Per sollecitare l'attenzione dell'opinione pubblica sulla persistenza di questa malattia, della quale si parla molto meno pur rimanendo estremamente pericolosa, è nata la Giornata Mondiale contro l'Aids, celebrata ogni anno il primo di dicembre. Le terapie moderne per l'infezione da Hiv hanno trasformato questa malattia in una patologia cronica. Oggi l'aspettativa di vita di una persona affetta da infezione fa Hiv è sostanzialmente sovrapponibile a quella della popolazione generale. Tuttavia, diversi studi hanno dimostrato una maggior frequenza di alcune patologie non infettive, legate normalmente all'invecchiamento, quali ad esempio le malattie cardiovascolari, per le quali il rischio è quasi il doppio nelle persone con infezione da Hiv.
Le terapie attualmente a disposizione permettono comunque di abbassare il rischio di sviluppare queste condizioni legate all'invecchiamento, riducendo lo stato di infiammazione cronica che l'infezione determina e che è in parte alla base di esse. Pur trattandosi di regimi terapeutici gravati da minor tossicità rispetto a quelli del passato, possono comunque indurre alcuni eventi inattesi come l'aumento di peso e costituire quindi essi stessi un potenziale fattore di rischio. L'Hiv oggi si può controllare, garantendo al paziente una qualità di vita molto simile al resto della popolazione, e si può ridurre la viremia fino ad azzerarne il rischio contagio. Resta di fatto un ultimo limite ancora non superato: l'eradicazione del virus dall'organismo. Uno dei principali ostacoli all'eliminazione dell'HIV dall'organismo è la sua capacità di sopravvivere in forma latente dentro le cellule CD4 (Linfociti T) che si trovano in uno stato non attivo. Queste cellule sono infettate da Hiv e lo mantengono in uno stato di latenza: il virus resta così invisibile al sistema immunitario e si formano dei serbatoi virali. Soltanto quando il virus comincia a riprodursi, il sistema immunitario rileva la cellula infetta. La terapia antiretrovirale permette di mantenere un basso livello di replicazione virale durante l'attivazione di queste cellule latenti. Ma, come dimostrato da recenti studi, un'interruzione terapeutica di poche settimane provoca un rimbalzo della carica virale a livelli corrispondenti a quelli pre-trattamento. In merito alle più significative novità, il 2019 ci ha consegnato un'evidenza scientifica rivoluzionaria, sintetizzata nell'acronimo U=U, Undetectable=Untransmittable, Non rilevabile=Non trasmissibile. Una conclusione che supporta l'efficacia della terapia antiretrovirale nella prevenzione della trasmissione dell'infezione da Hiv da persone che hanno raggiunto la soppressione virologica. In altri termini, le persone con Hiv in terapia efficace non trasmettono il virus ai/alle partner, grazie alla corretta assunzione della terapia antiretrovirale. È una rivoluzione rimandata per il momento, vista la poca pubblicità data a una scoperta che segna una svolta epocale. Per i pazienti significa molto, visto anche l'impatto che può avere sullo stigma e contro la discriminazione: siamo passati dalle accuse di «untori» a un fatto scientifico innegabile, per cui le persone con Hiv, se sottoposte a terapia efficace, non sono contagiose. Questa innovazione dunque ha sia una valenza scientifica e clinica, ma anche un peso sociale, culturale e infine psicologico. Proprio su questi elementi si dovrebbe intervenire con iniziative volte a promuovere il messaggio di questa novità. In tanti, infatti, soprattutto tra i più giovani ancora non sono al corrente di questa svolta, così come persiste un'ignoranza sulle modalità di trasmissione del virus, sui rischi che si corrono e sulle necessarie precauzioni da prendere in merito a comportamenti corretti e modalità di prevenzione. Si è osservato che la percentuale delle visite mancate a causa della pandemia Covid-19 è aumentata solo in maniera modesta, 4.9% nel 2019 e 8.1% nel 2020, soprattutto a carico di donne e stranieri. Inoltre, grazie all'introduzione dei programmi di telemedicina, oltre il 67% dei pazienti programmati nel periodo considerato, tra marzo e aprile 2020, ha potuto espletare la visita di controllo a distanza tramite intervista telefonica. Inoltre, si è osservata una riduzione dei farmaci distribuiti (- 23.1%), nonostante il contributo di numerose associazioni di volontariato nelle consegne a domicilio. In conclusione, ancora l'Hiv-Aids rimane un problema medico molto importante anche in Italia e con questa giornata del 1° dicembre si vogliono ricordare milioni di persone che negli anni nel mondo sono morte a causa di questa malattia, anche per riflettere ed informare amici e conoscenti di questa giornata mondiale contro l'Aids, ricordando che è una infezione che si trasmette per via sessuale.
La sclerosi laterale amiotrofica (Sla) è una malattia neurodegenerativa che colpisce la popolazione adulta, generalmente dopo i 50 anni, e che determina una degenerazione irreversibile dei neuroni motori. L'incidenza nel mondo è di circa 1-3 casi su 100.000 ogni anno. In Italia, dove sono attivi alcuni registri regionali di malattia, si stima che vi siano circa 5.000 ammalati con una incidenza di circa 1.000 casi all'anno.
Purtroppo non vi sono a oggi farmaci efficaci a combattere questa malattia e ancora non è certa la causa determinante. Si suppone che sia una malattia determinata da cause multifattoriali sia di tipo genetico che ambientale. Lavori recenti avrebbero individuato mutazioni in una serie di geni che sembrerebbero essere predisponenti alla malattia. Alcuni studi sui giocatori di football americano hanno riportato tassi di mortalità generale più bassi rispetto alla popolazione generale, ma con un possibile aumento della mortalità per cause neurodegenerative, incluse la Sla. Uno studio retrospettivo, pubblicato recentemente su Jama, ha confrontato la mortalità tra i giocatori della National football league (Nfl) e della Major league baseball (Mlb) degli Stati Uniti, il gruppo di confronto più appropriato tra gli atleti professionisti, con una differenza sostanziale: nei primi i traumi anche cranici sono alla base del gioco, cosa che non avviene nei secondi. Il confronto avveniva valutando la mortalità dal 1° gennaio 1979 al 31 dicembre 2013. I partecipanti erano 3.419 giocatori di football americano e 2.708 giocatori di baseball con almeno cinque stagioni di gioco professionista. Alla fine del follow-up, ci sono stati 517 decessi (età media 59,6 anni nella coorte dei giocatori di football americano) e 431 decessi (età media 66,7 anni) nella coorte dei giocatori di baseball.
Le condizioni cardiovascolari e neurodegenerative, rispettivamente, sono state notate come cause sottostanti o contribuenti in 498 e 39 decessi nel football e 225 e 16 decessi nel baseball. Rispetto ai giocatori di baseball, i giocatori di football americano avevano tassi significativamente più elevati di mortalità per tutte le cause e per malattie cardiovascolari e per malattie neurodegenerative. I fattori che variano in questi sport (ad esempio habitus corporeo e trauma cranico) potrebbero essere alla base delle differenze. In questo studio di coorte retrospettivo, è stato riscontrato un tasso significativamente più elevato di mortalità per tutte le cause, e in particolare di mortalità cardiovascolare e neurodegenerativa, tra i giocatori di football americano rispetto ai giocatori di baseball. Ciò suggerisce che alcune esposizioni più associate al football americano, rispetto al baseball sono collegate a un aumentato rischio di mortalità per malattie cardiovascolari e neurodegenerative, inclusa la Sla.
Per ironia della sorte la Sla prende il nome di Morbo di Lou Gehrig, dal nome di un famoso giocatore americano di baseball degli anni Trenta. Inoltre, come riferisce Negri News del professor Silvio Garattini, nei laboratori dell'Istituto Mario Negri vengono studiate le cause che sono alla base della Sla, in particolare le cause ambientali, gli stili di vita, l'attività fisica e sportiva che possono, in soggetti predisposti, promuovere l'insorgenza della malattia.
È convinzione diffusa che i giocatori di calcio siano più soggetti della popolazione generale a essere colpiti da questa malattia. Diversi lavori scientifici hanno avvalorato questa convinzione, ma fino a oggi in modo non del tutto convincente. Lo studio epidemiologico condotto da Ettore Beghi e da Elisabetta Pupillo del Laboratorio delle malattie neurologiche del Dipartimento di neuroscienze dell'Istituto Mario Negri in collaborazione con l'Azienda ospedaliera universitaria di Novara (Letizia Mazzini) e l'Istituto superiore di sanità (Nicola Vanacore) ha confermato questa ipotesi: i calciatori si ammalano di Sla molto più della popolazione in generale.
Lo studio è stato condotto su un elevato numero di calciatori (23.875) i cui nominativi sono stati identificati in un modo molto particolare ma efficace: erano i nominativi presenti nelle figurine Panini! Giocatori di Serie A, B e C della stagione 1959-1960 fino a quella 1999-2000 sono stati seguiti fino al 2018. Nel periodo considerato dallo studio sono stati accertati 32 casi di Sla, di cui 14 fra i centrocampisti, più del doppio degli attaccanti. Due sono i dati importanti che emergono da questa indagine: il rischio di Sla è due volte superiore per i calciatori rispetto a quello della popolazione in generale (addirittura sei volte per i giocatori di serie A) e l'età di insorgenza della malattia si attesta più precocemente rispetto a chi non ha praticato il calcio: 43 anni per i calciatori, 65 per la popolazione in generale. Questi risultati importanti dal punto di vista epidemiologico sottendono delle domande alle quali la ricerca è impegnata a rispondere per capire il ruolo di fattori esterni nel determinare l'insorgenza della Sla e la conoscenza dei meccanismi di malattia sui quali poter intervenire a beneficio degli ammalati. Ettore Beghi ha presentato questi dati all'American academy of neurology annual meeting che si è tenuta a Filadelfia nel maggio 2019. In conclusione, i giocatori di calcio della serie A, soprattutto i centrocampisti (che hanno più spesso traumi cranici rispetto ad altri giocatori) e di football americano della Nfl (nei confronti dei giocatori di baseball della Mlf) hanno un'incidenza di Sla superiore alla popolazione generale e in età più precoce. La causa? Il trauma cranico è il più imputato, ma non si possono escludere altre cause concomitanti che ancora non sono conosciute (farmaci? Sostanze chimiche presenti nelle strutture dei campi di gioco?).
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Ozonoterapia, la cura che difende i pazienti oncologici anziani dalla minaccia Covid
Sia Covid-19 sia i tumori colpiscono prevalentemente le persone anziane, anche a causa della fragilità e della senescenza immunologica di queste persone, e l'essere anziano ha un impatto più sfavorevole per quanto riguarda la sopravvivenza in queste patologie. Teniamo comunque conto che le persone anziane sono quelle che hanno fatto grande e ricco il nostro Paese, dobbiamo tutti pensare di curarle al meglio, non pensare come qualcuno in Europa sta azzardando, a non trattarle al meglio perché anziane. Le caratteristiche demografiche della popolazione italiana sono molto diverse rispetto a quelle di altri Paesi. Nel 2019 circa il 25% della popolazione italiana aveva un'età superiore ai 65 anni e il Covid-19 è più letale nei pazienti anziani cosicché la distribuzione dell'età avanzata in Italia può spiegare in parte l'alta percentuale di mortalità comparata con quella di altri Paesi. Le nuove infezioni di Covid-19 in Italia sono appannaggio del 37% dei pazienti con età superiore ai 70 anni e i decessi che si verificano attribuiti al Covid-19 hanno una età media di 80 anni, in altre parole dai 70 anni in su la mortalità si verifica nell'88% dei casi di Covid-19.
I dati demografici dimostrano una escalation delle malattie correlate all'età avanzata come le patologie cardiovascolari, respiratorie, neurologiche ma soprattutto il cancro. Infatti l'incidenza di molti tumori cresce con l'età almeno fino agli 85 anni, mentre viceversa può ridursi dopo i 95 anni. Analizzando l'impatto dei tumori sulla popolazione, si scopre che in Italia si registrano 350.000 nuovi casi di tumori per anno e di questi il 65% si verificano in persone oltre i 65 anni, il 35% nella fascia tra i 65 e 74 anni e il 30% nella fascia degli over 75.
In uno studio cinese riportato su The Lancet Oncology, si è scoperto che i pazienti oncologici possono essere a maggior rischio di malattie respiratorie causate da Covid-19 che richiedono il ricovero in ospedale, rispetto agli individui senza cancro e che i pazienti oncologici che contraggono il virus hanno una maggiore probabilità di avere esiti molto scarsi della loro malattia oncologica.
Nei pazienti oncologici con età superiore ai 70 anni è da rivalutare il trattamento chemioterapico, radioterapico, chirurgico ed immunoterapico, in quanto questi trattamenti potrebbero aumentare il rischio di sviluppare immunodepressione e quindi infezione da Covid-19. Bisogna pertanto evitare trattamenti cosiddetti adiuvanti non necessari nei pazienti oncologici per non aumentare il rischio di Covid-19.
Nella clinica Tirelli medical group dove trattiamo pazienti oncologici con farmaci biologici in base anche alle caratteristiche genetiche dei tumori stessi, attraverso la collaborazione con Oncologica Uk di Cambridge, in Gran Bretagna, stiamo rivalutando questi trattamenti così da non aumentare il rischio di sviluppare immunodeficienza o tossicità che predispongono i pazienti oncologici al Covid-19. Comunque, considerando l'efficacia dell'ossigeno-ozonoterapia nella terapia di Covid-19, stiamo consigliando ai pazienti oncologici che debbono, per la natura della loro malattia oncologica, eseguire trattamenti oncologici che possono guarire o aumentare di molto le probabilità di guarigione del loro tumore, ma che possono sviluppare effetti collaterali dal trattamento, una terapia concomitante con ossigeno-ozonoterapia sia per gli effetti immunomodulanti del trattamento che per l'efficacia che può avere nel bloccare l'evoluzione del Covid-19 in questi pazienti.
Per i pazienti oncologici in generale, in particolare coloro con età superiore ai 60-70 anni, tabagisti, con compromissione polmonare o con patologie cardiorespiratorie concomitanti, consigliamo di rinviare i trattamenti che compromettono il sistema immunitario, quando questi non sono guaritivi, o adeguarli così da non compromettere il sistema immunitario. Per esempio consigliamo di considerare il rinvio di interventi chirurgici con elevata morbilità e mortalità durante la pandemia, quando questo fosse possibile ovviamente, di considerare altre modalità di trattamento, per esempio la radioterapia in sostituzione del trattamento chirurgico, di evitare i trattamenti chemioterapici adiuvanti o neo-adiuvanti che avessero poco vantaggio rispetto ad un trattamento solo radioterapico e/o chirurgico per quanto riguarda la sopravvivenza di quella patologia oncologica, di sospendere i trattamenti di mantenimento come quelli immunologici che si utilizzano nei linfomi. Inoltre, come giustamente denunciato da Francesco De Lorenzo, presidente di Favo (Federazione delle associazioni di volontariato in oncologia), bisogna semplificare al massimo la burocrazia per i pazienti oncologici che hanno rischio maggiore di sviluppare Covid-19 così da consentire la permanenza a casa di queste persone e l'allontanamento dai lavori che li espongono ad un'infezione potenzialmente mortale quale il Covid-19. A oggi infatti circa il 20% del totale dei decessi per Covid-19 si è registrato tra i pazienti oncologici. Comunque i pazienti con patologie oncologiche potenzialmente guaribili come leucemie acute, linfomi ad alto grado di malignità, tumori del testicolo e dell'ovaio e microcitomi polmonari, nonostante il rischio di sviluppare il Covid-19 devono essere trattati con intento di guarigione perché quei tumori sono più letali che il Covid-19.
Infine i livelli di cooperazione e collegialità tra Italia, Spagna ed in generale Europa, Cina e Usa sono aumentati in pochi mesi, a causa della pandemia, portando ad un livello di solidarietà tra medici, personale sanitario e pazienti oncologici mai prima registrato, con scambio di esperienze tra coloro che hanno già affrontato e/o stanno affrontando l'epidemia e coloro che stanno per cominciare l'epidemia.
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