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2018-07-07
«I figli delle coppie gay sono felici». Ma lo studio se lo sono fatti da soli
Ansa
Boom! «I figli delle coppie gay hanno problemi psicologici? Studio italiano sfata i pregiudizi». È il titolo con cui fanpage.it dà conto di uno studio pubblicato sul Journal of developmental & behavioral pediatrics.
Il titolo non è iperbolico, sono gli stessi autori ad affermare che i risultati dello studio «suggeriscono che i bambini con genitori dello stesso sesso stanno bene sia in termini di adattamento psicologico che di comportamento sociale» e ad aggiungere che lo studio «mette in guardia i responsabili politici dal fare ipotesi sulla base dell'orientamento sessuale su persone che sono più adatte di altre a essere genitori o su persone a cui dovrebbe o non dovrebbe essere negato l'accesso a trattamenti di fertilità». Si tratta dunque di uno studio che dovrebbe secondo gli autori essere in grado persino di orientare il legislatore. Riboom!
Per sapere come uno studio giunge a determinati risultati la prima cosa che fa un qualsiasi ricercatore scientifico è andare a leggere la sezione dei materiali e metodi. Si tratta di andare a vedere le fondamenta e le pietre di una costruzione scientifica per poi capirne la solidità. È esattamente quello che ho fatto e subito è apparso chiaro che lo studio in questione, secondo cui i bambini concepiti mediante fecondazione in vitro ed eventualmente utero in affitto da adulti che vivono con una persona dello stesso sesso stanno meglio di quelli concepiti naturalmente, non si differenzia da una paccata di pubblicazioni accumulatesi negli anni dal valore scientifico modestissimo (per essere generosi) i cui risultati non giustificano affatto le conclusioni degli autori. Lo studio in questione ha confrontato la condizione di 195 bambini di età compresa tra 3 ed 11 anni concepiti in modo naturale con quella di 125 coetanei con madre lesbica e di 70 con padre omosessuale. Ma questi 390 bambini come sono stati individuati?
Lo scrivono gli autori proprio nei materiali e metodi: il 72% delle madri lesbiche e il 65,7% dei padri gay è stato reclutato attraverso la mailing list dell'Associazione italiana famiglie srcobaleno, che ha inviato ai membri il link al sondaggio (insieme all'invito a partecipare allo studio); i rimanenti genitori erano reclutati attraverso avvisi online posti su gruppi Facebook di genitori omosessuali. Cosa deriva da questo? Che il campione studiato non è randomizzato, ma un campione detto «di convenienza», cioè un campione che conviene ai ricercatori (economicamente, organizzativamente, ma non si può escludere ideologicamente).
Questo tipo di «arruolamento» è ciò che c'è di più lontano da consentire di estendere il risultato ottenuto all'intera popolazione. Voglio farvi un esempio che rende tutto più chiaro. Il censimento Usa ci dice che la popolazione di colore è pari al 13,4% dei residenti. La popolazione di colore in Svezia corrisponde all'1,1%. Scommettiamo che riesco a dimostrare che in Svezia ci sono più persone di colore che in America? Basta che rivolga la domanda «fra la tua cerchia di amici ci sono persone di colore?» alla mailing list degli iscritti al Ku klux klan in Usa, sulla bacheca dell'Associazione di amicizia Burkina Faso-Svezia e su quella gli dell'Associazione di amicizia Svezia-Etiopia è il gioco è fatto. Tornando allo studio in questione: secondo voi quante sono le probabilità che gli adulti omosessuali che sono sulla mailing list di una nota organizzazione omosessuale partecipino ad uno studio del genere se hanno problemi coi bambini? E quante sono le probabilità che diano conto in maniera oggettiva della situazione dei minori?
Perché è importante sapere che i ricercatori, quantunque abbiano usato strumenti standardizzati, non hanno verificato di persona la situazione dei bambini, ma hanno elaborato un questionario somministrato agli adulti. Il sociologo Donald Sullins ha dimostrato in uno studio del 2015 l'enorme distorsione dei risultati somministrando proprio uno dei questionari usati dagli autori, lo Strengths and difficulties questionnaire (Sdq), a un campione non randomizzato. L'anno dopo sulla prestigiosa rivista Plos one, Sharmila Vaz, dell'Università di Perth, pubblicava dati che dimostravano che «usare l'Sdq solo coi genitori o con gli insegnanti non è raccomandato». Ma c'è di più e di peggio. Gli autori scrivono di avere domandato agli intervistati l'orientamento sessuale, tuttavia né in tabella, né nel testo è riportato l'orientamento sessuale di coloro che hanno concepito il figlio con un rapporto naturale. Se confermato, ne deriverebbe che all'interno del campione assunto come controllo potrebbero essere incluse persone bisessuali, o persone omosessuali che non abbiano fatto «coming out», rendendo il campione di controllo invalido.
Tutto può essere, ma quante persone eterosessuali conoscete che passano il tempo a leggere i post sulle pagine Facebook dei genitori gay in attesa di partecipare agli studi sui figli dei gay e delle lesbiche? E anche se fossero tutti eterosessuali non è poi così difficile ipotizzare nell'interpretazione dei risultati che un numero considerevole di questi appartenga alla categoria dei simpatizzanti arcobaleno che gli Lgbt identificano col termine «alleati» introducendo nello studio una distorsione fatale. Queste considerazioni sono ben presenti agli autori che in effetti nella discussione hanno messo le mani avanti rispetto alla generalizzazione dei risultati ricordando come il loro studio è soggetto alla distorsione della desiderabilità sociale delle risposte e come le misurazioni della condizione dei bambini sia stata indiretta. Risulta dunque incomprensibile come risultati così poco fruibili per considerazioni generali, dovrebbero essere in grado di impedire al legislatore di pensare che crescere con genitori di sesso opposto, a parità di condizioni, sia una risorsa capace di offrire una ricchezza impossibile da raggiungere in modelli monosessuali.
D'altra parte il lavoro vede per autori un gruppo di ricercatori dell'Università della Sapienza che non fa mistero delle proprie convinzioni circa la totale sovrapposizione della crescita con adulti di sesso opposto o dello stesso sesso. Tesi legittima, ma che va contro tutte le acquisizioni della scienza in termini di sviluppo neurobiologico e psicologia dello sviluppo e che anche questa loro fatica è ben lungi dal dimostrare. Se dunque c'è una raccomandazione da fare ai politici, è quella di dotarsi di consulenti competenti e obiettivi prima di dare rilevanza a studi metodologicamente inadeguati a dimostrare ciò che vantano.
Renzi Puccetti
Prima Napoli, ora Pistoia Il concetto di famiglia lo riscrivono i magistrati
Sì agli atti di nascita dei figli di «due madri». È quanto stabilito quasi in contemporanea da due tribunali, quelli di Pistoia e Bologna, col primo che giovedì - seguito a ruota da un pronunciamento «gemello» del secondo - ha sancito per la prima volta l'applicabilità degli articoli 8 e 9 della legge 40 sulla fecondazione extracorporea, affermando che la responsabilità genitoriale della madre non biologica sorge per effetto della prestazione del consenso alla procreazione assistita eterologa. Una decisione cui la magistratura pistoiese è pervenuta in seguito al rifiuto dell'Amministrazione di Montale, comune toscano di 10.000 anime, di riconoscere il doppio cognome materno ad un bambino nato a Prato a seguito di un intervento di procreazione medicalmente assistita cui si erano sottoposte, in Spagna, due donne del paese unite civilmente.
Un rifiuto, quello del comune di Montale, giudicato dunque illegittimo. Questo perché, secondo il tribunale di Pistoia, «il diritto alla genitorialità, e ancor più alla bigenitorialità, è un diritto prima di tutto del minore ad instaurare relazioni affettive stabili con entrambi i genitori, sia quando lo stesso sia stato concepito biologicamente che a mezzo delle tecniche mediche di cui alla Pma», ragion per cui «il figlio voluto dalla coppia omosessuale attraverso il ricorso alla Pma deve trovare tutela anche sotto il profilo giuridico».
Ne consegue come, sempre secondo il giudice, vada «ormai abbandonato un concetto di filiazione basato sul solo dato biologico e genetico, aprendo invece l'orizzonte a criteri di attribuzione dello status filiationis che poggiano sulla manifestazione del consenso così come disciplinata dall'art. 6 L. 40/2004». Articolo, questo, che per l'appunto disciplina il consenso informato nelle tecniche di procreazione medicalmente assistita.
Il tribunale ha altresì affermato come «un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 8 L. 40/2004» porti a ritenere «che i bimbi nati in Italia a seguito di tecniche di PMA eseguite all'estero sono figli della coppia di donne che hanno prestato il consenso manifestando inequivocabilmente di voler assumere la responsabilità genitoriale sul nascituro quale frutto di un progetto di vita comune con il partner e di realizzazione di una famiglia». Una tesi per suffragare la quale si è ricordato che «in questo solco si collocano anche numerose prese di posizione da parte di ufficiali di stato civile che stanno registrando la nascita in Italia di bambini di coppie di donne». In effetti, a Torino, Milano e Sesto Fiorentino registrazioni di atti di nascita di bambini senza padre ce ne sono state.
Come però questo o il fatto che due donne ricorse alla provetta fossero ben convinte di «voler assumere la responsabilità genitoriale» possano arrivare - con tutto il rispetto per le «interpretazioni costituzionalmente orientate», s'intende - a legittimare l'idea, sempre smentita dalla realtà, che esistano bambini non concepiti grazie ad un padre e una madre, rimane un mistero. Che tutti abbiano una mamma e un papà, infatti, non è fissazione da bigotti né da giuristi fuori dal tempo, ma una constatazione che solo al pensiero di dover riprendere, direbbe il cardinale Carlo Caffarra, «viene da piangere». Eppure a questo siamo.
Pensieri che manco sfiorano, figuriamoci, il fronte arcobaleno, nel quale le sentenze di Pistoia di Bologna hanno suscitato gran entusiasmo. Di «giornata storica» ha per esempio parlato Marilena Grassadonia, presidente di Famiglie Arcobaleno, la quale, dopo la sentenza della sentenza della Corte d'appello di Napoli che aveva accolto la richiesta di stepchild adoption avanzata da due madri - di cui ha riferito ieri La Verità -, intravede nel decreto del tribunale di Pistoia la definitiva conferma del fatto che l'azione di quei sindaci e ufficiali di stato civile che trascrivono atti di nascita di figli di due madri o di due papà sia «pienamente fondata». Il decreto della magistratura toscana ha dato invece lo spunto a Sebastiano Secci, presidente del circolo Mario Mieli, per rivolgere un appello al sindaco di Roma.
Virgina Raggi a suo dire sarebbe infatti rea «di non voler prendere una decisione in tema, condannando tanti bambini e tante famiglie a non avere riconoscimento», con un atteggiamento che sarebbe di «complicità con quelle forze politiche retrograde che vorrebbero le nostre famiglie invisibili». In effetti, su questo versante la linea del Campidoglio è risultata finora cauta. Se ne è avuta prova con la risposta data al senatore leghista Simone Pillon, che il 9 giugno scorso aveva inoltrato al Comune di Roma una richiesta di accesso agli atti sulla trascrizione dell'atto di nascita estero di una bambina figlia di «due padri», i quali l'hanno ottenuta tramite la pratica dell'utero in affitto.
Ebbene, come questo giornale ha raccontato due giorni fa, a Pillon il Campidoglio ha detto chiaramente che, nell'effettuare quella trascrizione, «l'ufficiale di stato civile ha agito in totale autonomia, non in linea con il vigente quadro normativo», un fatto, è stato aggiunto, già «attenzionato alla prefettura di Roma». Non si può quindi dire che, sulle trascrizioni e sugli atti di nascita arcobaleno, la Raggi abbia scelto di metterci la faccia. Non va inoltre dimenticato quanto accaduto la settimana scorsa, con la Procura di Roma scesa in campo con un ricorso al tribunale per contestare proprio le registrazioni automatiche, senza cioè alcuna istruttoria, di atti di nascita e adozione di bambini figli di due genitori dello stesso sesso.
Un'iniziativa di peso, anche in vista della sentenza che in autunno, sul tema, la Cassazione emetterà a sezioni unite. Nonostante le ultime perle della magistratura creativa, che oltre al legislatore vorrebbe sostituirsi pure a madre natura, non è insomma detta l'ultima parola. Può cioè ancora darsi che, a spuntarla, sia il buon senso di quanti, inverando la nota profezia di Chesterton, si stanno battendo «per testimoniare che due più due fa quattro». E quindi che siamo tutti figli di un padre e di una madre.
Giuliano Guzzo
Continua a leggereRiduci
L'immancabile ricerca che accredita la bellezza dei modelli «alternativi» a quello tradizionale e naturale non regge a un serio esame scientifico Il campione usato, infatti, è già orientato.Si moltiplicano le sentenze che sdoganano modelli di genitorialità non previsti dalla biologia (e dalle nostre leggi). Anche se qualche istituzione resiste ancora.Lo speciale contiene due articoliBoom! «I figli delle coppie gay hanno problemi psicologici? Studio italiano sfata i pregiudizi». È il titolo con cui fanpage.it dà conto di uno studio pubblicato sul Journal of developmental & behavioral pediatrics. Il titolo non è iperbolico, sono gli stessi autori ad affermare che i risultati dello studio «suggeriscono che i bambini con genitori dello stesso sesso stanno bene sia in termini di adattamento psicologico che di comportamento sociale» e ad aggiungere che lo studio «mette in guardia i responsabili politici dal fare ipotesi sulla base dell'orientamento sessuale su persone che sono più adatte di altre a essere genitori o su persone a cui dovrebbe o non dovrebbe essere negato l'accesso a trattamenti di fertilità». Si tratta dunque di uno studio che dovrebbe secondo gli autori essere in grado persino di orientare il legislatore. Riboom! Per sapere come uno studio giunge a determinati risultati la prima cosa che fa un qualsiasi ricercatore scientifico è andare a leggere la sezione dei materiali e metodi. Si tratta di andare a vedere le fondamenta e le pietre di una costruzione scientifica per poi capirne la solidità. È esattamente quello che ho fatto e subito è apparso chiaro che lo studio in questione, secondo cui i bambini concepiti mediante fecondazione in vitro ed eventualmente utero in affitto da adulti che vivono con una persona dello stesso sesso stanno meglio di quelli concepiti naturalmente, non si differenzia da una paccata di pubblicazioni accumulatesi negli anni dal valore scientifico modestissimo (per essere generosi) i cui risultati non giustificano affatto le conclusioni degli autori. Lo studio in questione ha confrontato la condizione di 195 bambini di età compresa tra 3 ed 11 anni concepiti in modo naturale con quella di 125 coetanei con madre lesbica e di 70 con padre omosessuale. Ma questi 390 bambini come sono stati individuati? Lo scrivono gli autori proprio nei materiali e metodi: il 72% delle madri lesbiche e il 65,7% dei padri gay è stato reclutato attraverso la mailing list dell'Associazione italiana famiglie srcobaleno, che ha inviato ai membri il link al sondaggio (insieme all'invito a partecipare allo studio); i rimanenti genitori erano reclutati attraverso avvisi online posti su gruppi Facebook di genitori omosessuali. Cosa deriva da questo? Che il campione studiato non è randomizzato, ma un campione detto «di convenienza», cioè un campione che conviene ai ricercatori (economicamente, organizzativamente, ma non si può escludere ideologicamente). Questo tipo di «arruolamento» è ciò che c'è di più lontano da consentire di estendere il risultato ottenuto all'intera popolazione. Voglio farvi un esempio che rende tutto più chiaro. Il censimento Usa ci dice che la popolazione di colore è pari al 13,4% dei residenti. La popolazione di colore in Svezia corrisponde all'1,1%. Scommettiamo che riesco a dimostrare che in Svezia ci sono più persone di colore che in America? Basta che rivolga la domanda «fra la tua cerchia di amici ci sono persone di colore?» alla mailing list degli iscritti al Ku klux klan in Usa, sulla bacheca dell'Associazione di amicizia Burkina Faso-Svezia e su quella gli dell'Associazione di amicizia Svezia-Etiopia è il gioco è fatto. Tornando allo studio in questione: secondo voi quante sono le probabilità che gli adulti omosessuali che sono sulla mailing list di una nota organizzazione omosessuale partecipino ad uno studio del genere se hanno problemi coi bambini? E quante sono le probabilità che diano conto in maniera oggettiva della situazione dei minori? Perché è importante sapere che i ricercatori, quantunque abbiano usato strumenti standardizzati, non hanno verificato di persona la situazione dei bambini, ma hanno elaborato un questionario somministrato agli adulti. Il sociologo Donald Sullins ha dimostrato in uno studio del 2015 l'enorme distorsione dei risultati somministrando proprio uno dei questionari usati dagli autori, lo Strengths and difficulties questionnaire (Sdq), a un campione non randomizzato. L'anno dopo sulla prestigiosa rivista Plos one, Sharmila Vaz, dell'Università di Perth, pubblicava dati che dimostravano che «usare l'Sdq solo coi genitori o con gli insegnanti non è raccomandato». Ma c'è di più e di peggio. Gli autori scrivono di avere domandato agli intervistati l'orientamento sessuale, tuttavia né in tabella, né nel testo è riportato l'orientamento sessuale di coloro che hanno concepito il figlio con un rapporto naturale. Se confermato, ne deriverebbe che all'interno del campione assunto come controllo potrebbero essere incluse persone bisessuali, o persone omosessuali che non abbiano fatto «coming out», rendendo il campione di controllo invalido. Tutto può essere, ma quante persone eterosessuali conoscete che passano il tempo a leggere i post sulle pagine Facebook dei genitori gay in attesa di partecipare agli studi sui figli dei gay e delle lesbiche? E anche se fossero tutti eterosessuali non è poi così difficile ipotizzare nell'interpretazione dei risultati che un numero considerevole di questi appartenga alla categoria dei simpatizzanti arcobaleno che gli Lgbt identificano col termine «alleati» introducendo nello studio una distorsione fatale. Queste considerazioni sono ben presenti agli autori che in effetti nella discussione hanno messo le mani avanti rispetto alla generalizzazione dei risultati ricordando come il loro studio è soggetto alla distorsione della desiderabilità sociale delle risposte e come le misurazioni della condizione dei bambini sia stata indiretta. Risulta dunque incomprensibile come risultati così poco fruibili per considerazioni generali, dovrebbero essere in grado di impedire al legislatore di pensare che crescere con genitori di sesso opposto, a parità di condizioni, sia una risorsa capace di offrire una ricchezza impossibile da raggiungere in modelli monosessuali. D'altra parte il lavoro vede per autori un gruppo di ricercatori dell'Università della Sapienza che non fa mistero delle proprie convinzioni circa la totale sovrapposizione della crescita con adulti di sesso opposto o dello stesso sesso. Tesi legittima, ma che va contro tutte le acquisizioni della scienza in termini di sviluppo neurobiologico e psicologia dello sviluppo e che anche questa loro fatica è ben lungi dal dimostrare. Se dunque c'è una raccomandazione da fare ai politici, è quella di dotarsi di consulenti competenti e obiettivi prima di dare rilevanza a studi metodologicamente inadeguati a dimostrare ciò che vantano.Renzi Puccetti<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/i-figli-delle-coppie-gay-sono-felici-ma-lo-studio-se-lo-sono-fatti-da-soli-2584370753.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="prima-napoli-ora-pistoia-il-concetto-di-famiglia-lo-riscrivono-i-magistrati" data-post-id="2584370753" data-published-at="1765160419" data-use-pagination="False"> Prima Napoli, ora Pistoia Il concetto di famiglia lo riscrivono i magistrati Sì agli atti di nascita dei figli di «due madri». È quanto stabilito quasi in contemporanea da due tribunali, quelli di Pistoia e Bologna, col primo che giovedì - seguito a ruota da un pronunciamento «gemello» del secondo - ha sancito per la prima volta l'applicabilità degli articoli 8 e 9 della legge 40 sulla fecondazione extracorporea, affermando che la responsabilità genitoriale della madre non biologica sorge per effetto della prestazione del consenso alla procreazione assistita eterologa. Una decisione cui la magistratura pistoiese è pervenuta in seguito al rifiuto dell'Amministrazione di Montale, comune toscano di 10.000 anime, di riconoscere il doppio cognome materno ad un bambino nato a Prato a seguito di un intervento di procreazione medicalmente assistita cui si erano sottoposte, in Spagna, due donne del paese unite civilmente. Un rifiuto, quello del comune di Montale, giudicato dunque illegittimo. Questo perché, secondo il tribunale di Pistoia, «il diritto alla genitorialità, e ancor più alla bigenitorialità, è un diritto prima di tutto del minore ad instaurare relazioni affettive stabili con entrambi i genitori, sia quando lo stesso sia stato concepito biologicamente che a mezzo delle tecniche mediche di cui alla Pma», ragion per cui «il figlio voluto dalla coppia omosessuale attraverso il ricorso alla Pma deve trovare tutela anche sotto il profilo giuridico». Ne consegue come, sempre secondo il giudice, vada «ormai abbandonato un concetto di filiazione basato sul solo dato biologico e genetico, aprendo invece l'orizzonte a criteri di attribuzione dello status filiationis che poggiano sulla manifestazione del consenso così come disciplinata dall'art. 6 L. 40/2004». Articolo, questo, che per l'appunto disciplina il consenso informato nelle tecniche di procreazione medicalmente assistita. Il tribunale ha altresì affermato come «un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 8 L. 40/2004» porti a ritenere «che i bimbi nati in Italia a seguito di tecniche di PMA eseguite all'estero sono figli della coppia di donne che hanno prestato il consenso manifestando inequivocabilmente di voler assumere la responsabilità genitoriale sul nascituro quale frutto di un progetto di vita comune con il partner e di realizzazione di una famiglia». Una tesi per suffragare la quale si è ricordato che «in questo solco si collocano anche numerose prese di posizione da parte di ufficiali di stato civile che stanno registrando la nascita in Italia di bambini di coppie di donne». In effetti, a Torino, Milano e Sesto Fiorentino registrazioni di atti di nascita di bambini senza padre ce ne sono state. Come però questo o il fatto che due donne ricorse alla provetta fossero ben convinte di «voler assumere la responsabilità genitoriale» possano arrivare - con tutto il rispetto per le «interpretazioni costituzionalmente orientate», s'intende - a legittimare l'idea, sempre smentita dalla realtà, che esistano bambini non concepiti grazie ad un padre e una madre, rimane un mistero. Che tutti abbiano una mamma e un papà, infatti, non è fissazione da bigotti né da giuristi fuori dal tempo, ma una constatazione che solo al pensiero di dover riprendere, direbbe il cardinale Carlo Caffarra, «viene da piangere». Eppure a questo siamo. Pensieri che manco sfiorano, figuriamoci, il fronte arcobaleno, nel quale le sentenze di Pistoia di Bologna hanno suscitato gran entusiasmo. Di «giornata storica» ha per esempio parlato Marilena Grassadonia, presidente di Famiglie Arcobaleno, la quale, dopo la sentenza della sentenza della Corte d'appello di Napoli che aveva accolto la richiesta di stepchild adoption avanzata da due madri - di cui ha riferito ieri La Verità -, intravede nel decreto del tribunale di Pistoia la definitiva conferma del fatto che l'azione di quei sindaci e ufficiali di stato civile che trascrivono atti di nascita di figli di due madri o di due papà sia «pienamente fondata». Il decreto della magistratura toscana ha dato invece lo spunto a Sebastiano Secci, presidente del circolo Mario Mieli, per rivolgere un appello al sindaco di Roma. Virgina Raggi a suo dire sarebbe infatti rea «di non voler prendere una decisione in tema, condannando tanti bambini e tante famiglie a non avere riconoscimento», con un atteggiamento che sarebbe di «complicità con quelle forze politiche retrograde che vorrebbero le nostre famiglie invisibili». In effetti, su questo versante la linea del Campidoglio è risultata finora cauta. Se ne è avuta prova con la risposta data al senatore leghista Simone Pillon, che il 9 giugno scorso aveva inoltrato al Comune di Roma una richiesta di accesso agli atti sulla trascrizione dell'atto di nascita estero di una bambina figlia di «due padri», i quali l'hanno ottenuta tramite la pratica dell'utero in affitto. Ebbene, come questo giornale ha raccontato due giorni fa, a Pillon il Campidoglio ha detto chiaramente che, nell'effettuare quella trascrizione, «l'ufficiale di stato civile ha agito in totale autonomia, non in linea con il vigente quadro normativo», un fatto, è stato aggiunto, già «attenzionato alla prefettura di Roma». Non si può quindi dire che, sulle trascrizioni e sugli atti di nascita arcobaleno, la Raggi abbia scelto di metterci la faccia. Non va inoltre dimenticato quanto accaduto la settimana scorsa, con la Procura di Roma scesa in campo con un ricorso al tribunale per contestare proprio le registrazioni automatiche, senza cioè alcuna istruttoria, di atti di nascita e adozione di bambini figli di due genitori dello stesso sesso. Un'iniziativa di peso, anche in vista della sentenza che in autunno, sul tema, la Cassazione emetterà a sezioni unite. Nonostante le ultime perle della magistratura creativa, che oltre al legislatore vorrebbe sostituirsi pure a madre natura, non è insomma detta l'ultima parola. Può cioè ancora darsi che, a spuntarla, sia il buon senso di quanti, inverando la nota profezia di Chesterton, si stanno battendo «per testimoniare che due più due fa quattro». E quindi che siamo tutti figli di un padre e di una madre. Giuliano Guzzo
Monterosa ski
Dopo un’estate da record, con presenze in crescita del 2% e incassi saliti del 3%, il sipario si alza ora su Monterosa Ski. In scena uno dei comprensori più autentici dell’arco alpino, da vivere fino al 19 aprile (neve permettendo) con e senza gli sci ai piedi, tra discese impeccabili, panorami che tolgono il fiato e quella calda accoglienza che da sempre distingue questo spicchio di territorio che si muove tra Valle d’Aosta e Piemonte, abbracciando le valli di Ayas e Gressoney e la Valsesia.
Protagoniste assolute dell’inverno al via, le novità.
A Gressoney-Saint-Jean il baby snow park Sonne è fresco di rinnovo e pronto ad accogliere i piccoli sciatori con aree gioco più ampie, un nuovo tapis roulant per prolungare il divertimento delle discese su sci, slittini e gommoni, e una serie di percorsi con gonfiabili a tema Walser per celebrare le tradizioni della valle. Poco più in alto, a Gressoney-La-Trinité, vede la luce la nuova pista di slittino Murmeltier, progetto ambizioso che ruota attorno a 550 metri di discesa serviti dalla seggiovia Moos, illuminazione notturna, innevamento garantito e la possibilità di scivolare anche sotto le stelle, ogni mercoledì e sabato sera.
Da questa stagione, poi, entra pienamente in funzione la tecnologia bluetooth low energy, che consente di usare lo skipass digitale dallo smartphone, senza passare dalla biglietteria. Basta tenerlo in tasca per accedere agli impianti, riducendo così plastica e attese e promuovendo una montagna più smart e sostenibile, dove la tecnologia è al servizio dell’esperienza.
Sul fronte di costi e promozioni, fioccano agevolazioni e formule pensate per andare incontro a tutte le tasche e per far fronte alle imprevedibili condizioni meteorologiche. A partire da sci gratuito per bambini sotto gli otto anni, a sconti del 30 e del 20 per cento rispettivamente per i ragazzi tra gli 8 e i 16 anni e i giovani tra i 16 e i 24 anni , per arrivare a voucher multiuso per i rimborsi skipass in caso di chiusura degli impianti . «Siamo più che soddisfatti di poter ribadire la solidità di una destinazione che sta affrontando le sfide di questi anni con lungimiranza. Su tutte, l’imprevedibilità delle condizioni meteo che ci condiziona in modo determinante e ci spinge a migliorare le performance delle infrastrutture e delle modalità di rimborso, come nel caso dei voucher», dice Giorgio Munari, amministratore delegato di Monterosa Spa.
Introdotti con successo l’inverno scorso, i voucher permettono ai titolari di skipass giornalieri o plurigiornalieri, in caso di chiusure parziali o totali del comprensorio, di avere crediti spendibili in acquisti non solo di nuovi skipass e biglietti per impianti, ma anche in attività e shopping presso partner d’eccellenza, che vanno dal Forte di Bard alle Terme di Champoluc, fino all’avveniristica Skyway Monte Bianco, passando per ristoranti di charme e botteghe artigiane.
Altra grande novità della stagione, questa volta dal respiro internazionale, l’ingresso di Monterosa Ski nel circuito Ikon pass, piattaforma americana che raccoglie oltre 60 destinazioni sciistiche nel mondo.
«Non si tratta solo di un’inclusione simbolica», commenta Munari, «ma di entrare concretamente nei radar di sciatori di Stati Uniti, Canada, Giappone o Australia che, già abituati a muoversi tra mete sciistiche di fama mondiale, avranno ora la possibilità di scoprire anche il nostro comprensorio». Comprensorio che ha tanto da offrire.
Sotto lo sguardo dei maestosi 4.000 del Rosa, sfilano discese sfidanti anche per i più esperti sul carosello principale Monterosa Ski 3 Valli - 29 impianti per 52 piste fino a 2.971 metri di quota - e percorsi più soft, adatti a principianti e bambini, nella ski area satellite di Antagnod, Brusson, Gressoney-Saint-Jean, Champorcher e Alpe di Mera; fuoripista da urlo nel regno imbiancato di Monterosa freeride paradise e tracciati di sci alpinismo d’eccezione - Monterosa Ski è il primo comprensorio di sci alpinismo in Italia. Il tutto accompagnato da panorami e paesaggi strepitosi e da un’accoglienza made in Italy che conquista a colpi di stile e atmosfere genuine. Info: www.monterosaski.eu.
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Dal foyer della Prima domina il nero scelto da vip e istituzioni. Tra abiti couture, la presenza di Pierfrancesco Favino, Mahmood, Achille Lauro e Barbara Berlusconi - appena nominata nel cda - spiccano le assenze ufficiali. Record d’incassi per Šostakovič.
Non c’è dubbio che un’opera dirompente e sensuale, che vede tradimenti e assassinii, censurata per la sua audacia e celebrata per la sua altissima qualità musicale come Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Dmítrij Šostakóvič, abbia influenzato la scelta di stile delle signore presenti.
«Quando preparo gli abiti delle mie clienti per la Prima della Scala, tengo sempre conto del tema dell’opera», spiega Lella Curiel, sessanta prime al suo attivo e stilista per antonomasia della serata più importante del Piermarini. Così ogni volta la Prima diventa un grande esperimento sociale, di eleganza ma anche di mise inopportune. Da sempre, la platea ingioiellata e in smoking, si divide tra chi è qui per la musica e chi per mostrarsi mentre finge di essere qui intendendosene. Sul piazzale, lo show comincia ben prima del do di petto. Le signore scendono dalle auto con la stessa espressione di chi affronta un red carpet improvvisato: un occhio al gradino e uno ai fotografi. Sono tiratissime, ma anche i loro accompagnatori non sono da meno, alcuni dei quali con abiti talmente aderenti che sembrano più un atto di fede che un capo sartoriale.
È il festival del «chi c’è», «chi manca» ma tutti partecipano con disinvoltura allo spettacolo parallelo: quello dei saluti affettuosi, che durano esattamente il tempo di contare quanti carati ha l’altro. Mancano sì il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio, il presidente del Senato e il presidente della Camera ma gli aficionados della Prima, e anche tanti altri, ci sono tutti visto che è stato raggiunto il record di biglietti venduti, quasi 3 milioni di euro d’incasso.
Sul palco d'onore, con il sindaco Beppe Sala e Chiara Bazoli (in nero Armani rischiarato da un corpetto in paillettes), il ministro della Cultura Alessandro Giuli, l’applaudita senatrice a vita Liliana Segre, il presidente di Regione Lombardia, Attilio Fontana accompagnato dalla figlia Cristina (elegantissima in nero di Dior), il presidente della Corte Costituzionale Giovanni Amoroso, i vicepresidenti di Camera e Senato Anna Ascani e Gian Marco Centinaio e il prefetto di Milano Claudio Sgaraglia. Nero imperante, quindi, nero di pizzo, di velluto, di chiffon ma sempre nero. Con un tocco di rosso come per l’abito di Maria Grazia compagna di Giuseppe Marotta («è un vestito di sartoria, non è firmato da nessun stilista»), con dettagli verdi scelti da Diana Bracco («sono molto rigorosa»). Tutto nero l’abito/cappotto di Andrée Ruth Shammah («metto sempre questo per la Prima con i gioielli colorati di mia mamma»). E così quello di Fabiana Giacomotti molto scollato sulla schiena («è di Balenciaga, l’ultima collezione di Demna»).
Ma esce dal coro Barbara Berlusconi, la più fotografata, in un prezioso abito di Armani dalle varie sfumature, dall’argento al rosso al blu («ho scelto questo abito che avevo già indossato per celebrarlo»), accompagnata da Lorenzo Guerrieri. Fresca di nomina nel cda della Scala (voluta da Fontana), si è soffermata con i giornalisti. «La scelta di Šostakovič - afferma - conferma che la Scala non è solo un luogo di memoria: è anche un teatro che ha il coraggio di proporre opere che fanno pensare, che interrogano il pubblico, lo sfidano, e che raccontano la complessità del nostro tempo. La Lady è un titolo "ruvido", forte, volutamente impegnativo, che non cerca il consenso facile. È un'opera intensa, profonda, scomoda, ma anche attualissima per i temi che propone». E aggiunge: «Mio padre amava l'opera e ho avuto il piacere di accompagnarlo parecchi anni fa a una Prima. Questo ruolo nel cda l'ho preso con grande impegno per aiutare la Scala a proseguire nel suo straordinario lavoro». Altra componente del cda, Melania Rizzoli, in nero vintage dell’amica Chiara Boni, arrivata con il figlio Alberto Rizzoli. In nero Ivana Jelinic, ad di Enit, agenzia nazionale del Turismo. In blu firmato Antonio Riva, Giulia Crespi moglie di Angelo, direttore della Pinacoteca di Brera. In beige Ilaria Borletti Buitoni con un completo confezionato dalla sarta su un suo disegno. Letteralmente accerchiati da giornalisti, fotografi e telecamere Pierfrancesco Favino con la moglie Anna Ferzetti, Mahmood in Versace («mi sento regale») e Achille Lauro che dice quanto sia importante che l’opera arrivi ai giovani. Debutto lirico per Giorgio Pasotti mentre è una conferma per Giovanna Salza in Armani e ospite abituale è l’artista Francesco Vezzoli.
Poi, in 500, alla cena di gala firmata dallo chef 2 stelle Michelin nella storica Società del Giardino Davide Oldani. E così la Prima resta quel miracolo annuale in cui tutti, almeno per una sera, riescono a essere la versione più scintillante (e leggermente autoironica) di sé stessi.
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Guido Guidesi (Imagoeconomica)
Le Zis si propongono come aree geografiche o distretti tematici in cui imprese, startup e centri di ricerca possano operare in sinergia per stimolare l’innovazione, generare nuova occupazione qualificata, attrarre capitali, formare competenze avanzate e trattenere talenti. Nelle intenzioni della Regione, le nuove zone dovranno funzionare come poli stabili, riconosciuti e specializzati, ciascuno legato alle vocazioni produttive del proprio territorio. I progetti potranno riguardare settori differenti: manifattura avanzata, digitalizzazione, life science, agritech, energia, materiali innovativi, cultura tecnologica e altre filiere considerate strategiche.
La procedura di attivazione delle Zis è così articolata. La Fase 1, tramite manifestazione di interesse, permette ai soggetti coinvolti di presentare un Masterplan, documento preliminare in cui vengono indicati settore di specializzazione, composizione del partenariato, governance, spazi disponibili o da realizzare, laboratori, servizi tecnologici e prospetto di sostenibilità. La proposta dovrà inoltre includere la lettera di endorsement della Provincia competente. Ogni Provincia potrà ospitare fino a due Zis, senza limiti invece per le candidature interprovinciali. La dotazione economica disponibile per questa fase è pari a 1 milione di euro: il contributo regionale finanzia fino al 50% delle spese di consulenza per la stesura dei documenti necessari alla Fase 2, fino a un massimo di 100.000 euro per progetto.
La Fase 2 è riservata ai progetti ammessi dopo la valutazione iniziale. Con l’accompagnamento della Regione, i proponenti elaboreranno il Piano strategico definitivo, che dovrà disegnare una visione a lungo termine con orizzonte al 2050. Il programma di sviluppo indicherà le azioni operative: attrazione di nuove imprese e startup innovative, apertura o potenziamento di laboratori, creazione di infrastrutture digitali, percorsi formativi ad alta specializzazione, incubatori e servizi condivisi. Sarà inoltre definito un modello economico sostenibile e un sistema di monitoraggio basato su indicatori misurabili per valutare impatti occupazionali, tecnologici e competitivi.
I soggetti autorizzati alla presentazione delle candidature sono raggruppamenti pubblico-privati con imprese o startup come capofila. Possono partecipare enti pubblici, Comuni, Province, camere di commercio, università, centri di ricerca, enti formativi, fondazioni, associazioni e organizzazioni del terzo settore. Regione Lombardia avrà il ruolo di coordinatore e facilitatore. All’interno della direzione generale sviluppo economico sarà istituita una struttura dedicata al supporto dei territori: un presidio tecnico incaricato di orientare, assistere e valorizzare le progettualità, monitorando l’attuazione e la coerenza con gli obiettivi strategici.
Nel corso della presentazione istituzionale, l’assessore allo Sviluppo economico, Guido Guidesi, ha dichiarato: «Cambiamo per innovare. Le Zis saranno il connettore dei valori aggiunti di cui già disponiamo e che metteremo a sistema, ecosistemi settoriali che innovano in squadra tra aziende, ricerca, formazione, istituzioni e credito. Guardiamo al futuro difendendo il nostro sistema produttivo con l’obiettivo di consegnare opportunità ai giovani». Da Confindustria Lombardia è arrivata una valutazione positiva. Il presidente Giuseppe Pasini ha affermato: «Attraverso le Zis si intensifica il lavoro a favore delle imprese e dei territori. Apprezziamo la capacità di visione e la volontà di puntare sui giovani».
Ogni territorio svilupperà la propria specializzazione, puntando su filiere già forti o sulla creazione di nuovi segmenti tecnologici. Il percorso non prevede limiti settoriali ma richiede sostenibilità economica e capacità di generare ricadute occupazionali misurabili.
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