Il 42% degli italiani con redditi bassi ha dovuto rinunciare a curarsi

«Il 51,6% degli italiani sceglie di fare una prestazione nella sanità a pagamento, senza nemmeno provare a prenotare nel pubblico», sapendo di impattare in liste d’attesa inaccettabili. È questo uno dei dati più sconfortanti che emerge dal 21° rapporto Ospedali & Salute, promosso dall’Associazione italiana ospedalità privata (Aiop) e realizzato in collaborazione con il Censis.
Presentato ieri, ha evidenziato come, ogni 100 tentativi di prenotazione nel Servizio sanitario nazionale, finiscono nella sanità a pagamento «il 41,5% delle visite specialistiche, il 33,6% degli accertamenti diagnostici, il 55,4% delle prestazioni di riabilitazione, il 21,7% delle analisi di laboratorio e il 42% dei ricoveri ospedalieri ordinari programmati».
Deve soprattutto preoccupare la quota significativa (34,4%) di persone a basso reddito che sono costrette a rivolgersi a prestazioni a pagamento per urgenza di controlli, visite, interventi. Il 40,6% di questa fascia di cittadini si è indirizzata direttamente al privato, consapevole dei tempi lunghi per liste d’attesa bloccate o chiuse. E ben il 50,4% di coloro che hanno un Indicatore della situazione economica equivalente (Isee) inferiore ai 15.000 euro ha rinunciato ad altre spese per sostenere quelle sanitarie. In generale, il 36,9% degli italiani ha dovuto fare tagli per permettersi le cure.
Quel che è peggio, però, è la quota consistente (42%) di persone con basso reddito che hanno procrastinato cure o sono state costrette a fare a meno di analisi, controlli, interventi chirurgici a pagamento perché non erano in grado di sostenerne i costi. Se consideriamo che in fascia alta solo il 14,7% ha dovuto rinunciare a curarsi; con reddito tra i 30.000 e i 50.000 l’ha fatto il 22,2%, e il 32,6% dei cittadini in fascia 15.000 -30.000 euro, è evidente che meno guadagni, meno possibilità hai di accedere a cure e assistenza che dovrebbero essere garantiti dal Ssn.
«Effetto erosivo sulla ricchezza» e «regressività sociale» sono il risultato del depotenziamento decennale del Sistema sanitario nazionale, con drammatiche conseguenze sullo stato di salute delle fasce che dovrebbero risultare più protette secondo il nostro ordinamento.
Già a dicembre il rapporto Censis aveva segnalato che per il 75,8% degli italiani è diventato più difficile accedere alle prestazioni sanitarie nella propria Regione, proprio per liste di attesa sempre più lunghe. E secondo le stime di Facile.it con il suo servizio Prestiti.it, segnalate lo scorso mese dalla Verità, sarebbe di oltre 1 miliardo di euro il valore dei prestiti chiesti nel 2023 dagli italiani che hanno dovuto indebitarsi per ottenere cure mediche.
Il rapporto Crea sanità, centro di ricerca riconosciuto da Eurostat, Istat e ministero della Salute guidato da Orazio Schillaci, ha segnalato che le famiglie con problemi economici a causa delle spese sanitarie sono passate dal 4,7% nel 2019 al 5,2% nel 2020, per arrivare ora al 6,1%, percentuale che corrisponde a un 1,5 milioni di nuclei familiari.
Per quanto riguarda la qualità del servizio pubblico a livello regionale, l’ultimo rapporto Aiop evidenzia che mentre solo il 9,4% dei residenti nel Nord Est la definisce insufficiente, al Sud e nelle Isole la percentuale sale al 35,2%. Ci sono grosse differenze nel livello delle strutture operanti a livello pubblico e privato tra Nord e Sud, con sorprendenti percentuali a seconda della specialità offerta.
Per esempio, ci sono più centri pubblici di qualità bassa o molto bassa al Sud e nelle Isole nell’area del sistema cardiocircolatorio (16), nervoso (48) respiratorio (78) e osteomuscolare (52), in confronto a quelli privati che sono rispettivamente 8, 27, 21 e 20.
Nella chirurgia generale e oncologica, l’eccellenza del pubblico è solo in 35 centri rispetto ai 49 privati, e di 47 rispetto a 63. La scelta del privato, dunque, in certe regioni è anche dettata da una migliore qualità offerta.






