2018-12-02
I medici ridotti a fare i passacarte per dieci euro all’ora
La denuncia di una dottoressa su un lavoro svilito dal carico di burocrazia, che impedisce di dedicarsi alla cura dei malati. «Non è un Paese per medici un Paese che consente che questo accada, che permette che chi va al lavoro possa essere aggredito, violentato, financo ucciso facendo semplicemente il proprio lavoro».Una volta tanto voglio approfittare di questo spazio per riprendere quanto una mia collega, la dottoressa Ornella Mancin, di Cavarzene in Veneto, ha scritto al Quotidiano Sanità di Cesare Fassari, un ottimo giornale telematico, dal titolo L'Italia non è un Paese per medici.Questo è quanto ha scritto:«Gentile direttore, c'è un senso di frustrazione che accompagna oggi il nostro essere medico ed è legato alla percezione che il lavoro che ci siamo scelti e che amiamo è considerato sempre meno, trasformato in lavoro impiegatizio con l'intento non troppo nascosto di renderlo facilmente sostituibile. Così che una delle professioni più ambite di sempre sta entrando in crisi e si cominciano a vederne i segni. Reggere a dei carichi lavorativi abnormi, lavorando in continua emergenza per far fronte alle carenze di organico, si sta rivelando talmente sfibrante da far sì che molti colleghi decidano di abbandonare anzitempo il lavoro per dedicarsi ad altro. È il fenomeno che il vicepresidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Fnomceo), nonché presidente dell'Ordine dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Omceo) della Provincia di Venezia, Giovanni Leoni , definisce come «l'autodimissione dei medici dagli ospedali», descritto egregiamente in una sua lettera inviata a questo quotidiano, che nel giro di pochi giorni ha raggiunto quasi 10.000 condivisioni, segno di un problema decisamente molto sentito.Si chiede Leoni: “Fino a quando si reggerà a questa vita, fino a quando le personali motivazioni etiche e morali ti fanno reggere il ritmo? La tua coscienza, il senso del dovere? E quanto valgono di fronte al fatto che nessuno di quelli che dovrebbero ti apprezza per quello che fai ma anzi ti sfrutta senza remore, ti ridicolizza con lo stipendio bloccato da 10 anni, con la reperibilità notturna e festiva pagata un euro netto all'ora?".Alla percezione di non essere apprezzati, si aggiunge infatti una retribuzione ferma da anni con prospettive di guadagno sempre minori per cui viene meno anche un altro dei motivi che rendevano attraente la nostra professione. Così, oltre all'autodimissione, si assiste ai concorsi che vanno vuoti, soprattutto per le specialità dove il rischio medico legale si fa più pressante.Il medico è un mestiere in crisi. Eppure, se vantiamo uno dei sistemi sanitari migliori, è proprio grazie a chi ci lavora, in primis i medici: «Senza i medici e senza i professionisti della sanità non c'è servizio sanitario nazionale», ha affermato il presidente Fnomceo, Filippo Anelli. Eppure chi dirige e amministra la sanità ritiene di poterne fare a meno, o comunque di poter disporre dei medici come meglio crede, senza l'ascolto che si dovrebbe riservare a chi opera sul campo e fa un lavoro intellettuale complesso.Parafrasando il titolo di un famoso film, si potrebbe dire che l'Italia «non è un Paese per medici», non più e non ora, perché è un Paese che non sa valorizzare chi costituisce il cuore di tutto il sistema sanità. Il problema non sembra essere percepito completamente dai giovani, che in massa provano il test di medicina ancora attratti da un'idea di professione affascinante. Il problema viene colto appena uno si affaccia alla professione. Spesso i giovani medici lavorano per molti anni, ricoprendo mansioni anche molto impegnative per compensi miseri. Ci sono giovani colleghi che lavorano per 10 euro lordi all'ora. Basta pensare a quei giovani medici assunti da «cooperative» che vengono mandati a lavorare a «gettone» nei Pronto soccorso o nelle ambulanze, con un rischio medico legale enorme sulle loro spalle, data la loro scarsa esperienza ed enorme responsabilità.Chi può scappa all'estero, dove i compensi sono 2-3 volte quelli italiani. Chi resta è destinato a peregrinare da un posto all'altro, con contratti molto flessibili e limitati (da 6 mesi a qualche anno).E poi se il medico è donna (e lo è ormai il 70% degli iscritti a Medicina) il futuro è ancora meno allettante e la possibilità di mettere su famiglia e fare un figlio richiede una determinazione notevole (basti pensare, per esempio, che le giovani colleghe in gravidanza non vengono sostituite negli ospedali, lasciando tutto il carico lavorativo sulle spalle di chi resta).No, l'Italia non è un Paese per medici. A questo si aggiunge il grave problema delle aggressioni ai medici, fenomeno in costante aumento e di difficile eradicazione nonostante la lodevole campagna di sensibilizzazione partita dall'Omceo di Bari e fatta propria dalla Fnomceo con il titolo Chi aggredisce un medico, aggredisce sé stesso e il recente appello del segretario nazionale della Federazione italiana dei medici di famiglia (Fimmg), Silvestro Scotti, che ha scritto una lettera aperta ai cittadini con l'hastag#picchiateMe (solo nell'ultimo anno il 50% dei medici e degli operatori sanitari sono stati oggetto di aggressioni e il 4% è stato vittima di violenza fisica, secondo un'indagine della Fnomceo, ndr).Non è un Paese per medici un Paese che consente che questo accada, che permette che chi va al lavoro possa essere aggredito, violentato, financo ucciso facendo semplicemente il proprio lavoro».Se le aggressioni che avvengono ai medici fossero a carico di magistrati o di giornalisti, cosa succederebbe? Vedremmo le più alte cariche dello Stato intervenire con severi moniti e ammonizioni per l'attacco alle libertà della Repubblica. E poi, come dice giustamente Alberto Scanni su Facebook: cosa fa un medico oggi in ospedale? Stende continuamente relazioni per la Regione e le amministrazioni su cose che nulla hanno a che fare con quello per cui ha studiato, deve dare informazioni al ministero sull'uso di farmaci particolari, compilare i moduli della privacy, fare impegnative per l'esonero dei ticket, stendere certificati Inps, occuparsi dell'antincendio, partecipare ai vari comitati e comitatini che organizza l'amministrazione per il raggiungimento dei suoi obiettivi. Poca attività clinica e molta attività burocratica e il tempo da dedicare ai malati diventa sempre meno. Basta ridursi a fare gli impiegati, che lo faccia l'amministrazione introducendo delle figure intermedie che si occupino di tutti quei problemi che nulla hanno a che fare con il lavoro del medico, impedendogli di fare la cosa principale: curare i malati. E ovviamente, concludo ancora io, mai consultati in maniera seria nelle strategie mediche e scientifiche di sviluppo dell'ospedale, e nelle carenze insostenibili di medici e del restante personale sanitario. E ci si meraviglia dello sciopero generale dello scorso venerdì 23 novembre?www.umbertotirelli.itinfo@umbertotirelli.itwww.clinicamede.com
La deposizione in mare della corona nell'esatto luogo della tragedia del 9 novembre 1971 (Esercito Italiano)
Quarantasei giovani parà della «Folgore» inghiottiti dalle acque del mar Tirreno. E con loro sei aviatori della Royal Air Force, altrettanto giovani. La sciagura aerea del 9 novembre 1971 fece così impressione che il Corriere della Sera uscì il giorno successivo con un corsivo di Dino Buzzati. Il grande giornalista e scrittore vergò alcune frasi di estrema efficacia, sconvolto da quello che fino ad oggi risulta essere il più grave incidente aereo per le Forze Armate italiane. Alle sue parole incisive e commosse lasciamo l’introduzione alla storia di una catastrofe di oltre mezzo secolo fa.
(…) Forse perché la Patria è passata di moda, anzi dà quasi fastidio a sentirla nominare e si scrive con la iniziale minuscola? E così dà fastidio la difesa della medesima Patria e tutto ciò che vi appartiene, compresi i ragazzi che indossano l’uniforme militare? (…). Buzzati lamentava la scarsa commozione degli Italiani nei confronti della morte di giovani paracadutisti, paragonandola all’eco che ebbe una tragedia del 1947 avvenuta ad Albenga in cui 43 bambini di una colonia erano morti annegati. Forti le sue parole a chiusura del pezzo: (…) Ora se ne vanno, con i sei compagni stranieri. Guardateli, se ci riuscite. Personalmente mi fanno ancora più pietà dei leggendari piccoli di Albenga. Non si disperano, non singhiozzano, non maledicono. Spalla a spalla si allontanano. Diritti, pallidi sì ma senza un tremito, a testa alta, con quel passo lieve e fermissimo che nei tempi antichi si diceva appartenesse agli eroi e che oggi sembra completamente dimenticato (…)
Non li hanno dimenticati, a oltre mezzo secolo di distanza, gli uomini della Folgore di oggi, che hanno commemorato i caduti di quella che è nota come la «tragedia della Meloria» con una cerimonia che ha coinvolto, oltre alle autorità, anche i parenti delle vittime.
La commemorazione si è conclusa con la deposizione di una corona in mare, nel punto esatto del tragico impatto, effettuata a bordo di un battello in segno di eterno ricordo e di continuità tra passato e presente.
Nelle prime ore del 9 novembre 1971, i parà del 187° Reggimento Folgore si imbarcarono sui Lockheed C-130 della Raf per partecipare ad una missione di addestramento Nato, dove avrebbero dovuto effettuare un «lancio tattico» sulla Sardegna. La tragedia si consumò poco dopo il decollo dall’aeroporto militare di Pisa-San Giusto, da dove in sequenza si stavano alzando 10 velivoli denominati convenzionalmente «Gesso». Fu uno di essi, «Gesso 5» a lanciare l’allarme dopo avere visto una fiammata sulla superficie del mare. L’aereo che lo precedeva, «Gesso 4» non rispose alla chiamata radio poiché istanti prima aveva impattato sulle acque a poca distanza dalle Secche della Meloria, circa 6 km a Nordovest di Livorno. Le operazioni di recupero dei corpi furono difficili e lunghissime, durante le quali vi fu un’altra vittima, un esperto sabotatore subacqueo del «Col Moschin», deceduto durante le operazioni. Le cause della sciagura non furono mai esattamente definite, anche se le indagini furono molto approfondite e una nave pontone di recupero rimase sul posto fino al febbraio del 1972. Si ipotizzò che l’aereo avesse colpito con la coda la superficie del mare per un errore di quota che, per le caratteristiche dell’esercitazione, doveva rimanere inizialmente molto bassa.
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