
È uno dei piatti clou della cucina veneziana. Prima di essere cotto, il pesce essiccato esposto ai freddi dei mari del Nord viene pestato con un martellone di legno. Poi canoce, bisati, moeche e seppioline. E il fritto, un'arte di cui una volta si indicava l'autore. Tra storie e leggende Venezia è una miniera che non finisce mai di regalare scoperte per le sue vicende secolari di uomini, costumi, tradizioni. Un esempio ce lo riporta Ranieri da Mosto, storico accademico della cucina che, in un suo libro, così racconta di un giovane pescatore innamorato che si confessa alla sua bella «se un giorno dovessi morire vestimi di seppie, sotterrami sotto un monte di canocie e con la testa su un cuscino di barboni fritti». Lungo il viaggio tra memoria e attualità che ci porta a riscoprire i piatti della tradizione serenissima il punto di partenza non può che essere il mercato di Rialto, oramai frequentato più da turisti armati di video riprese che da autoctoni con la borsa della spesa. Scenari del miglior verismo degno di De Sica o Rossellini. Dopo esservi pasciuti l'occhio alzatelo e puntate in alto, tra le volte disegnate dall'architetto Domenico Rupolo. Ogni capitello delle colonne che uniscono gli archi rappresenta figure e scenari legati alla pesca, su tutti veglia la statua in bronzo di san Pietro, il più famoso pescatore della storia. Un tempo, per esercitare, con le grida incluse, l'arte del vendere canoce (un crostaceo) e bisati (anguille) le credenziali erano ferree. Era obbligatorio essere nati a Venezia e aver fatto il pescatore per almeno 20 anni. Prima che arrivassero i templi del fast food mordi e fuggi tra le calli esistevano le furatole, sorta di rivendite senza uso di Bacco, così descritte da Giuseppe Tassini «alcune bottegucce ove vendesi pesce fritto e altri mangiari ad uso della poveraglia». Gli street food dei fritolini (i venditori di coni di carta ripieni di piccoli fritti golosi) arriveranno dopo. Nella tradotta golosa dalla barca alla tavola un posto in prima fila spetta indubbiamente al baccalà, portato nel continente dal nobile Pietro Querini che, come ha ben scritto Alvise Zorzi, «nasceva protestante» (esposto ai freddi del mare del nord), «ma moriva cattolico», tra le accoglienti atmosfere mediterranee. Varie le sue preparazioni lungo lo stivale, ma quella alla veneziana ha trovato un notaio di eccezione in Bepi Maffioli che così ne descrive uno dei passaggi fondamentali «scelto il pezzo viene affidato all'energico trattamento di un mazziere, di solito un garzone di bottega, che sfoga le sue giovanili esuberanze pestando con un martellone di legno il pesce essiccato». Il resto ve lo potete andare a godere su La Cucina veneziana (Franco Muzzio Editore). Altra leggenda lagunare l'anguilla, il familiare bisato indigeno. Varie le preparazioni, ma quella storica la trovate a Murano, a raccontarvela il volto iconico di Lele Masiol, titolare della storica trattoria posta di fronte al campanile dell'isola. Il bisato sull'ara, un tempo, era preparato dalle maestranze addette alle numerose vetrerie dell'isola. La vigilia di Natale, prima di sospendere i lavori, le anguille, conciate con olio e alloro, venivano messe a rosolare lentamente sui forni a temperatura calante, per regalare poi un momento di festa a tutti i lavoranti e le loro famiglie. Due vogate più in là si arriva a Burano, l'isola dei merletti. Qua il re dei fondali lagunari è il gò. Un piccolo pesciolino che regala meraviglie. Già in vita è una leggenda. Il maschio, con i suoi richiami notturni, attira nella sua tana compagne per una notte. Ma poi, smessi i panni di lagunar lover, si trasforma in padre attento e premuroso, guardiano della sua prole. I goanti, i suoi cacciatori, una sorta di setta armata di diverse tecniche e strumenti per tradurlo poi nella variante ghiottona, su tutte in lambada golosa con il risotto. La via crucis golosa prosegue, basta avere la cilindrata gastrica all'altezza. Ecco le masanete, le femmine dei granchi. In autunno subiscono una muta e si caricano di uova. La solidarietà di coppia vede i maschi caricarsele in groppa sia per proteggerle che per fecondarle. A quel punto, pregne del cosiddetto «corallo», ve le trovate al banco quotidiano, pronte a sacrificarsi per voi. E che dire delle moeche, ovvero i maschi delle masanete, chiamati così quando sono in muta. I loro predatori sono chiamati «moecanti». Selezionano il pescato e lo ripongono in particolari ceste di vimini immerse a pelo d'acqua. Da qui, ogni giorno, selezionano poi quelli dalla pezzatura adeguata da portare al mercato. La liturgia culinaria prevede che, poi, i prescelti vengano messi a sgranchirsi le chele immersi in terrine colme di uova sbattute. Immaginatevi gli scenari da grande abbuffata resi celebri da Marco Ferreri e Ugo Tognazzi, un modo per portarli felici nel paradiso delle moeche, cioè verso la padella della frittura. Altra meraviglia lagunare le seppioline. Finger food da magnar a scotadeo, ovvero con le dita golose, senza che monsignor Della Casa se ne abbia a male. Dalle parti di San Marco con due tocchi originali. È nata qui l'usanza, nell'ottica di non buttar mai via niente, di usare l'osso della seppiolina nella gabbia dei domestici canarini sì da permettergli di nettare e affilare il becco per intonare al meglio i loro gorgheggi pennuti. Non solo, ma il nero di seppia, quale condimento, è nato da queste parti, quando bisognava far di necessità virtù di tutto quanto madre natura metteva a disposizione dell'uomo. Ma non si vive di sole canoce e bisati. Già ai tempi della Serenissima un cronista meneghino, tale Casola, annotava nel suo almanacco, dopo aver visto l'esuberanza di carni e pesci ai mercati, che «quella che è più strana è l'abbondanza delle verdure, tanto da far credere che tutti i zardini del mondo nascano qui». Un attento cartografo e geografo quale Vincenzo Maria Coronelli (veneziano di nascita, padovano di adozione) annotava: «Fra le isole che fanno argine alla Laguna di Venezia si communera quella di Sant'Erasmo, con belle vigne e giardini da' quali si somministra alla metropoli quantità di erbaggi e frutti perfetti». I carciofi su tutti. È l'avamposto nordico di questa coltivazione. Chiamato al tempo dei Dogi «canarin», oggi si divide in castraure e botoli. Le prime sono il frutto apicale della pianta, che viene prontamente tagliato al suo nascere per dar modo poi di sviluppare i suoi frutti laterali, mediamente una ventina a stagione: castraure ricercatissime per la loro delicatezza e bontà, con un ricettario dedicato dalle mille tentazioni, a partire dal risotto, ma anche in frittata, impanate e fritte, al forno. È tempo di salpare verso il dolce saluto alla cucina millenaria con base lagunare. Anche qui l'elenco è un girone seriale di tentazioni, alcune conosciute (baicoli, bussolai, zaleti), altre meno. Le frittelle sono il simbolo del carnevale veneziano. La prima ricetta scritta è recente, 1858, ma, come ha ricordato Pietro Gaspare Moro-Lin un tempo i fritoleri erano così orgogliosi della loro arte da pretendere (e ottenere) che sopra il loro banco vendita fosse messo in bella evidenza il loro nome. Star del tempo un certo Zamaria, chiamato a friggere sul palco in una commedia al Teatro Apollo. Sembra che il suo smanettare da fritolero abbia salvato dai fischi l'incerto talento degli attori. Sui titoli di coda non può mancare la citazione della persegada, un curioso ossimoro in chiave di zuccherina marmellata. Anche se l'etimo rinvia alle pesche (persego in veneziano) furono poi sostituite dalle mele cotogne, quando si preferì consumare le prime fresche di ramo. Quella che nel resto d'Italia chiamasi cotognata qui è assemblata in golosi cubetti zuccherati, debitamente conservati in scatole di latta. Cotogna cara a Venere. Nella mitologia classica Plutarco ci racconta come una mela cotogna fosse data in dono alle giovani spose prima di avviarsi alle avventure del talamo nuziale. Chissà se, ai tempi odierni, qualche cubetto di cotognata in più aiuta a risolvere il problema delle culle vuote.
Lucetta Scaraffia (Ansa)
In questo clima di violenza a cui la sinistra si ispira, le studiose Concia e Scaraffia scrivono un libro ostile al pensiero dominante. Nel paradosso woke, il movimento, nato per difendere i diritti delle donne finisce per teorizzare la scomparsa delle medesime.
A uno sguardo superficiale, viene da pensare che il bilancio non sia positivo, anzi. Le lotte femministe per la dignità e l’eguaglianza tramontano nei patetici casi delle attiviste da social pronte a ribadire luoghi comuni in video salvo poi dedicarsi a offendere e minacciare a telecamere spente. Si spengono, queste lotte antiche, nella sottomissione all’ideologia trans, con riviste patinate che sbattono in copertina maschi biologici appellandoli «donne dell’anno». Il femminismo sembra divenuto una caricatura, nella migliore delle ipotesi, o una forma di intolleranza particolarmente violenta nella peggiore. Ecco perché sul tema era necessaria una riflessione profonda come quella portata avanti nel volume Quel che resta del femminismo, curato per Liberilibri da Anna Paola Concia e Lucetta Scaraffia. È un libro ostile alla corrente e al pensiero dominante, che scardina i concetti preconfezionati e procede tetragono, armato del coraggio della verità. Che cosa resta, oggi, delle lotte femministe?
Federica Picchi (Ansa)
Il sottosegretario di Fratelli d’Italia è stato sfiduciato per aver condiviso un post della Casa Bianca sull’eccesso di vaccinazioni nei bimbi. Più che la reazione dei compagni, stupiscono i 20 voti a favore tra azzurri e leghisti.
Al Pirellone martedì pomeriggio è andata in scena una vergognosa farsa. Per aver condiviso a settembre, nelle storie di Instagram (che dopo 24 ore spariscono), un video della Casa Bianca di pochi minuti, è stata sfiduciata la sottosegretaria allo Sport Federica Picchi, in quota Fratelli d’Italia. A far sobbalzare lorsignori consiglieri non è stato il proclama terroristico di un lupo solitario o una sequela di insulti al governo della Lombardia, bensì una riflessione del presidente americano Donald Trump sull’eccessiva somministrazione di vaccini ai bambini piccoli. Nessuno, peraltro, ha visto quel video ripostato da Picchi, come hanno confermato gli stessi eletti al Pirellone, eppure è stata montata ad arte la storia grottesca di un Consiglio regionale vilipeso e infangato.
Jannik Sinner (Ansa)
Alle Atp Finals di Torino, in programma dal 9 al 16 novembre, il campione in carica Jannik Sinner trova Zverev, Shelton e uno tra Musetti e Auger-Aliassime. Nel gruppo opposto Alcaraz e Djokovic: il duello per il numero 1 mondiale passa dall'Inalpi Arena.
Il 24enne di Sesto Pusteria, campione in carica e in corsa per chiudere l’anno da numero 1 al mondo, è stato inserito nel gruppo Bjorn Borg insieme ad Alexander Zverev, Ben Shelton e uno tra Felix Auger-Aliassime e Lorenzo Musetti. Il toscano, infatti, saprà soltanto dopo l’Atp 250 di Atene - in corso in questi giorni in Grecia - se riuscirà a strappare l’ultimo pass utile per entrare nel tabellone principale o se resterà la prima riserva.
Il simulatore a telaio basculante di Amedeo Herlitzka (nel riquadro)
Negli anni Dieci del secolo XX il fisiologo triestino Amedeo Herlitzka sperimentò a Torino le prime apparecchiature per l'addestramento dei piloti, simulando da terra le condizioni del volo.
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Gli anni Dieci del secolo XX segnarono un balzo in avanti all’alba della storia del volo. A pochi anni dal primo successo dei fratelli Wright, le macchine volanti erano diventate una sbalorditiva realtà. Erano gli anni dei circuiti aerei, dei raid, ma anche del primissimo utilizzo dell’aviazione in ambito bellico. L’Italia occupò sin da subito un posto di eccellenza nel campo, come dimostrò la guerra Italo-Turca del 1911-12 quando un pilota italiano compì il primo bombardamento aereo della storia in Libia.
Il rapido sviluppo dell’aviazione portò con sé la necessità di una crescente organizzazione, in particolare nella formazione dei piloti sul territorio italiano. Fino ai primi anni Dieci, le scuole di pilotaggio si trovavano soprattutto in Francia, patria dei principali costruttori aeronautici.
A partire dal primo decennio del nuovo secolo, l’industria dell’aviazione prese piede anche in Italia con svariate aziende che spesso costruivano su licenza estera. Torino fu il centro di riferimento anche per quanto riguardò la scuola piloti, che si formavano presso l’aeroporto di Mirafiori.
Soltanto tre anni erano passati dalla guerra Italo-Turca quando l’Italia entrò nel primo conflitto mondiale, la prima guerra tecnologica in cui l’aviazione militare ebbe un ruolo primario. La necessità di una formazione migliore per i piloti divenne pressante, anche per il dato statistico che dimostrava come la maggior parte delle perdite tra gli aviatori fossero determinate più che dal fuoco nemico da incidenti, avarie e scarsa preparazione fisica. Per ridurre i pericoli di quest’ultimo aspetto, intervenne la scienza nel ramo della fisiologia. La svolta la fornì il professore triestino Amedeo Herlitzka, docente all’Università di Torino ed allievo del grande fisiologo Angelo Mosso.
Sua fu l’idea di sviluppare un’apparecchiatura che potesse preparare fisicamente i piloti a terra, simulando le condizioni estreme del volo. Nel 1917 il governo lo incarica di fondare il Centro Psicofisiologico per la selezione attitudinale dei piloti con sede nella città sabauda. Qui nascerà il primo simulatore di volo della storia, successivamente sviluppato in una versione più avanzata. Oltre al simulatore, il fisiologo triestino ideò la campana pneumatica, un apparecchio dotato di una pompa a depressione in grado di riprodurre le condizioni atmosferiche di un volo fino a 6.000 metri di quota.
Per quanto riguardava le capacità di reazione e orientamento del pilota in condizioni estreme, Herlitzka realizzò il simulatore Blériot (dal nome della marca di apparecchi costruita a Torino su licenza francese). L’apparecchio riproduceva la carlinga del monoplano Blériot XI, dove il candidato seduto ai comandi veniva stimolato soprattutto nel centro dell’equilibrio localizzato nell’orecchio interno. Per simulare le condizioni di volo a visibilità zero l’aspirante pilota veniva bendato e sottoposto a beccheggi e imbardate come nel volo reale. All’apparecchio poteva essere applicato un pannello luminoso dove un operatore accendeva lampadine che il candidato doveva indicare nel minor tempo possibile. Il secondo simulatore, detto a telaio basculante, era ancora più realistico in quanto poteva simulare movimenti di rotazione, i più difficili da controllare, ruotando attorno al proprio asse grazie ad uno speciale binario. In seguito alla stimolazione, il pilota doveva colpire un bersaglio puntando una matita su un foglio sottostante, prova che accertava la capacità di resistenza e controllo del futuro aviatore.
I simulatori di Amedeo Herlitzka sono oggi conservati presso il Museo delle Forze Armate 1914-45 di Montecchio Maggiore (Vicenza).
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