2018-05-21
Gli investitori stranieri spesso superano le fondazioni. Vista la buona trimestrale, ci si aspetta una super cedola nel 2018.«Per fortuna che nelle banche italiane non si parla inglese». Fu Giulio Tremonti, all'esplodere della crisi dei mutui subprime, a fotografare con un certo sarcasmo la peculiarità del nostro sistema bancario non avvezzo alle diavolerie della turbo-finanza e per questo più al riparo dalla più grave crisi bancaria del secolo. L'ex ministro, con il senno di poi, si sbagliava. La crisi, non per i mutui spazzatura ma per le sofferenze sui prestiti, è arrivata eccome sulle nostre banche e l'inglese è ormai la lingua ufficiale. L'uscita dalla crisi finanziaria vede sempre più stranieri a contare nel capitale delle banche del Belpaese. Ormai sono i grandi fondi d'investimento di stampo anglosassone a pesare di più nel nostro sistema creditizio come rileva un recente studio di Fabi, il più grande sindacato dei bancari. Unicredit, la banca più globalizzata, vede il 70% delle sue azioni in mano a fondi di risparmio e fondi sovrani esteri. I primi due soci forti nel capitale sono gli arabi del fondo Aabar e gli americani di Capital research, entrambi con il 5% delle quote. A seguire con quote tra il 2-3% nomi del risparmio gestito come Dodge cox, Vanguard e Blackrock. Le fondazioni una volta dominus dell'istituto hanno ormai quote del tutto residuali. L'altra big italiana, Intesa Sanpaolo, vede la presenza stabile di Blackrock con il 5% stretto nell'abbraccio delle due fondazioni, la Compagnia di San Paolo che ha limato di recente la sua presenza dal 9 al 7,6% e Cariplo con il 4,7%. Dopo le due fondazioni storiche, nel capitale di Ca de Sass l'elenco dei soci è una lunga lista di fondi globali. E che dire di Banco Bpm? Qui gli stranieri spiccano, con il fondo californiano Capital research (presente in quasi tutte le banche), primo azionista con il 5%, seguito a ruota da Invesco, Norges bank e ancora Vanguard. In Creval dopo il maxi aumento di capitale i primi tre soci non sono italiani, mentre in Ubi Silchester ha superato dello 0,1% la fondazione Banca del Monte, al 4,9%, e Hsbc la tallona da vicino. Stime indicano che ormai il 60% del capitale delle banche quotate italiane sia in mano ai fondi d'investimento di tutto il mondo. Si apre così una sorta di Terza Repubblica delle banche. Dopo i lunghi decenni della foresta pietrificata e l'era delle fondazioni siamo al terzo passaggio quello della public company. Con le fondazioni in ritirata e l'apertura del capitale delle Popolari dopo la riforma, le banche italiane sono diventate terreno di caccia dei grandi gestori di patrimoni. Un segnale forte di ripresa di interesse del mercato. Del resto i risultati di bilancio e le performance borsistiche fino all'altro ieri, prima delle forti vendite per le apprensioni legate alla formazione del possibile governo Lega-M5, sono state più che soddisfacenti. Le banche dall'estate di due anni fa sono salite sul listino con rialzi potenti a doppia cifra e il 2017 ha visto la svolta nei bilanci con il ritorno alla profittabilità dopo anni di crisi. Numeri confermati anche nel primo trimestre del 2018 con i due big Intesa e Unicredit che hanno realizzato utili record tornando ai livelli di redditività del 2008. I dati elaborati dalla Fabi, sulle stime di consenso degli analisti, indicano un 2018 record con le prime dieci banche quotate che dovrebbero realizzare un monte utili per 10 miliardi. I grandi fondi d'investimento hanno quindi colto in anticipo questo trend e si sono posizionati per tempo sulle banche. Del resto più utili vorrà dire dividendi che tornano e che saranno appannaggio innanzitutto dei soci forti. Un pay out prudente del 30% sui profitti annui attesi a 10 miliardi vuol dire 3 miliardi in cedole di cui il 60%, ovvero 1,8 miliardi, finirà nelle tasche dei fondi azionisti. Il modello della public company anglosassone approda quindi anche nel mondo bancario. Ma cosa può rappresentare, e soprattutto è un modello che può funzionare dopo la lunga stagione (spesso fallimentare come insegnano i casi Mps e Carige) del regno delle fondazioni? Lando Maria Sileoni, segretario generale della Fabi, spiega: «Da un lato il nuovo interesse dei fondi è positivo, dice che le nostre banche sono diventate nuovamente attraenti per il mercato e segnala che la stagione della lunga crisi è dietro alle spalle. Attenzione però: i fondi cercano redditività a ogni costo trimestre su trimestre. Non lavorano in un'ottica di lungo periodo, attenti anche agli aspetti di equilibrio sul piano sociale dell'impresa banca. Se la redditività rallenta, chiedono subito tagli. La loro ossessione è avere efficienza e costi minimi. Perciò, se non sono bilanciati da investitori di lungo termine come una volta erano le fondazioni, i fondi potrebbero finire per limitare l'autonomia gestionale. Sarebbe un pericolo per la banca e un rischio per i lavoratori». Domande legate a un orizzonte del tutto nuovo e per certi versi inaspettato. C'è un grande convitato di pietra in questa nuova fase: la finanza italiana che sta alla finestra, mentre agli stranieri oggi sembra piacere molto il sistema creditizio di un Paese ad alto tasso di risparmio privato come l'Italia. Solo un paradosso?
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