Nella Ue il rapporto tra remunerazione dei clienti e aumenti della Bce è del 20%: da noi appena dell’11%. Significa che tra luglio 2022 e il maggio scorso gli istituti italiani hanno «lucrato» circa il doppio della media.
Nella Ue il rapporto tra remunerazione dei clienti e aumenti della Bce è del 20%: da noi appena dell’11%. Significa che tra luglio 2022 e il maggio scorso gli istituti italiani hanno «lucrato» circa il doppio della media.Le banche italiane non sono certo state generose con i loro clienti nel riconoscere un rendimento sui conti correnti. Secondo l’analisi del Financial Times uscita qualche giorno fa, prima del decreto Asset, in proporzione rispetto agli aumenti della banca centrale i nostri istituti hanno «trascinato» sui conti dei clienti appena l’11% di quei rialzi; contro una media europea del 20% e una punta del 43% in Gran Bretagna. Significa che un aumento del 5% sui tassi nel nostro caso ha portato a un rialzo dello 0,5% circa dei depositi, in Francia oltre del triplo. E dunque aumentando la remunerazione le banche inglesi, francesi e austriache hanno maggiormente soddisfatto i clienti che rappresentano il loro patrimonio. Ed è su questa disparità rispetto al panorama internazionale che si è inserita la tassa imposta dal governo Meloni. Servirà - almeno negli intenti - a mettere a contribuzione il margine d’interesse che rappresenta il cuore dell’attività bancaria: la differenza fra quanto una banca paga per «acquistare» la materia prima (i depositi della clientela) e quello che incassa «rivendendo» il denaro sotto forma di mutui e prestiti a famiglie e imprese. Negli anni, però, questa voce ha perso centralità a favore delle commissioni: vale a dire il pagamento che ottiene la banca per i servizi che offre (bonifici, carte di credito, bancomat, vendita di polizze assicurative). La ragione del cambio di prospettiva è duplice. Innanzitutto il rischio: se una banca presta il denaro c’è sempre l’eventualità che il debitore non rimborsi mentre sulle commissioni è tutto sicuro: il cliente paga al momento dell’acquisto del servizio. In secondo luogo c’è la storia degli ultimi dieci anni. Da quando Mario Draghi salvò l’euro con il famoso Whatever it takes (faremo tutto ciò che è necessario) gli utili delle banche sono crollati. Gli interventi di politica monetaria della Bce hanno portato i tassi in negativo e questo ha fatto cadere i profitti degli istituti. Per molto tempo le famiglie con mutuo variabile sono riuscite a pagare rate molto basse. Il sistema creditizio ha vissuto anni non facili: il margine d’interesse è diventato una voce residuale a vantaggio delle commissioni. Non a caso gli sportelli tendono a trasformarsi in centri di consulenza. Nel frattempo sono esplose le sofferenze (vale a dire i prestiti non rimborsati) e si sono moltiplicate le crisi bancarie (a cominciare da Mps che, prima di andare in default era il terzo gruppo bancario italiano). La risposta del sistema a queste criticità è stato l’azzeramento o quasi dei tassi pagati sulla raccolta da clientela e l’aumento dei costi delle commissioni e dei conti correnti (mediamente 95 euro con punte di 170). A giugno dell’anno scorso la Bce ha ribaltato tutto e i tassi d’interesse sono volati. Un mutuo su cui si pagava il 2,57% è passato al 4,65%. Per un’impresa il costo di un finanziamento è passato dall’1,4% al 5%. I rendimenti riconosciuti dalle banche ai depositanti invece sono rimasti praticamente immobili passando dallo 0,03% allo 0,3%. Una benedizione per i bilanci. Costi sostanzialmente stabili e ricavi in crescita, mediamente del 5% hanno gonfiato gli utili delle banche. Si tratta dei famosi «extraprofitti» che la tassa del governo Meloni vorrebbe colpire. Giusto o sbagliato? I banchieri sostengono che non ci sono «extraprofitti» ma solo i risultati di una normale attività d’impresa: con il crollo dei tassi avevano sofferto, Ora le cose vanno meglio. Il governo risponde che negli anni non sono mancati i sostegni con denaro pubblici per rimediare all’incapacità dei banchieri: dalle Gacs (le garanzie pubbliche sui prestiti inesigibili) ai vari salvataggi (a cominciare da Mps). È ora che il sistema cominci a restituire un po’ dei regali che ha ottenuto. Da qui la proposta di mediazione avanzata dal ministro Giancarlo Giorgetti per alzare i rendimenti sui depositi della clientela. Un invito che non è stato accolto. La tassa sembra la risposta a questo silenzio. A giustificarla anche il fatto che già esistono iniziative del genere in giro per l’Europa. Ha cominciato la Spagna con l’obiettivo raccogliere 3 miliardi di euro entro il 2024. Il governo guidato dal socialista Sanchez con la prima rata di febbraio ha incassato 1,45 miliardi. A novembre la Repubblica Ceca ha approvato una tassa per raccogliere circa 3,5 miliardi di euro contro l’impennata dei prezzi di elettricità e gas. Per il biennio 2023-2024 la Lituania ha approvato un’imposta del 60% sulla parte del reddito netto da interessi bancari che supera del 50% la media dei quattro anni precedenti. Punta a raccogliere 410 milioni di euro per potenziare le forze armate. Una modifica delle imposte sugli extraprofitti nei settori chiave dell’economia è stata introdotta a giugno anche in Ungheria. Le banche possono ridurre fino al 50% il peso delle imposte nel 2024 se aumentano gli acquisti di titoli di Stato domestici. Come si può vedere, quando si tratta di raccogliere fondi per rispondere alle emergenze di chi è in difficoltà le differenze tra destra e socialisti quasi non si vedono. Con una domanda: siamo sicuri che una banca più tassata poi tratti meglio i clienti e colmi il gap del grafico?
Ansa
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Sempre più risparmiatori scelgono i Piani di accumulo del capitale in fondi scambiati in borsa per costruire un capitale con costi chiari e trasparenti. A differenza dei fondi tradizionali, dove le commissioni erodono i rendimenti, gli Etf offrono efficienza e diversificazione nel lungo periodo.
Il risparmio gestito non è più un lusso per pochi, ma una realtà accessibile a un numero crescente di investitori. In Europa si sta assistendo a una vera e propria rivoluzione, con milioni di risparmiatori che scelgono di investire attraverso i Piani di accumulo del capitale (Pac). Questi piani permettono di mettere da parte piccole somme di denaro a intervalli regolari e il Pac si sta affermando come uno strumento essenziale per chiunque voglia crearsi una "pensione di scorta" in modo semplice e trasparente, con costi chiari e sotto controllo.
«Oggi il risparmio gestito è alla portata di tutti, e i numeri lo dimostrano: in Europa, gli investitori privati detengono circa 266 miliardi di euro in etf. E si prevede che entro la fine del 2028 questa cifra supererà i 650 miliardi di euro», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert SCF. Questo dato conferma la fiducia crescente in strumenti come gli etf, che rappresentano l'ossatura perfetta per un PAC che ha visto in questi anni soprattutto dalla Germania il boom di questa formula. Si stima che quasi 11 milioni di piani di risparmio in Etf, con un volume di circa 17,6 miliardi di euro, siano già attivi, e si prevede che entro il 2028 si arriverà a 32 milioni di piani.
Uno degli aspetti più cruciali di un investimento a lungo termine è il costo. Spesso sottovalutato, può erodere gran parte dei rendimenti nel tempo. La scelta tra un fondo con costi elevati e un Etf a costi ridotti può fare la differenza tra il successo e il fallimento del proprio piano di accumulo.
«I nostri studi, e il buon senso, ci dicono che i costi contano. La maggior parte dei fondi comuni, infatti, fallisce nel battere il proprio indice di riferimento proprio a causa dei costi elevati. Siamo di fronte a una realtà dove oltre il 90% dei fondi tradizionali non riesce a superare i propri benchmark nel lungo periodo, a causa delle alte commissioni di gestione, che spesso superano il 2% annuo, oltre a costi di performance, ingresso e uscita», sottolinea Gaziano.
Gli Etf, al contrario, sono noti per la loro trasparenza e i costi di gestione (Ter) che spesso non superano lo 0,3% annuo. Per fare un esempio pratico che dimostra il potere dei costi, ipotizziamo di investire 200 euro al mese per 30 anni, con un rendimento annuo ipotizzato del 7%. Due gli scenari. Il primo (fondo con costi elevati): con un costo di gestione annuo del 2%, il capitale finale si aggirerebbe intorno ai 167.000 euro (al netto dei costi). Il secondo (etf a costi ridotti): Con una spesa dello 0,3%, il capitale finale supererebbe i 231.000 euro (al netto dei costi).
Una differenza di quasi 64.000 euro che dimostra in modo lampante come i costi incidano profondamente sul risultato finale del nostro Pac. «È fondamentale, quando si valuta un investimento, guardare non solo al rendimento potenziale, ma anche e soprattutto ai costi. È la variabile più facile da controllare», afferma Salvatore Gaziano.
Un altro vantaggio degli Etf è la loro naturale diversificazione. Un singolo etf può raggruppare centinaia o migliaia di titoli di diverse aziende, settori e Paesi, garantendo una ripartizione del rischio senza dover acquistare decine di strumenti diversi. Questo evita di concentrare il proprio capitale su settori «di moda» o troppo specifici, che possono essere molto volatili.
Per un Pac, che per sua natura è un investimento a lungo termine, è fondamentale investire in un paniere il più possibile ampio e diversificato, che non risenta dei cicli di mercato di un singolo settore o di un singolo Paese. Gli Etf globali, ad esempio, che replicano indici come l'Msci World, offrono proprio questa caratteristica, riducendo il rischio di entrare sul mercato "al momento sbagliato" e permettendo di beneficiare della crescita economica mondiale.
La crescente domanda di Pac in Etf ha spinto banche e broker a competere offrendo soluzioni sempre più convenienti. Oggi, è possibile costruire un piano di accumulo con commissioni di acquisto molto basse, o addirittura azzerate. Alcuni esempi? Directa: È stata pioniera in Italia offrendo un Pac automatico in Etf con zero costi di esecuzione su una vasta lista di strumenti convenzionati. È una soluzione ideale per chi vuole avere il pieno controllo e agire in autonomia. Fineco: Con il servizio Piano Replay, permette di creare un Pac su Etf con la possibilità di ribilanciamento automatico. L'offerta è particolarmente vantaggiosa per gli under 30, che possono usufruire del servizio gratuitamente. Moneyfarm: Ha recentemente lanciato il suo Pac in Etf automatico, che si aggiunge al servizio di gestione patrimoniale. Con versamenti a partire da 10 euro e commissioni di acquisto azzerate, si posiziona come una valida alternativa per chi cerca semplicità e automazione.
Ma sono sempre più numerose le banche e le piattaforme (Trade Republic, Scalable, Revolut…) che offrono la possibilità di sottoscrivere dei Pac in etf o comunque tutte consentono di negoziare gli etf e naturalmente un aspetto importante prima di sottoscrivere un pac è valutare i costi sia dello strumento sottostante che quelli diretti e indiretti come spese fisse o di negoziazione.
La scelta della piattaforma dipende dalle esigenze di ciascuno, ma il punto fermo rimane l'importanza di investire in strumenti diversificati e con costi contenuti. Per un investimento di lungo periodo, è fondamentale scegliere un paniere che non sia troppo tematico o «alla moda» secondo SoldiExpert SCF ma che rifletta una diversificazione ampia a livello di settori e Paesi. Questo è il miglior antidoto contro la volatilità e le mode del momento.
«Come consulenti finanziari indipendenti ovvero soggetti iscritti all’Albo Ocf (obbligatorio per chi in Italia fornisce consigli di investimento)», spiega Gaziano, «forniamo un’ampia consulenza senza conflitti di interesse (siamo pagati solo a parcella e non riceviamo commissioni sui prodotti o strumenti consigliati) a piccoli e grandi investitore e supportiamo i clienti nella scelta del Pac migliore a partire dalla scelta dell’intermediario e poi degli strumenti migliori o valutiamo se già sono stati attivati dei Pac magari in fondi di investimento se superano la valutazione costi-benefici».
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