2021-01-10
I social che censurano Trump possono imbavagliare tutti
Dopo Facebook, anche Twitter ha eliminato il profilo del tycoon. I dem gioiscono, mentre la pasdaran. Nancy Pelosi getta altra benzina sul fuoco per ottenere la censura totaleDati i tempi stretti per l'applicazione del 25° emendamento, prende piede l'ipotesi di messa in stato di accusa. Favorevoli anche alcuni repubblicaniLo speciale contiene due articoli Donald Trump è stato inibito pure su Twitter, che peraltro già da mesi aggiungeva chiose e contestazioni a ogni suo tweet. Subito dopo l'imbavagliamento, è stato il figlio del presidente, Donald Trump jr, a twittare, tra indignazione e sarcasmo: «Così gli ayatollah e numerosi altri regimi dittatoriali possono avere account senza problemi, nonostante minaccino di genocidio interi paesi o uccidano gli omosessuali. Ma il presidente degli Stati Uniti deve essere permanentemente sospeso. Mao sarebbe fiero». A peggiorare le cose, c'è il sospetto che l'altra notte Twitter abbia deciso l'equivalente di una spedizione punitiva: cancellati gli account del generale Michael Flynn e dell'avvocata Sidney Powell. In un fazzoletto di ore, sono anche spariti a valanga una serie di altri account conservatori, trumpiani, repubblicani: o perché bannati a loro volta o perché si sono tolti da quel canale social. E tantissimi, anche qui in Italia, hanno potuto constatare un innaturale «sfoltimento» dei propri follower. Nella notte tra venerdì e sabato (chi era sveglio ha potuto constatarlo in diretta) c'è stata anche una migrazione di massa di molti utenti verso un social rimasto libero, Parler, al punto che per un certo tempo chi aveva già un account lì ha avuto difficoltà a scrivere perché il sistema risultava sovraccarico. Poche ore dopo, è giunta la nuova sorpresa negativa: la scoperta che Parler non è più disponibile su Google e Apple Store. Insomma, una gabbia è scattata all'improvviso, a monte (rispetto alla scaricabilità di certi social) e a valle (rispetto alla agibilità per chi ne era già parte), con una simultaneità e una «perfezione» che fanno riflettere, e che non danno l'impressione di essere casuali e improvvise. Ci sono almeno due problemi da valutare. Il primo è giuridico: se Twitter decide di censurare il messaggio di un utente o addirittura di inibirlo permanentemente, per ciò stesso diventa un editore a tutti gli effetti, uscendo dalla dimensione di mero provider neutrale storicamente rivendicata da queste piattaforme. Ma se è un editore, allora non si vede perché debba essere sottratto agli altri obblighi a cui ogni altro editore è sottoposto. Non è certo il caso di invocare a cuor leggero interventi di autorità pubbliche (che sarebbero a loro volta a rischio di autoritarismo e di arbitrarietà politica, in base al governo del momento). Forse è il caso di cercare una risposta di mercato, aprendo alla libera competizione e impedendo pericolosissimi monopoli. Una delle proposte più semplici e forse risolutive (chi scrive la rilancia da anni) viene da Luigi Zingales e Guy Rolnik, e, se attuata, avrebbe anche il vantaggio di favorire la nascita di altri social network. Di che si tratta? Di replicare per i dati, le informazioni e le immagini che inseriamo sui social lo stesso meccanismo di portabilità che qualche anno fa fu deciso per i numeri telefonici, prima ritenuti proprietà delle compagnie telefoniche. In questo modo, sarebbe più facile «spostarsi», alimentare la concorrenza tra social, e anche valorizzare un patrimonio (di scritti, di immagini, in ultima analisi di vita) che ormai fa parte della nostra personalità.Ma veniamo all'aspetto più drammatico della vicenda, che ha a che fare con una tragica lesione del free speech, e con il massacro di qualunque competizione politica democratica anche futura. Se può essere imbavagliato Trump, con ancora maggiore facilità chiunque (semplice cittadino o attore politico) può essere azzoppato e estromesso dall'agorà pubblica.E qui scatta un inevitabile ragionamento sul «cui prodest». Sono i democratici a giovarsi di questa deriva. E in particolare spicca fra loro la speaker del Congresso, Nancy Pelosi, che si è da tempo ritagliata un ruolo da pasdaran. Fu lei, a febbraio 2020, a strappare in mondovisione i fogli del discorso di Trump sullo stato dell'Unione. Fu lei, in epoca di limitazioni Covid, a violarle, recandosi dal suo parrucchiere senza mascherina: si sa, le regole sono sempre valide per gli altri. Sarebbe stata lei, con altri, pare, a insistere per un eventuale intervento della Guardia Nazionale contro i manifestanti la sera dell'Epifania, cosa che avrebbe potuto determinare esiti ancora più sanguinosi. E ora è lei a spingere o per l'applicazione del 25mo emendamento, che esautorerebbe Trump, o per un impeachment istantaneo. Altra benzina sul fuoco, un modo di lacerare un tessuto già strappato: altro che riconciliazione, altro che mano tesa ai 75 milioni di elettori di Trump. Per chiudere, vanno ricordate le parole assai significative pronunciate da Trump nel comizio della Befana. Contro le tv (definite «fake news media»: «sono il più grande problema che abbiamo», disse); sui social («ti oscurano e ti mettono in blacklist»); su un «comprehensive assault», un attacco complessivo in corso contro la libertà, disse Trump. Difficile negare che avesse ragione. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/i-social-che-censurano-trump-possono-imbavagliare-tutti-2649812086.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="i-dem-allattacco-finale-contro-the-donald-pensano-al-doppio-impeachment" data-post-id="2649812086" data-published-at="1610236669" data-use-pagination="False"> I dem all’attacco finale. Contro The Donald pensano al doppio impeachment Torna a tirare aria di impeachment negli Stati Uniti. Negli scorsi giorni, la Speaker della Camera Nancy Pelosi, aveva reso noto di voler intentare un nuovo processo di messa in stato d'accusa contro Donald Trump, qualora il presidente in carica non fosse stato destituito attraverso il venticinquesimo emendamento (uno scenario, quest'ultimo che, per ora, appare improbabile). L'ipotesi di un secondo impeachment sta adesso quindi prendendo sempre più piede, con oltre duecento parlamentari (quasi tutti dell'asinello) che auspicano una rimozione del presidente dalla Casa Bianca. In tal senso, secondo il sito della Cnn, i democratici dovrebbero presentare già domani il capo di imputazione (che - secondo una bozza in circolazione - sarebbe «incitamento all'insurrezione»). Ricordiamo che, in base a quanto prescrive la Costituzione americana, il processo di messa in stato d'accusa deve essere istruito dalla Camera (a maggioranza semplice) e celebrato dal Senato, dove - per arrivare alla rimozione del presidente - sono necessari i due terzi dei voti. Ricordiamo anche che Trump ha già subito un impeachment con accuse di abuso di potere e intralcio al Congresso sulla cosiddetta questione Ukrainegate: l'attuale inquilino della Casa Bianca è quindi il terzo presidente americano a essere finito in stato d'accusa (dopo Andrew Johnson nel 1868 e Bill Clinton nel 1998) e potrebbe adesso diventare il primo a dover affrontare due processi di questo tipo. Del resto, a favore di un nuovo impeachment si è detto ieri anche il presidente della commissione Intelligence della Camera, il democratico Adam Schiff, che fu il grande accusatore di Trump durante il primo processo. Ora, le nuove manovre dei democratici stanno gettando Washington in un autentico subbuglio. Una grande incognita pesa innanzitutto sulla tempistica: il mandato presidenziale di Trump scade il 20 gennaio a mezzogiorno, ragion per cui è molto difficile che un impeachment possa concludersi in un lasso di tempo tanto stretto. È vero che -differentemente dal processo precedente - stavolta non verrebbero tenute audizioni preliminari per imbastire l'impianto accusatorio. La tempistica rema tuttavia contro i democratici. È d'altronde questa la tesi del capogruppo repubblicano al Senato, Mitch McConnell, secondo cui risulterebbe di fatto impossibile completare un eventuale processo entro il 20 gennaio a mezzogiorno. Al momento, la maggioranza dei senatori repubblicani sembra quindi contraria all'ipotesi di una messa in stato d'accusa, nonostante alcuni distinguo. Il senatore del Nebraska (e storico avversario di Trump), Ben Sasse, ha per esempio detto che non esclude di poter in caso votare per la rimozione del presidente. A chiederne invece le dimissioni - pur senza esporsi sull'impeachment- è stata invece un'altra atavica critica dell'inquilino della Casa Bianca, come la senatrice dell'Alaska Lisa Murkowski. Nel frattempo spaccature si registrano anche tra i vertici del Partito repubblicano e parte della base elettorale. Il senatore Lindsey Graham -un tempo stretto alleato del presidente uscente - è stato oggetto di contestazioni da parte di alcuni sostenitori di Trump, mentre si trovava in aeroporto. Ricordiamo che Graham è stato tra i senatori repubblicani che, a seguito dei fatti del Campidoglio, avevano preso le distanze dall'inquilino della Casa Bianca. Nel frattempo, secondo quanto riferito da The Hill, l'avvocato Alan Dershowitz -già legale di Trump durante lo scorso impeachme
La nave Mediterranea nel porto di Trapani (Ansa)