2020-11-29
«I film italiani ripetono lo stesso copione»
Paolo Mereghetti (Facebook)
Il critico cinematografico che ha dato il nome a un dizionario Paolo Mereghetti: «Il nostro cinema non ha fatto nulla per conservare il pubblico. Roberto Benigni? Meglio come comico diretto da Bernardo Bertolucci che regista di sé stesso. È rimasto schiacciato dal suo dover essere».Il Mereghetti è uno e bino. Come Paolo, di mestiere fa il critico cinematografico, con laurea sul periodo hollywoodiano dell'ammirato Orson Welles («Era vittima dell'ostracismo della critica militante e ideologica post-sessantottina, che metteva il cosiddetto “messaggio" davanti a tutto; per me difenderlo significava salvaguardare una certa idea di cinema»), e ha 71 anni. Come dizionario dei film, di anni ne ha 27 ed è arrivato alla tredicesima edizione, targata «2021». Una summa teologica da quasi 9.000 pagine in tre volumi - di cui uno, di oltre 2.000 pagine, è riservato solo a indici, filmografie e titoli originali-, 33.000 schede dalle originarie 13.000, per cui i cinefili o i cinemaniaci vanno in sollucchero. Chiamando appunto l'opera Il Mereghetti, proprio come si usa con lo Zingarelli o la Treccani. Dica la verità: sentir chiamare Il Mereghetti il suo poderoso manufatto è una bella sviolinata all'ego.«Hanno iniziato gli utenti, soprattutto nelle redazioni dei giornali: “Passami il Mereghetti" non permetteva confusioni. L'editore pensò di sfruttare questa vezzo per ribattezzare così l'opera nel 2000, alla quarta edizione».Come le venne l'idea?«Alla fine degli anni Ottanta l'esplosione delle tv private aveva inondato l'etere di film, quasi sempre vecchi e brutti. Mi chiesi se non potesse tornare utile un'agile guida per scoprire se quei film, sconosciuti ai più, valessero la pena della visione. Alessandro Dalai, allora patron della rinata Baldini&Castoldi, approvò il progetto».Che esempi gli fece per convincerlo?«Avevo scritto quattro o cinque schede, sicuramente Amarcord e Apocalypse Now poi forse un film con Edwige Fenech, Quel gran pezzo dell'Ubalda...»....Tutta nuda e tutta calda. Ho presente: diciamo che la signora Fenech e la signora Gloria Guida hanno incentivato il mio estro creativo giovanile.«Dalai aveva l'occhio lungo, non era nato nell'editoria (era venuto via dall'Einaudi perché per i vecchi collaboratori della casa editrice pubblicare Anche le formiche nel loro piccolo si incazzano era stato uno scandalo inaccettabile). Ma nemmeno lui immaginava un tale successo: 60.ooo copie a colpi di ristampe, visto che la prima tiratura era stata di 5.000».Il metro di giudizio?«Sempre quello. Da uno a quattro stelle, più la palla vuota per le delusioni».Quanti film vede in una settimana?«Prima del Covid, una dozzina: sei o sette film in uscita (per lavoro seguo il mercato cinematografico, così sono sempre aggiornato sulle produzioni italiane e straniere), più cinque o sei in dvd o streaming. Ora i film in sala sono spariti causa Covid ma quelli a casa sono aumentati, così arrivo anche a quattordici: uno la sera, e almeno uno durante il giorno». Però, manco il compagno Stachanov. Il giudizio più tagliente? E quello più clemente?«Non inseguo la battuta caustica e tranchant. Penso anzi che il compito del critico sia quello di calibrare le parole e non mettersi mai al di sopra dell'opera. Il che non mi impedisce di usare il pugno di ferro, ma nel guanto di velluto del tono rispettoso. O di rivedere in meglio o in peggio le prime valutazioni. Alcuni miei collaboratori m'accusano di buonismo verso Aldo, Giovanni e Giacomo, a me però fanno ridere e comunque i loro film non hanno mai superato le due stelle e mezzo». Quando nasce la sua passione per il cinema?«Da giovanissimo, ogni domenica all'oratorio si poteva vedere un film con 50 lire: proiezioni non proprio perfette, con vecchie pellicole a 16mm che a volte saltavano, ma che fascino in quella sala scura. Mi ricordo benissimo per esempio King Kong del 1933, quando il bestione appare all'improvviso tra i binari della metropolitana sopraelevata. E poi al mare ogni sera si andava al cinema, a Sestri Levante ce n'erano sei, e io non mi perdevo una novità».Capitolo spinoso: il cinema italiano? Senza i record al botteghino di Checco Zalone, sarebbe alla canna del gas...«Il cinema italiano paga anni, se non decenni, di dissipazione in cui non ha fatto niente per conservare il pubblico e fermare la sua emorragia. Per questo il fenomeno Zalone ha fatto così effetto: nel deserto sembrava una sorgente inesauribile, senza i suoi incassi il cinema italiano sarebbe messo ancora peggio, ma se guardiamo al numero degli spettatori, La dolce vita, un cult-movie anche all'estero, o Ultimo tango a Parigi, opera indimenticabile, hanno fatto registrare molte più presenze». Perché siamo in mezzo al guado, o guano, a voler essere abrasivi?«Perché sono anni che i produttori insistono su solite trame e solite battute, e gli effetti inevitabilmente si sentono. Perché i film di Alessandro Siani hanno incassato sempre meno del precedente? E la domanda si potrebbe ripetere per Fabio De Luigi, Paola Cortellesi, Antonio Albanese. Perché replicano sempre lo stesso copione e il pubblico, che non è scemo, se ne accorge».Verdone ha appena compiuto 70 anni: qual è stato il suo contributo alla «commedia all'italiana»?«La commedia all'italiana finisce con il disperatamente ridanciano Amici miei e il funereo Un borghese piccolo piccolo, una vetta di problematicità mai più raggiunta. Ci sono molte commedie italiane, ma non all'italiana, denominazione che indica un preciso periodo e un gruppo ben definito di film, si pensi solo a Divorzio all'italiana: una farsa grottesca ma anche un affresco della realtà siciliana del tempo e un amaro pamphlet contro la barbarie del cosiddetto “delitto d'onore"». Niente di ciò in Verdone?«Verdone ha lavorato molti sui caratteri, sulle tipizzazioni dei suoi personaggi, che non a caso ha sempre interpretato personalmente, a volte più d'uno per film. Solo negli ultimi periodi si è avvicinato a una narrazione più corale, meno macchiettistica (come per altro aveva fatto nel film che considero il suo migliore: Compagni di scuola) che però non si possono chiamare commedia all'italiana perché hanno perso irrimediabilmente la sintonia con un'Italia che si rifletteva in quei film e che proprio dalla società sapeva trarre la sua linfa più autentica, e non solo qualche spunto satirico».«Ve lo meritate Alberto Sordi» adesso le urlerebbe contro Nanni Moretti.«Certo. Come ci siamo meritati I soliti ignoti, La grande guerra, Il sorpasso, I mostri. Battuta ingenerosissima. Intendiamoci: Sordi ha fatto anche cose tutt'altro che eccelse. Ma credo Moretti lo avesse preso a simbolo di una certa concezione di cinema per cui lui provava ripulsa». Da qui lo scontro in tv con Mario Monicelli, moderatore Alberto Arbasino.«Monicelli e gli altri registi di quella stessa scuola rappresentavano al meglio l'Italia e gli italiani per quello che erano, con pregi e difetti, senza giudicarli. Moretti soprattutto all'inizio è stato un regista “generazionale" che in fondo si rivolgeva a chi già la pensava come lui».All'epoca della prima edizione, 1993, eravamo reduci da una battaglia contro gli spot nei film, ricorderà la campagna veltroniana «non si spezza una storia, non s'interrompe un'emozione».«Allora parve una campagna sacrosanta, ma il mondo andava da un'altra parte: abbiamo dovuto adeguarci tutti. Ma ovviamente io continuo a preferire la visione senza interruzioni, e non penso di essere l'unico».Il Veltroni cineasta com'è trattato dal Mereghetti?«Come regista di documentari, in maniera altalenante (quello su Berlinguer ha due stelle e mezzo, Fabrizio de André due stelle). Come regista di film è rimandato a settembre».Vogliamo dedicare un flash ai tre premi Oscar nazionali viventi? Peppino Tornatore.«Dà il suo meglio quando fa parlare le sue emozioni, il cuore. Baaria per esempio mi è piaciuto tantissimo. Quando invece insegue o segue troppo la testa, costruendo impianti “cerebrali", è meno efficace».Roberto Be nigni.«Meglio come comico diretto da Giuseppe Bertolucci che regista di sé stesso. La vita è bella l'ho difeso, un film riuscito, via via è però rimasto schiacciato dal suo dover essere, avvitandosi su se stesso. Mi chiedo: perché invece di rimanere a Collodi, non ha ancora pensato di interpretare Dante sullo schermo?».Paolo Sorrentino.«Ha un talento incredibile che talvolta dovrebbe controllare, addomesticandolo, per evitare la deriva estetizzante. Si compiace della propria bravura, solo che mentre Il Divo è un non plus ultra, e infatti prende 4 stelle, Loro è invece ridondante e “sbilenco"».Mai avuto problemi con attori o registi o produttori che non hanno preso bene un suo responso? Querele? Insulti? O peggio? Marco Müller, direttore artistico della Mostra di Venezia, nel 2011 l'accusò lei e Natalia Aspesi di giudicare o stroncare i film, soprattutto quelli «sperimentali», con atteggiamento snob. «Problemi e querele no, qualche insulto sì ma penso sia nel gioco delle parti: gli artisti devono avere un narcisismo molto sviluppato per mettersi in gioco ogni volta, inevitabile che non amino le bocciature. Ma ci sono anche quelli che mi stimano nonostante la stroncatura. Quanto a Müller semmai sono stato io a querelare lui: aveva dichiarato a Variety che ero uscito da una proiezione prima che finisse e avevo fatto egualmente la recensione. Ha perso in prima istanza, in appello e in cassazione, con condanna al pagamento di un'ammenda, cosa che sta facendo».Per chiudere. Premesso che la battuta colpiva il conformismo di chi, volendo apparire intelligente, impegnato e democratico, ti costringeva a vedere improbabili film vietnamiti o del Bourkina Faso, sveliamo l'arcano: La corazzata Potëmkin è una cagata pazzesca?«Nooooo. È un capolavoro as-so-lu-to. Ma il ragionier Fantozzi Ugo rimane comunque la più originale maschera comica italica di fine Novecento».
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)