Sempre attenti alla salute pubblica, i nostri burocrati europei! Almeno stando a ciò che ci dicono. Nella realtà, in effetti, le cose potrebbero stare un po’ diversamente e qualche dubbio si fa strada quando ci addentriamo in alcuni aspetti della risoluzione con cui il Parlamento europeo ha stabilito, dal 2035, di fermare auto e furgoni inquinanti: innanzitutto la tipologia dei veicoli scelti come primo bersaglio dello stop, ovvero quelli leggeri; in secondo luogo la genesi del provvedimento.
Partiamo da qui. Determinante per il varo della deliberazione sembrerebbe una strana (e molto potente, a quanto pare) organizzazione non profit ecologista: la Transport & Environment.
Chi è e cosa faccia questa organizzazione, è presto detto, ed è anche sorprendente: è il «principale gruppo europeo per la campagna di trasporti puliti», quello che, in 30 anni di vita, ha «plasmato alcune delle più importanti leggi ambientali d’Europa», facendo in modo che l’Ue «fissasse gli standard di CO2 più ambiziosi al mondo per auto e camion» e portando «il Parlamento europeo e gli Stati membri a concordare di porre fine alle vendite di nuove auto e furgoni a combustione entro il 2035». Perbacco. Stando alla descrizione sul sito, non proprio una non profit qualunque, ma addirittura la madre biologica della nuova normativa verde, cioè colei che l’ha non solo e semplicemente ispirata, ma sostanzialmente anche partorita.
Ma chi c’è dietro questa strana organizzazione? A sbirciare tra i finanziatori, tra gli statunitensi Climate imperative foundation (Fondazione «Imperativo climatico» - nome che è già un programma - alla cui guida si annoverano vari ex funzionari della Casa Bianca, in particolare di Barack Obama e Bill Clinton), Schwab Charitable Fund (facente capo al magnate della finanza americana Charles Schwab), Rockfeller brothers fund (la «fondazione familiare privata radicata nella tradizione Rockfeller della filantropia») e tanti altri organismi di origine e compagine difficilmente conoscibili, fanno capolino anche l’Agenzia norvegese per la cooperazione allo sviluppo, il ministero dell’Ambiente tedesco e - udite udite - la Commissione europea, che conquista anzi i primi posti nella classifica dei filantropi, con fondi tra i 500.000 e il milione di euro donati.
Un decisore politico, dunque, detentore del potere esecutivo del continente europeo, che alimenta una lobby dalla composizione non proprio trasparente (e collettrice di milioni di danari), capace di influenzare pesantemente le proprie stesse decisioni. E anche se la non profit puntualizza che «le opinioni espresse sono solo quelle degli autori e non riflettono necessariamente quelle dell’Unione europea», che «non può dunque ritenersi responsabile», un «leggero» potenziale conflitto di interessi appare evidente. Peraltro, ci sarebbe anche da chiedersi come mai un’organizzazione a prevalente contributo finanziario statunitense, si preoccupi con così tanta attenzione e concentrazione della salvezza ambientale dell’Europa, tanto da indurne le Istituzioni, come detto, a fissare gli standard di CO2 «più ambiziosi al mondo» per auto e camion.
Ma non è tutto, andiamo ora ai mezzi da strada. Proprio la T&E ci spiega che a causare quasi un terzo delle emissioni da trasporto su ruota sono, da soli, camion e autobus, ovvero i mezzi pesanti, quelli esclusi dalla risoluzione Ue: al momento «rappresentano solo il 2% dei veicoli circolanti nell’Unione», ma generano il «28% delle emissioni di gas serra del trasporto in Europa». Emissioni destinate per di più a crescere con l’aumento della loro attività, che - per le previsioni della Commissione Ue - dovrebbe registrare, tra il 2020 e il 2050, un +44% per i camion e addirittura un +72% per gli autobus. Tanto che, a sentire la T&E, l’impatto della loro circolazione finirà con l’«annullare l’intero risparmio di emissioni che sarà conseguito con la progressiva elettrificazione di auto e furgoni». E allora, cosa abbiamo fatto finora, ci chiediamo? Come a dire, cioè, «scusateci, abbiamo scherzato, con il provvedimento appena approvato (voluto e ottenuto dalla stessa T&E), non abbiamo risolto assolutamente nulla».
In effetti la delusione dell’organizzazione è palpabile. Nella sua visione di mobilità «zero emission», che «ha un impatto minimo sulla nostra salute, il clima e l’ambiente» (assonanza inquietante con la politica «zero Covid» insensatamente perseguita da molte Istituzioni, tra cui i nostri precedenti governi), ciò che l’Europa ha fin qui fatto non è sufficiente: deve irrigidire il suo intervento e tranciare anche i veicoli pesanti.
Che questo presto avverrà è fuor di dubbio. Se la Transport & Environment ha avuto la forza di indurre l’Unione europea a far fuori automobili e furgoni a combustione, pur di fronte a colossi dell’automotive come quelli tedeschi e francesi, c’è da giurare che avrà anche la forza di far fuori camion e bus. E, in effetti, proprio martedì, nel giorno della votazione del Parlamento, la Commissione ha adottato una proposta di revisione del Regolamento sulle emissioni di CO2 per i veicoli pesanti che va nella stessa direzione e che, come già riportato su queste pagine, preoccupa non poco le associazioni di autotrasporto.
E come avrebbe potuto essere diversamente? In un sillogismo aristotelico applicato creativamente, la Commissione foraggia la T&E; la T&E chiede alla Commissione l’azzeramento delle emissioni da trasporto; la Commissione esegue e azzera. Quando si dice la logica…
Si affacciava timidamente alla vita, Rita Atria. I suoi 17 anni avrebbero dovuto essere garanzia di giornate spensierate, come per qualunque coetanea, divise tra risate, primi amori, delusioni, sogni e studio. Ma i suoi 17 anni non erano come quelli di qualunque altra. Veniva da una famiglia mafiosa di Partanna, Rita, figlia di «don» Vito, ucciso quando lei aveva solo 11 anni, e sorella di Nicola, stessa fine pochi anni dopo. La mamma l’aveva mandata fuori a studiare, già così ragazzina, a Sciacca, non troppo lontano da casa - il loro paesino nel trapanese - ma abbastanza lontano per sperare forse di darle un futuro diverso. Aveva tanto tempo davanti, Rita, adolescente determinata e già battagliera, ma quel tempo è stato interrotto in una calda domenica estiva, il 26 luglio 1992, da un volo dal settimo piano di un palazzo romano. In via Amelia.
Una strana, ma casuale, assonanza con quella via d’Amelio in cui, a Palermo, solo 7 giorni prima, era saltato in aria, con la scorta, il «suo» giudice, Paolo Borsellino. «La picciridda», come lui la chiamava, era stata strappata dalla Sicilia perché in pericolo. Sull’esempio della cognata Piera Aiello, sette anni più grande, vedova troppo giovane, da qualche mese anche Rita aveva iniziato a parlare col magistrato di tutto ciò che sapeva su Cosa Nostra, la sua famiglia, gli affari sporchi del sangue anche dei suoi cari. Aveva contribuito a fare arrestare e indagare boss, picciotti e politici del mandamento di Castelvetrano. Non un mandamento qualunque: quello di don Ciccio Messina Denaro, padre del boss latitante Matteo. Ed era perciò ormai bersaglio delle cosche che raccontava.
A marzo 1992 il Tribunale dei minori di Palermo l’aveva, così, affidata all’Alto commissario per la lotta alla mafia, che provvide a trasferirla in «località protetta» a Roma. Nella capitale - le avevano detto - avrebbe avuto un rifugio sicuro. Ma quel rifugio e quella località, sicuro e protetta non lo sono stati affatto. La mafia non dimentica e non perdona. Lei lo sapeva, lo sentiva, come Falcone e Borsellino: «Mi troveranno anche qui», scriveva sul diario. E chissà che non ci abbia azzeccato.
Suicidio. La sua morte viene liquidata - e archiviata - così, dal capo della polizia in persona, Vincenzo Parisi, solo quattro giorni dopo, a indagini teoricamente nel vivo. «Ci sono segnali evidenti», aveva detto. Ma proprio questa dichiarazione è la prima di una lunga serie di stranezze che accompagnano una morte affollata, ancora a 30 anni di distanza, da troppi interrogativi senza risposta.
A sollevarli, per la prima volta in via ufficiale, dinanzi ai magistrati romani, sono ora la sorella maggiore di Rita, Anna Maria, e l’associazione nata 28 anni fa nel suo nome. In un esposto, Anna Atria e Nadia Furnari, vicepresidente dell’associazione, mettono insieme alcune di quelle stranezze. E leggerle, una dietro l’altra, dà i brividi. A partire dalla frase «suicidio dal quale non emergono responsabilità (penali) di terzi», con cui il pm, nella richiesta di archiviazione, lascia intendere, tra parentesi, che se nessuno ha ammazzato la ragazza, comunque altre responsabilità ci sono nella sua morte, eccome. «Chiediamo sia fatta luce, siano riaperte le indagini, contro ignoti, per omicidio volontario o istigazione al suicidio», ci dice Nadia. «La tapparella della finestra da cui Rita si sarebbe lanciata era abbassata. Sia riesumato il corpo, per cercare nuovi elementi, ad esempio sotto le unghie, e si risalga a chi doveva proteggerla e non l’ha fatto. Rita è una vittima di Stato, ancor prima che di mafia», ammonisce, per poi rivolgersi al Campidoglio: «Le sia data la cittadinanza onoraria. Qualcuno a questa povera ragazza deve chiedere scusa».
Con le giornaliste Giovanna Cucè e Graziella Proto ha appena scritto anche un libro, che riunisce tutte le incongruenze del caso, confluite in parte nell’esposto. Innanzitutto il tasso alcolemico nel sangue di Rita: 0,38%. Un valore irrisorio, non fosse che l’esame è eseguito - senza notifiche alla famiglia, come per l’autopsia - ben due mesi dopo la morte, quando qualunque quantità di alcol sarebbe stata ormai smaltita. E, poiché la diciassettenne non beveva, da quel valore si desume solo una cosa: che la quantità, quand’è caduta nel vuoto, fosse tanta. Era ubriaca, scrivono le esponenti, come mai? E, soprattutto, non c’erano bottiglie intorno. Com’è possibile, se si è uccisa? Qualcuno deve averla fatta bere, è l’ipotesi, portando poi via gli alcolici e istigandola al suicidio, se non peggio. Facile riuscirci, d’altronde, con una ragazzina minorenne rimasta sola, lontana da casa, a parlar di mafia e «abbandonata» pochi giorni prima anche dal suo amato giudice. «Borsellino sei morto per ciò in cui credevi ma io senza di te sono morta», scriveva ancora sul diario.
Ma non basta. Sono tante, troppe, anche le discrepanze e le carenze nelle indagini. I carabinieri non trovano tracce biologiche, neppure di Rita, che quando è morta era anche scalza. L’unica impronta, digitale, sul davanzale, non sarà mai comparata, neanche con le sue: il medico legale non le ha prelevate. In una foto c’è, sul frigo, un orologio da polso maschile. Mai repertato o sequestrato. Scomparso. Nessuno ha mai provato a cercare Gabriele, il fidanzato senza cognome, di cui restano tante lettere. Nessuno si preoccupa di far copia delle agende, i diari, i biglietti di Rita, mandati direttamente in procura a Marsala. Anzi, una rubrica è addirittura data a un ispettore di polizia senza volto e nome, che si qualifica come dell’Alto commissario e la chiede «per motivi di sicurezza». Uno dei personaggi strani, attorno a quella casa nelle prime ore del fatto, mai identificati.
Non è finita. Le stesse foto dell’alloggio sono depositate solo quattro anni dopo e su richiesta del pm. Ponendo altre domande inquietanti. Scattate la sera della morte, non mostrano scritte, di cui invece parla chi è entrato in casa il giorno dopo. I «segni evidenti» di Parisi probabilmente son questi. Ma i carabinieri accorsi per primi sulla scena non ne fanno cenno e nelle immagini, appunto, non ci sono. Sono state aggiunte in un secondo momento? Forse in quel buco temporale in cui, inspiegabilmente, dopo i primi rilievi la casa viene dissequestrata per essere poi di nuovo sigillata otto ore dopo. Tutto, infine, appare pulito. Nel lavabo in cucina non ci sono le stoviglie sporche su cui relaziona - e tuttora ricorda - il primo militare giunto sul posto. Qualcuno ha lavato ogni cosa? Si spiegherebbe molto.
Ciò che di certo non si spiega è l’assenza totale di quell’Alto commissariato antimafia che su Rita, piccola testimone di giustizia, avrebbe dovuto vigilare. Soprattutto dopo l’assassinio di Borsellino.
E invece lei era sola. In una casa assegnatale all’improvviso, il giorno dopo l’eccidio palermitano. Dove viveva ed è morta sola. Minorenne, senza scorta e senza affetto. Sola ancora adesso, nel silenzio delle celebrazioni ufficiali per la strage di via D’Amelio, di cui pure è ritenuta la «settima vittima», e perfino della Commissione parlamentare antimafia, di cui oggi fa parte, da deputata, la cognata Piera.
Aveva 17 anni, Rita. Era minacciata. Aveva «tradito» la famiglia per il «nemico» e, chissà, poteva essere utile anche per capire qualcosa in più sulle stragi.
Avrebbe richiesto la massima attenzione per tutto questo. Ma, forse, è proprio per tutto questo che non l’ha avuta.
«Buongiorno, ho prenotato un tampone molecolare». «Tessera sanitaria, prego. Per cosa le serve?». «Ho un principio di tracheite e voglio quindi fare un controllo». Panico. «Ah…». La signorina dietro il vetro della reception, giovanissima, elegante, garbata, mi guarda interdetta. Esita qualche istante, riflette, mi risponde: «Sa, se ha sintomi non lo può fare qui da noi». E l’interdetta a questo punto sono io. «Come, non posso farlo da voi se ho sintomi? E allora perché mai dovrei chiedere un tampone molecolare? L’ho prenotato proprio perché li ho!». «Capisco, ma deve andare all’Asl, contattando il suo medico curante per la ricetta. Indiii? Scusami, vieni un attimo?». Da una delle stanzette del laboratorio di analisi privato esce un’altra ragazza molto giovane, di nazionalità indiana probabilmente, e raggiunge la collega in reception. «Indi, la signora ha prenotato un molecolare, ma ha dei sintomi. Deve andare all’Asl, vero? Che dici, possiamo farglielo noi?». La receptionist pone quest’ultima domanda come se in fondo attendesse un timido assenso, per provare a forzare quella che per loro - capisco subito dopo - è una procedura precisa. L’altra, però, anche lei con modi garbati, mi guarda quasi a scusarsi e, altrettanto timidamente, ribatte: «No, mi spiace, non possiamo noi se ha sintomi, deve passare per il suo medico…».
A questo punto inizio a inalberarmi: «Ma io non sono di qui, sono di Roma, e il mio medico è lì! Come faccio a farmi prescrivere un tampone su Verona?». Le due si guardano: «Potrebbe andare alla guardia medica?». Si girano poi verso di me e suggeriscono: «Dopo ci sono i drive in, prenota, va in coda e glielo fanno lì». «Ma vi rendete conto di cosa significhi? Dove la trovo una guardia medica! E il drive in! Non so neanche come spostarmi. Ma possibile che non possiate fare il tampone a chi ha sintomi? Ma che li fate a fare?», ribatto io, sempre più nervosa. «Sa, è anche per proteggere noi», aggiunge la receptionist, con un sorriso accennato. Che serve a poco per calmarmi. Io sbotto definitivamente: «Si rende conto che è una cosa ridicola e assurda? Ci sono centinaia di asintomatici super contagiosi che vengono a fare il tampone da voi!».
largo agli asintomatici
Taccio sul fatto che mi son già sottoposta a un antigenico, risultato negativo, e continuo: «Avrei quindi fatto meglio a dirvi che non ho nulla! Vorrei capire come una persona temporaneamente fuori sede possa scoprire rapidamente se è positiva, così da intervenire subito, nel caso!». Riprendo nervosamente la mia tessera sanitaria e, brontolando, me ne vado di scatto. «Ma robe da matti, fate soldi sulla salute della gente e quando serve non date il servizio, grazie!», bofonchio uscendo dalla porta d’ingresso.
Sono furiosa. Mi risuona in testa il «è anche per proteggere noi». Meno male che i dipendenti dei laboratori analisi e tutti i lavoratori della sanità sono vaccinati, e per obbligo, penso! «A cosa vi serve il vaccino se avete continuamente paura di fare il vostro lavoro?! Dovreste sentirvi protetti, no? E invece…», dico, nera, tra me e me. Oltretutto considerata la giovanissima età delle due gentili impiegate, già di per sé statisticamente a basso rischio in caso di contagio.
Continuo a riflettere sul fatto che la sanità privata dovrebbe essere complemento e completamento della sanità pubblica, almeno quella in convenzione. Dovrebbe contribuire a decongestionare strutture e servizi delle aziende locali e ospedaliere, che non riescono - stante lo stato comatoso in cui versa il settore un po’ ovunque - a soddisfare la domanda di salute della popolazione. A maggior ragione con l’emergenza Covid, come abbiamo purtroppo visto negli ultimi due anni.
diagnosi ritardate
Nel caso dei tamponi, in particolare, ricordo bene quando, dopo mesi di mancate o ritardate diagnosi causa penuria di risorse e ambulatori in cui effettuarli, si era deciso di autorizzare i privati a erogare il servizio. Anche per avere referti celeri, fondamentali - come ormai sappiamo - per garantire quelle terapie precoci che, nella quasi totalità dei casi, sembrano evitare l’aggravarsi del contagio.
Ebbene, scopro invece che c’è chi, nel privato, esegue tamponi solo a persone che scoppiano di salute (quindi sostanzialmente inutili). Per tutte le altre - che sono poi quelle che ne hanno realmente bisogno - continua a valere il risucchio nel girone infernale dei medici curanti introvabili, siti o call center Asl per prenotazioni a volte impossibili e drive in con file spesso interminabili. E lì capisci non solo di dover evidentemente scontare peccati di cui non conoscevi l’esistenza, ma anche che il tuo diritto alla salute è in fondo solo un accessorio. Nessuno se ne occupa e preoccupa davvero, nemmeno a due anni e mezzo di distanza dallo scoppio della pandemia. Ciò che conta realmente, in materia Covid, è solo il green pass, acquistabile, con cifre dai 22 ai 120 euro, ovunque e quando tu voglia, purché il test ti serva appunto per lavorare, usare i mezzi pubblici, andare in discoteca. Ma non per poterti curare.
Ps. Alla fine il tampone l’ho fatto, in un’altra struttura della stessa catena di laboratori, dove ho prenotato subito dopo. La receptionist mi ha direttamente chiesto: «Le serve per viaggiare?». Ho risposto «Sì».





