
Basta la kermesse del senatore semplice a far affiorare gli imbarazzi dei dem, che faticano a metabolizzare la scissione. Il partito teme nuove fughe e bisticcia sull'intesa con il M5s: i cattolici la benedicono, i rossi contestano i cedimenti di Nicola Zingaretti ai grillini. «Dobbiamo fare la guerra al Matteo giusto». La sibillina frase di Nicola Zingaretti percorre i corridoi del Nazareno senza spiegare alcunché, alla vigilia del più feroce mal di testa in arrivo sui vertici del Pd: la decima Leopolda. Nessuno ha ancora capito quale sia il Matteo giusto. Perché se è vero che Salvini è un rivale ideologico preciso al quale nulla aggiungere e nulla togliere, il vero pericolo è quell'altro, l'ex premier caricato a molla, il capostipite degli «italovivi» che continua a scavare fosse con il sorriso ai suoi ex colleghi di partito nonché formalmente alleati di governo.In attesa del Festivalbar renziano, è Andrea Orlando a far capire gli imbarazzi, i nervosismi, le frustrazioni preventive dem. «Non è che se un ultimatum lo lanci dal Papeete è peggio che se lo lanci dalla Leopolda. Gli ultimatum non vanno lanciati perché sennò si sfascia tutto. Qui in gioco c'è la tenuta della democrazia liberale in questo Paese». Un dirigente di sinistra che si autodefinisce difensore della democrazia liberale è già di per sé poco lucido e testimone di un clima caratterizzato da faide sottotraccia. Il Pd non riesce a digerire la scissione, la sta subendo. E anche se non ci sono ordini scritti dall'alto, i dem sono vivamente pregati di girare al largo dalla kermesse fiorentina. Ufficialmente partecipano per cortesia la segretaria toscana del partito, Simona Bonafè, e il sindaco di Firenze, Dario Nardella. Gli altri non sarebbero giustificati, anzi come ha sottolineato Luigi Zanda sarebbero ritenuti in odore di eresia. A maggior ragione dopo il tweet inviato da Renzi a un senatore grillino: «Ti ricordo che ho fatto cadere Enrico Letta con dieci deputati e oggi ne ho molti di più».Il fastidio a sinistra è palpabile e dopo la prima ondata altri piddini stanno facendo le valigie per casa Renzi: Luciano D'Alfonso (ex governatore dell'Abruzzo), Dario Stefano (vicecapogruppo al Senato), Giovanni Sandri (ex presidente Val d'Aosta), Maria Carmela Lanzetta (ex sindaco calabrese antimafia), Caterina Bini e Caterina Biti (senatrici quasi gemelle all'anagrafe). Zingaretti ha risposto dando più spazio nella maggioranza del partito a Luca Lotti e a Lorenzo Guerini - quest'ultimo blandito con la poltrona di ministro - nella speranza di tenerseli stretti, ma nulla è sicuro. E non passa giorno in cui il segretario non debba rabbonire qualcuno con il mal di pancia. Ieri è stato il caso del riottoso Matteo Orfini, irritato proprio per un'uscita del capo. «L'alleanza strategica con il Movimento 5 stelle è quasi naturale perché insieme facciamo il 48%, dice Zingaretti. Ma che ragionamento è? Allora aggiungiamo anche la Lega perché tutti insieme arriviamo all'80%. Ma le idee, i valori, la politica contano ancora qualcosa per noi?».Contestazione ineccepibile, che conferma il malessere profondo dentro la sinistra sempre più spaccata: quella cosiddetta cattolica (Dario Franceschini, Enrico Letta) è convinta di riuscire nel catechismo ai grillini, punto di partenza per un'inglobazione, mentre l'ala più rossa è già stanca delle mazurke del governo Conte bis. L'accusa al segretario è frontale: fin qui le concessioni sono state troppe e contro natura. Sì al taglio dei parlamentari, sì al reddito di cittadinanza, sì alla sugar tax, sì soprattutto alla guerra alle partite Iva. Con il risultato di riaprire la Questione settentrionale in Regioni dove i pentastellati di fatto non esistono mentre il Pd postfordista, manageriale e riformista (Beppe Sala, Giorgio Gori) continua a essere un fattore. «Zingaretti non si accorge che Beppe Grillo ci lascia cantare Bella ciao, ma il resto lo decide lui», sintetizza con leggiadra ferocia un dirigente del Nazareno. Il terrore è che oggi o domani glielo urli anche Renzi dal palco.
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