
Lenzuolate pallide. Sono quelle scivolate come foulard sui tavolini da tè e sulle scrivanie dei lettori progressisti illuminati, alla ricerca di una via e di una luce. Al culmine delle celebrazioni mariane a 20 anni dalla morte di Gianni Agnelli, si attendeva il punto esclamativo ed è arrivato. Diceva l’Avvocato: «Credo che un giornale debba essere stimolante e provocatorio ma anche affidabile». Detto fatto, il nipote John Elkann ha «affidato» il suo pensiero sotto forma di sinfonia con sbadiglio a due generali del gruppo Gedi di cui è proprietario, il direttore de La Stampa Massimo Giannini e il campione del gauchisme di redazione Ezio Mauro, ex storico direttore de La Repubblica. Una conversazione stereo, nel senso che lui dettava e loro prendevano appunti identici, si presume su divanetti di broccato.
La formula giornalistica rientra perfettamente nell’ultima moda della professione, quella di intervistare il proprio editore, con quale rigore è immaginabile. L’effetto è assicurato, la santificazione dell’Avvocato è assoluta. Come spiega Elkann, «la lezione di mio nonno è stata preziosa. Mi ha insegnato la responsabilità, il valore dell’Europa e la fiducia nell’uomo». Dentro le lenzuolate ci sono numerose certezze, soprattutto quella che il padrone ha sempre ragione. Violini e gianduiotti del tipo: «Il nonno ha sempre difeso la capacità italiana di fare una sintesi del bello e dell’utile, frutto dell’ingegno e del nostro patrimonio culturale». Attraverso Mauro e Giannini, il numero uno di Gedi fa sapere che «la congiuntura è favorevole», «l’Italia non è mai stata in declino», «il sistema ha dimostrato forte vitalità», «ci sono realtà made in Italy leader nel mondo». Esattamente il contrario rispetto a ciò che raccontano i suoi giornali.
Poi le due star mediatiche introducono l’argomento più delicato: il governo di Giorgia Meloni, da loro definito «di destra radicale, destra estrema» per macchiettizzarlo con un infantile portato de paura. Ma qui il re bacchetta i sudditi o almeno li delude. Non ha alcuna voglia di stare al gioco del titolo forzato e offre una riposta istituzionale: «Meloni è il primo premier donna, ha la possibilità di costruire un paese più forte. In un momento difficile le istituzioni hanno tenuto». Una perfetta frase sabauda, anche se «in linea di tendenza la granducale Torino automobilistica ha sempre inclinato a favore del centrosinistra, non solo per simpatia intellettuale e contiguità fisica dell’Avvocato alla tradizione azionista» (copyright Edmondo Berselli). Ma anche, aggiungiamo noi, per adesione naturale al vecchio motto di François Mitterrand: «Solo un leader di sinistra può fare politiche di destra». Compresi i licenziamenti a raffica.
Salvata l’Italia, aiutata Torino a entrare nel futuro, salutata senza astio la Meloni, snocciolati a proprio favore i numeri di Stellantis, dentro le lenzuolate pallide si aggira un solo cattivo: mamma Margherita Agnelli. E qui la conversazione diventa spiacevole perché la difesa a senso unico è totale e la guerra di famiglia viene ridotta a una bizza materna essenzialmente un po’ isterica. «È molto triste la questione ereditaria che mia madre ha aperto dopo la morte del nonno, per lui sarebbe stato inaccettabile perché contraria a tutto ciò in cui credeva», spiega Elkann. Mentre riempiono il taccuino, Giannini e Mauro non se ne accorgono, ma qui il fairplay regale scivola alquanto.
Resterebbero i giornali e la Juventus. Riguardo ai primi, il nipote sul trono sottolinea che «il nonno sarebbe orgoglioso di sapere che siamo il primo azionista dell’Economist, che lui leggeva ogni settimana». Però quando uscì con la micidiale copertina dedicata a Silvio Berlusconi «unfit» (inadatto) a governare l’Italia, l’Avvocato si arrabbiò perché il nostro paese «era stato trattato come una repubblica delle banane» e cominciò a chiamarlo l’«Ecomunist». Sulla corazzata bianconera affondata dalla penalizzazione, il re nipote sintetizza che «l’ingiustizia della sentenza è evidente». Non ha bisogno di aggiungere altro, visto che sia La Repubblica, sia La Stampa sono granitiche nel difendere a senso unico le posizioni del club di famiglia. Soprattutto la prima, storica trincea del giustizialismo, sostenitrice dai tempi di Mani Pulite del partito delle Procure, in settimana si è trasformata in un (perfino imbarazzante) baluardo del garantismo calcistico.
A nessuno sfugge che il direttore generale bianconero Maurizio Scanavino è anche amministratore delegato di Gedi. E la sbandierata indipendenza di giudizio della redazione di Rep? Ieri su Facebook, l’ex responsabile web Vittorio Zambardino, oggi in pensione, ha scritto: «Se fossi ancora un giornalista di Repubblica mi risentirei molto duramente prima con la mia rappresentanza sindacale, poi con la proprietà su questo: l’ad dell’azienda editrice del giornale è anche ad della Juventus. È un caso di incompatibilità grave e una lesione della reputazione della testata e dei suoi giornalisti. Ma mi pare che tutto taccia. Contenti voi…». Contento Elkann, quindi contenti tutti.






