2021-12-04
I giudici continuano a impedire di far luce sulla strage in Val Seriana
Il Viminale non fornirà gli atti sul ritiro dei militari da Alzano e Nembro. Per il Consiglio di Stato, infatti, dovrà solo chiarire perché nasconde le carte. Eppure, il mancato lockdown potrebbe avere fatto esplodere i contagiCon i sinistri bagliori di lockdown e l’Italia di nuovo a colori, torna d’attualità anche la zona rossa dimenticata. È quella di Alzano Lombardo e Nembro, che secondo i parenti delle vittime bergamasche avrebbe potuto contenere il virus cinese limitando morti e disperazione durante la prima ondata. La chiusura mai eseguita dal governo di Giuseppe Conte e mai chiarita a beneficio della verità, si è trasformata in una battaglia giudiziaria a colpi di ricorsi. Ora siamo a un bivio: con ordinanza del 2 dicembre, il Consiglio di Stato chiede al ministero dell’Interno di spiegare entro 30 giorni perché non vuole rendere pubblici gli atti di quel cordone sanitario mai realizzato. I fatti sono acclarati: il 5 marzo 2020 arrivano nel distretto industriale più effervescente della Bassa Val Seriana, già colpito dal contagio, 400 fra carabinieri, polizia, Guardia di finanza ed esercito, pronti a blindare il territorio sull’esempio del Lodigiano, quando due settimane prima un’identica operazione era stata pianificata ed effettuata per isolare Codogno. Il Cts spinge per chiudere, il governatore lombardo Attilio Fontana firma una lettera con numerosi sindaci per accelerare l’operazione. Forze dell’ordine e militari vengono dislocati nelle caserme e negli alberghi della zona; attendono solo il via libera del ministero, l’unico che può impartirlo a garanzia dell’ordine pubblico. Non arriverà mai. Anzi tre giorni dopo la task force viene richiamata, uno dei focolai più devastanti del pianeta avvampa e il 9 marzo l’Italia è chiusa dalle Alpi a Lampedusa. Cominciano i tre mesi del terrore sanitario.Sui tre giorni del destino c’è da un anno e mezzo un inquietante silenzio istituzionale. E se ora il Consiglio di Stato ha riaperto il dossier che potrebbe portare a rendere pubblici gli atti di quella decisione (o non decisione), il merito è soprattutto dell’agenzia di stampa Agi che per prima, oltre un anno fa, ha chiesto l’accesso agli atti al ministero. I documenti furono negati appigliandosi alle clausole di esclusione: sicurezza e ordine pubblico, difesa e questioni militari, perseguimento di reati. Sembrava una decisione dilatoria, nel solco di una strategia che sia Conte, sia il ministro della Salute Roberto Speranza hanno più volte adottato per secretare di fatto scelte opinabili di contrasto alla pandemia. La vicenda somiglia a quelle, non meno nebulose, del famoso rapporto dell’Oms fatto scomparire perché critico sulla via «improvvisata, caotica, creativa» della gestione italiana del Covid e del piano pandemico mai aggiornato. Anche qui, dopo l’interrogatorio in procura a Bergamo, Goffredo Zaccardi si dimise da capo di gabinetto di Speranza. Ufficialmente per motivi personali, ma non sfugge il coinvolgimento nell’inchiesta per epidemia colposa dopo la denuncia del Comitato famigliari delle vittime.L’agenzia si è così rivolta al Tar del Lazio ottenendo una sentenza favorevole. I giudici amministrativi sottolinearono che «l’accesso civico è finalizzato a favorire forme di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche». E chiesero al ministero di aprire i cassetti entro un mese. Insomma, rendere pubbliche le carte non avrebbe creato alcun pericolo né di sicurezza, né di ordine pubblico e tantomeno di rispetto di fantomatici «segreti militari». Anche il procuratore di Bergamo, Antonio Chiappani, si era mosso in soccorso della trasparenza, assicurando che «sulla mancata zona rossa di Alzano e Nembro non ci sono atti coperti da segreto istruttorio». Al Viminale non restava che appellarsi al Consiglio di Stato nella speranza di bloccare la divulgazione. L’intervento è andato a buon fine e nel luglio scorso il Consiglio ha sospeso la decisione del Tar. Nuovo ricorso e nuova pronuncia, l’ultima: il ministero guidato da Luciana Lamorgese dovrà spiegare per quale ragione la collettività non può essere messa a conoscenza dei motivi di quella rinuncia a blindare la Bassa Bergamasca. Attenzione: non è un’imposizione a rendere pubblici gli atti ma solo a far sapere perché non è stato ancora fatto. La vicenda è controversa e con il senno del poi è sempre tutto facile. In quei giorni di marzo le istituzioni locali e nazionali erano dibattute fra la volontà di chiudere e le spinte a non farlo da parte di un tessuto politico e imprenditoriale di primo livello; fermare uno dei distretti di nanotecnologie più importanti d’Europa non sarebbe stato indolore come fermare le aziende agricole di Codogno. Senza contare che le ipotesi di un’epidemia meno feroce in caso di zona rossa immediata sono tutte da dimostrare e forse indimostrabili. Anche nel Comitato delle vittime «Noi denunceremo» non c’è pace: dopo furibondi litigi si è spaccato in due. Da una parte l’avvocatessa Consuelo Locati segue la linea della Procura, dall’altra il presidente Luca Fusco ha preso le distanze da quella che ritiene la frangia più giustizialista. Quest’ultimo viene accusato di voler scendere in politica «a fianco di chi abbiamo criticato». Sarebbe Giorgio Gori che da #Bergamononsiferma, un anno fa passò a costituirsi parte civile «come sindaco della città martire» nell’inchiesta sull’epidemia colposa. I documenti chiusi a chiave al ministero scottano per molti motivi.