di film che ha al centro la figura spigolosa ma leggiadra di Monsieur Hulot - ovvero i lungometraggi Les vacances de Monsieur Hulot/Le vacanze del signor Hulot (1953), Mon oncle/Mio zio (1958, il suo primo film a colori, vincitore di un Oscar), Playtime (1967) e Trafic/Monsieur Hulot nel caos del traffico (1971) - restano tra le pellicole più amate dell’epoca. «Ho sempre apprezzato il garbo delle creazioni di Jacques Tati, l’intelligenza della sua messa in scena, la sua visione del mondo acuta, profonda e leggera, capace di toccare “in punta di pipa” i temi più scomodi e ricondurli alla saggia dimensione del sorriso», cosi scrive nell’introduzione. Uno degli aspetti che hanno avvicinato la Bonati al cinema di Tati è l’uso del suono, dove la parola - anzitutto nella forma dialogica - è spesso assente; i personaggi si incontrano ma si parlano come se la voce mancasse, li osserviamo quasi spiandoli, più con gli occhi che con le orecchie; il cinema di Tati infatti è tutto da saggiare con gli occhi, poiché la presa diretta è spessissimo boicottata, a favore di suoni e rumori esterni, sopraggiunti, postprodotti. Vediamo un mega incidente automobilistico ma soprattutto vediamo come le macchine fingono di urtarsi, o si urtano poco, e poi ruotano di 360 gradi ripetutamente, e comicamente, ma poco nei rumori, e di certo quasi niente nelle voci dei guidatori coinvolti. E lo stesso quando in una grande hall si sta per allestire una fiera campionaria di automobili noi vediamo alcuni signori che si muovono alzando le gambe come saltatori a ostacoli per evitare i fili tirati che delineano le diverse pertinenze, o come aironi e garzette che camminano in una risaia. Se siamo nel traffico sostenuto del film del 1971, vediamo i diversi guidatori, un coro di maschi, che si infilano le dita nel naso, chi in maniera più timida, chi decisa. Ci sono tante piccole cose da notare nei film di Tati e pochi suoni.«La mia guida in questo viaggio è stato Morin, il mio terreno di gioco i film di Tati, il mio strumento d’indagine il suono»: la Bonati infatti parte da un saggio scritto dal filosofo Edgar Morin, Il cinema o l’uomo immaginario, che analizza i film di Tati usando diverse classi di dicotomie, ad esempio Homo sapiens, faber, aeconomicus e Homo ludens, imaginarius e poeticus; quindi affronta a singolar tenzone le scene, i personaggi, le stramberie che popolano i film di questo curioso autodafé di origini russe, il suo vero cognome era Tatischeff, nipote di un generale diplomatico russo. Studente poco interessato, Tati inizierà fin da ragazzo a praticare le arti comiche, oltre a essere un appassionato sportivo, esercitando il mimo, il canto, il ballo, e giungendo infine al cinema. Ma chi è Monsieur Hulot? Anzitutto un uomo alto e magro, uno spilungone curioso che non sembrerebbe mai essere cresciuto, o meglio mai diventato adulto. Si muove costantemente con il suo berrettino e una pipa in bocca, cammina più che come un uomo come un fenicottero, e viene circondato da personaggi a loro volta originali, come la famosa moglie-papera in Le vacanze. Accade anche che gli oggetti si animalizzino, così come accade ai personaggi stessi. Tutto insomma tende a trasformarsi e quel che parrebbe ordinario non lo è quasi mai. Una barca si spezza in due e si comporta come un coccodrillo, un’auto usa lo scoppio controllato del tubo di scappamento come se potesse parlare, gli oggetti in sostanza sembrano vivificati e agiscono e reagiscono. In Mio Zio c’è un’intera cucina che si ribella alla volontà degli umani, e così quel che funziona smette di funzionare e quel che non ha mai funzionato si anima.Tale carnevale d’imprevisti raggiunge probabilmente il culmine in Mon Oncle e Playtime, operando nel primo caso all’interno di due edifici costruiti ad arte, la palazzina popolare su tre piani in cui vive Hulot e la casa modernissima dei coniugi Arpel, e nel secondo caso un set edificato in tre anni - noti agli operatori come Tativille - che costò una vera e propria fortuna. Playtime è forse il film più audace, e non soltanto produttivamente: i suoni esplodono in un vero e proprio «cubismo sonoro» e, come ha scritto nientemeno che François Truffaut, «Playtime non assomiglia a niente di quello che esiste già al cinema. Nessun film è ripreso o missato come quello. È un film che viene da un altro pianeta […] È forse l’Europa del 1968 filmata dal primo cineasta marziano, il loro Louis Lumière? Allora vede quello che noi non vediamo più e sente quello che noi non sentiamo più». In una società futuristica, Hulot si muove tra edifici a forma di scatole cinesi, dove tutto viene ripreso costantemente, un po’ come la società dei nostri giorni, che si filma e si fotografa costantemente. Il sogno-incubo di una società dello spettacolo totale oramai è diventata realtà. Hulot là dentro si divertiva come un bambino al luna park, noi, mezzo secolo dopo, ci divertiamo un poco di meno.E l’ambiente in tutto questo? La modernità incalza, la macchina, in ogni sua forma, tende a prendere il sopravvento, non a essere comandata dall’uomo ma al contrario, a farsi dispotica. E l’uomo si fa succube. Dunque l’apparente libertà portata da un miglioramento delle condizioni individuali, sociali, lavorative, finanziarie è già terminata? Non se siete dei mattacchioni che si divertono come Monsieur Hulot. Ma noi siamo disposti a restare bambini? A non prenderci così tanto sul serio? A giocare con le cose come se fossero vive?
Il valico di Rafah (Getty Images)
Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa del 15 ottobre con Flaminia Camilletti