2022-07-26
I dubbi sulla fine dell’«orfana» di Borsellino
Considerata la settima vittima della strage di via D’Amelio, 30 anni fa moriva Rita Atria. Collaboratrice di giustizia grazie al giudice ucciso, ufficialmente è morta suicida. Ma sono troppi i buchi neri e le stranezze nelle indagini per non far sospettare la mano mafiosa.Si affacciava timidamente alla vita, Rita Atria. I suoi 17 anni avrebbero dovuto essere garanzia di giornate spensierate, come per qualunque coetanea, divise tra risate, primi amori, delusioni, sogni e studio. Ma i suoi 17 anni non erano come quelli di qualunque altra. Veniva da una famiglia mafiosa di Partanna, Rita, figlia di «don» Vito, ucciso quando lei aveva solo 11 anni, e sorella di Nicola, stessa fine pochi anni dopo. La mamma l’aveva mandata fuori a studiare, già così ragazzina, a Sciacca, non troppo lontano da casa - il loro paesino nel trapanese - ma abbastanza lontano per sperare forse di darle un futuro diverso. Aveva tanto tempo davanti, Rita, adolescente determinata e già battagliera, ma quel tempo è stato interrotto in una calda domenica estiva, il 26 luglio 1992, da un volo dal settimo piano di un palazzo romano. In via Amelia. Una strana, ma casuale, assonanza con quella via d’Amelio in cui, a Palermo, solo 7 giorni prima, era saltato in aria, con la scorta, il «suo» giudice, Paolo Borsellino. «La picciridda», come lui la chiamava, era stata strappata dalla Sicilia perché in pericolo. Sull’esempio della cognata Piera Aiello, sette anni più grande, vedova troppo giovane, da qualche mese anche Rita aveva iniziato a parlare col magistrato di tutto ciò che sapeva su Cosa Nostra, la sua famiglia, gli affari sporchi del sangue anche dei suoi cari. Aveva contribuito a fare arrestare e indagare boss, picciotti e politici del mandamento di Castelvetrano. Non un mandamento qualunque: quello di don Ciccio Messina Denaro, padre del boss latitante Matteo. Ed era perciò ormai bersaglio delle cosche che raccontava. A marzo 1992 il Tribunale dei minori di Palermo l’aveva, così, affidata all’Alto commissario per la lotta alla mafia, che provvide a trasferirla in «località protetta» a Roma. Nella capitale - le avevano detto - avrebbe avuto un rifugio sicuro. Ma quel rifugio e quella località, sicuro e protetta non lo sono stati affatto. La mafia non dimentica e non perdona. Lei lo sapeva, lo sentiva, come Falcone e Borsellino: «Mi troveranno anche qui», scriveva sul diario. E chissà che non ci abbia azzeccato. Suicidio. La sua morte viene liquidata - e archiviata - così, dal capo della polizia in persona, Vincenzo Parisi, solo quattro giorni dopo, a indagini teoricamente nel vivo. «Ci sono segnali evidenti», aveva detto. Ma proprio questa dichiarazione è la prima di una lunga serie di stranezze che accompagnano una morte affollata, ancora a 30 anni di distanza, da troppi interrogativi senza risposta. A sollevarli, per la prima volta in via ufficiale, dinanzi ai magistrati romani, sono ora la sorella maggiore di Rita, Anna Maria, e l’associazione nata 28 anni fa nel suo nome. In un esposto, Anna Atria e Nadia Furnari, vicepresidente dell’associazione, mettono insieme alcune di quelle stranezze. E leggerle, una dietro l’altra, dà i brividi. A partire dalla frase «suicidio dal quale non emergono responsabilità (penali) di terzi», con cui il pm, nella richiesta di archiviazione, lascia intendere, tra parentesi, che se nessuno ha ammazzato la ragazza, comunque altre responsabilità ci sono nella sua morte, eccome. «Chiediamo sia fatta luce, siano riaperte le indagini, contro ignoti, per omicidio volontario o istigazione al suicidio», ci dice Nadia. «La tapparella della finestra da cui Rita si sarebbe lanciata era abbassata. Sia riesumato il corpo, per cercare nuovi elementi, ad esempio sotto le unghie, e si risalga a chi doveva proteggerla e non l’ha fatto. Rita è una vittima di Stato, ancor prima che di mafia», ammonisce, per poi rivolgersi al Campidoglio: «Le sia data la cittadinanza onoraria. Qualcuno a questa povera ragazza deve chiedere scusa». Con le giornaliste Giovanna Cucè e Graziella Proto ha appena scritto anche un libro, che riunisce tutte le incongruenze del caso, confluite in parte nell’esposto. Innanzitutto il tasso alcolemico nel sangue di Rita: 0,38%. Un valore irrisorio, non fosse che l’esame è eseguito - senza notifiche alla famiglia, come per l’autopsia - ben due mesi dopo la morte, quando qualunque quantità di alcol sarebbe stata ormai smaltita. E, poiché la diciassettenne non beveva, da quel valore si desume solo una cosa: che la quantità, quand’è caduta nel vuoto, fosse tanta. Era ubriaca, scrivono le esponenti, come mai? E, soprattutto, non c’erano bottiglie intorno. Com’è possibile, se si è uccisa? Qualcuno deve averla fatta bere, è l’ipotesi, portando poi via gli alcolici e istigandola al suicidio, se non peggio. Facile riuscirci, d’altronde, con una ragazzina minorenne rimasta sola, lontana da casa, a parlar di mafia e «abbandonata» pochi giorni prima anche dal suo amato giudice. «Borsellino sei morto per ciò in cui credevi ma io senza di te sono morta», scriveva ancora sul diario.Ma non basta. Sono tante, troppe, anche le discrepanze e le carenze nelle indagini. I carabinieri non trovano tracce biologiche, neppure di Rita, che quando è morta era anche scalza. L’unica impronta, digitale, sul davanzale, non sarà mai comparata, neanche con le sue: il medico legale non le ha prelevate. In una foto c’è, sul frigo, un orologio da polso maschile. Mai repertato o sequestrato. Scomparso. Nessuno ha mai provato a cercare Gabriele, il fidanzato senza cognome, di cui restano tante lettere. Nessuno si preoccupa di far copia delle agende, i diari, i biglietti di Rita, mandati direttamente in procura a Marsala. Anzi, una rubrica è addirittura data a un ispettore di polizia senza volto e nome, che si qualifica come dell’Alto commissario e la chiede «per motivi di sicurezza». Uno dei personaggi strani, attorno a quella casa nelle prime ore del fatto, mai identificati. Non è finita. Le stesse foto dell’alloggio sono depositate solo quattro anni dopo e su richiesta del pm. Ponendo altre domande inquietanti. Scattate la sera della morte, non mostrano scritte, di cui invece parla chi è entrato in casa il giorno dopo. I «segni evidenti» di Parisi probabilmente son questi. Ma i carabinieri accorsi per primi sulla scena non ne fanno cenno e nelle immagini, appunto, non ci sono. Sono state aggiunte in un secondo momento? Forse in quel buco temporale in cui, inspiegabilmente, dopo i primi rilievi la casa viene dissequestrata per essere poi di nuovo sigillata otto ore dopo. Tutto, infine, appare pulito. Nel lavabo in cucina non ci sono le stoviglie sporche su cui relaziona - e tuttora ricorda - il primo militare giunto sul posto. Qualcuno ha lavato ogni cosa? Si spiegherebbe molto. Ciò che di certo non si spiega è l’assenza totale di quell’Alto commissariato antimafia che su Rita, piccola testimone di giustizia, avrebbe dovuto vigilare. Soprattutto dopo l’assassinio di Borsellino.E invece lei era sola. In una casa assegnatale all’improvviso, il giorno dopo l’eccidio palermitano. Dove viveva ed è morta sola. Minorenne, senza scorta e senza affetto. Sola ancora adesso, nel silenzio delle celebrazioni ufficiali per la strage di via D’Amelio, di cui pure è ritenuta la «settima vittima», e perfino della Commissione parlamentare antimafia, di cui oggi fa parte, da deputata, la cognata Piera. Aveva 17 anni, Rita. Era minacciata. Aveva «tradito» la famiglia per il «nemico» e, chissà, poteva essere utile anche per capire qualcosa in più sulle stragi. Avrebbe richiesto la massima attenzione per tutto questo. Ma, forse, è proprio per tutto questo che non l’ha avuta.